Alla ricerca del tempo perduto

Nell’opera di Marcel Proust non vi è traccia del medico ciarlatano e irriverente nei confronti del paziente.

Voi, signora, vi credevate malata – gravemente malata, forse. Dio sa di quale affezione credevate di scoprirvi i sintomi. E non vi sbagliavate, li avevate davvero. Il nervosismo è un imitatore geniale. Non c’è malattia che non sappia contraffare a meraviglia. Riproduce perfettamente la dilatazione dei dispeptici, le nausee della gravidanza, l’aritmia del cardiopatico, lo stato febbrile del tubercoloso. Se cade nel tranello il medico, come potrebbe non caderci il malato? Ah! Non pensate ch’io sorrida dei vostri mali, non mi prenderei la responsabilità di curarli se non li comprendessi. Del resto, non c’è buona confessione che non sia reciproca. Ecco qua: vi ho detto che senza malattia nervosa non c’è grande artista; ebbene (e alzò gravemente l’indice), non c’è nemmeno grande scienziato. Aggiungerò che, se non si è affetti a propria volta da qualche malattia nervosa, non si può essere, non fatemi dire un buon medico, ma semplicemente un accettabile medico di malattia nervose.

[…] le manifestazioni di cui soffrite svaniranno alle mie parole. E poi, accanto a voi c’è qualcuno che è dotato d’un gran potere e che io, ormai, ho trasformato nel vostro medico è il vostro stesso male, la vostra iperattività nervosa. Sapessi come guarirvene, mi guarderei bene dal farlo. Mi basta impartirgli degli ordini. Vedo sul vostro tavolo un libro di Bergotte. Guarita dal vostro nervosismo, non l’amereste più. Ebbene, come potrei arrogarmi il diritto di scambiare le gioie che vi procura Bergotte con un’integrità nervosa assolutamente inadeguata a darvene di uguali?

Marcel Proust

Enciclopedia Treccani Online

Marcel Proust, “Alla ricerca del tempo perduto” (1913)

Memoriale di un folle

Passato e presente, vita e morte, moglie e madre: binomi di una mente disturbata.

Caddi stroncato da un accesso di febbre. Da quindici anni non avevo più avuto una malattia seria, e mi stupivo di questo incidente capitatomi così inopportuno: non che temessi di morire (…) questa fine precipitosa non poteva rallegrarmi. (…)  Roso dalla febbre che mi squassava come un materasso di piume, mi afferrava alla gola per strangolarmi, mi schiacciava il petto con un ginocchio, mi bruciava al punto di farmi uscire gli occhi dalle orbite, restavo nella mia soffitta solo con la morte, che certamente mi era scivolata di soppiatto in camera e ora si gettava su di me!

<No, non lo voglio vedere il medico><Perché?> <Perché non lo voglio vedere>

I nostri occhi si scambiarono tutta una serie di sottintesi >Voglio morire> dissi per finirla. <La vita mi nausea, il passato mi torna alla mente come una matassa aggrovigliata che non ho la forza di dipanare. Che i miei occhi si riempiano di berio e si tirino le tende!>

Davanti ai miei nobili e coraggiosi sfoghi, ella restava insensibile.

<I tuoi vecchi sospetti…sempre?> disse

<Sì, sempre. Fa’ sparire il fantasma! Solo tu sei riuscita a scacciarlo via finora!>

Con un gesto abituale, posò sulla mia fronte la sua dolce mano, e, con finta aria di mammina, come un tempo, disse: 

<Va bene così?>

<Sì, così va bene!>

Ed era vero. Il semplice contatto di quella manina leggera, piombata così pesante nel mio destino, aveva la facoltà di scacciare le visioni nere, respingendo le inquietudini furtive.

Presto la febbre mi riprese, e più forte. Mia moglie si alzò per prepararmi una tisana di sambuco.

Essendo manifesta la maternità di Maria non mi reputo più tenuto in amore, a certe precauzioni; e siccome non c’è più motivo di rifiutarsi, inventa scuse per infastidirmi e quando vede la mia soddisfazione dopo i nostri liberi amplessi, mi serba rancore per l’innocente gioia che mi è venuta da lei.

E’ fin troppa felicità per me, visto che i miei disturbi nervosi vengono proprio dalla continenza! Intanto la mia affezione gastrica si aggrava al punto che non posso inghiottir altro che brodo e la notte mi sveglio con terribili crampi allo stomaco e bruciori insopportabili, che cerco di calmare bevendo latte freddo.

August Johan Strindberg

Enciclopedia Treccani Online

August Johan Strindberg, “Memoriale di un folle” (Armando Curcio ed. 1978)

I pazzi salutano Clarisse

La tragica realtà di un reparto psichiatrico dove si intrecciano il lavoro del medico, di Clarisse, dei malati e di ciò che avviene nella loro mente.

Un “reparto tranquillo”, – spiegò il medico.

C’erano soltanto donne; avevano i capelli sciolti sulle spalle e i loro visi erano repulsivi, con lineamenti molli, enfiati, deformi.

Una di esser corse subito dal medico e gli consegnò una lettera.

E’ sempre la stessa storia, – disse Friedenthal e lesse forte:

-“Adolfo mio adorato! Quando vieni? Mi hai dimenticata?” –

La donna, più che sessantenne, ascoltava con aria ebete. – La spedirai subito, vero? – ella pregò – Certo! – promise il dotto Friedenthal e sotto i suoi occhi strappò la lettera ammiccando alla sorvegliante. Clarisse lo rimproverò: – Come può agire così? – esclamò con sdegno – I malati bisogna prenderli sul serio!

Venga via! – esortò Friedenthal. – Non mette conto di fermarsi qui. Se vuole le posso mostrare centinaia di lettere simili. Avrà osservato che la vecchia è rimasta indifferente quando ho strappato il suo biglietto.

Clarisse era allibita perché ciò che diceva il dottore era vero ma le sconvolgeva le idee.

(Cfr. Lechon, Il difficile problema del rispetto del paziente psichico)

sovente sono grandi artisti, molto moderni.

E ammalati? – dubitò Clarisse.

– Perché no? – sospirò Friedenthal pateticamente.

“Dunque anche un’arte rispettabile e rispettata come l’accademia ha una sorella rinnegata, defraudata e tuttavia quasi identica in manicomio?”

Nei letti della nuova stanza eran seduti o buttati una serie di orrori. Tutto di quei corpi era storto, imbrattato, contraffatto o paralitico. Dentature guaste. Teste ciondolanti. Crani troppo grandi, troppo piccoli e tutti deformi. Mascelle cascanti, colanti di saliva, bocche macinanti a vuoto, animalescamente, senza cibo né parole. (…)

Le sale dei gravemente affetti da idiozia sono fra gli spettacoli più raccapriccianti che si possan trovare nelle brutture di un manicomio, e Clarisse si sentì sprofondare in una tenebra fitta e spaventosa dove non distingueva più nulla.

Il dottor Friedenthal la seguiva spiegando: – Idiozia familiare amaurotica – Sclerosi ipertrofica tuberosa. – Idiozia timica.

Il generale che s’era stufato di vedere ebeti e lo stesso supponeva di Ulrich, guardò l’orologio e disse: – Dov’eravamo rimasti? 

il dottor Friedenthal (…)

Era abituato a quel, trantran. Ordine come in una caserma o in ogni altra comunità, alleviamento delle principali sofferenze e incomodi, prevenzione dei peggioramenti evitabili, ogni tanto un miglioramento, una guarigione: questi erano gli elementi della sua attività quotidiana. (…)

Adesso entriamo in un reparto di agitati, – annunziò Friedenthal, e già s’avvicinavano a uno schiamazzo, a un grido, che pareva erompere da un’immensa gabbia d’uccelli. (…)

Tutti i pazzi roteavano gli occhi e le braccia, eccitati e urlanti (…)

Alcuni erano liberi, altri erano legati all’orlo dei letti con cinghie che lasciavano pochissimo gioco alle mani. (…)

Infine il pazzo disse lentamente: – E’ il settimo figlio dell’Imperatore.

Stumm von Bordwehr diede una gomitata a Ulrich.

– Non è vero, – contraddisse Friendenthal, e continuando il gioco si rivolse a Clarisse coll’invito: – Gli dica lei stessa che s’inganna.

– Non è vero, amico mio, – mormorò Clarisse, che per la commozione quasi non riusciva a parlare.

Robert Musil

Trecani Enciclopedia Online

Robert Musil, “L’uomo senza qualità” (1930-1942)

La coscienza di Zeno

Italo Svevo descrive il rapporto tra uno psicoanalista e un suo paziente molto problematico.

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di pisco-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica. 

[…] Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorari che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura.

[…] Il dottore al quale ne parlai mi disse d’iniziare il mio lavoro con un’analisi storica della mia propensione al fumo:
– Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero.

[…] La malattia, è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione. Di quella dei miei vent’anni non ricorderei gran cosa se non l’avessi allora descritta ad un medico, 

Curioso come si ricordino meglio le parole dette che i sentimenti che non arrivarono a scotere l’aria.

Ero andato da quel medico perché mera stato detto che guariva le malattie nervose con l’elettricità. Io pensai di poter ricavare dall’elettricità la forza che occorreva per lasciare il fumo.

[…] Furono settanta le applicazioni elettriche e avrebbero continuato tuttora se io non avessi giudicato di averne avute abbastanza. Più che attendermi dei miracoli, correvo a quelle sedute nella speranza di convincere il dottore a proibirmi il fumo. Chissà come sarebbero andate le cose se allora fossi stato fortificato nei miei propositi da una proibizione simile.

Ed ecco la descrizione della mia malattia quale io la feci al medico: « Non posso studiare e anche le rare volte in cui vado a letto per tempo, resto insonne fino ai primi rintocchi delle campane. È perciò che tentenno fra la legge e la chimica perché ambedue queste scienze hanno l’esigenza di un lavoro che comincia ad un’ora fissa mentre io non so mai a che ora potrò essere alzato».

  • L’elettricità guarisce qualsiasi insonnia,- sentenziò l’Esculapio, gli occhi sempre rivolti al quadrante anziché al paziente.

Giunsi a parlare con lui come s’egli avesse potuto intendere la psico-analisi ch’io, timidamente, precorsi. Gli raccontai della mia miseria con le donne. Una non mi bastava e molte neppure. Le desideravo tutte!

[…] Il grosso uomo dimagrato non diede subito la sua risposta. Era un uomo di metodo e prima ci pensò lungamente. Poi con aria dottorale che gli competeva data la sua grande superiorità in argomento, mi spiegò che la mia vera malattia era il proposito  non la sigaretta. Dovevo tentar di lasciare quel vizio senza farne un proposito. In me – secondo lui – nel corso degli anni erano andate a formarsi due persone di cui una comandava e l’altra non era altro che uno schiavo il quale, non appena la sorveglianza diminuiva, contravveniva alla volontà del padrone per amore alla libertà. Bisognava perciò dargli la libertà assoluta e nello stesso tempo dovevo guardare il mio vizio in faccia come se fosse nuovo e non l’avessi mai visto. Bisognava non combatterlo, ma trascurarlo e dimenticare in certo modo di abbandonarvisi volgendogli le spalle con noncuranza come a compagnia che si riconosca indegna di sé.

Semplice, nevvero?

[…] Dal maggio dell’anno scorso non avevo più toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dottor S. i scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacchè possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ho poco tempo perché il mio commercio occupa la mia giornata. Ma al signor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare.

Intanto egli crede di ricevere altre mie confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppure il bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri.

Italo Svevo

Treccani Enciclopedia Online

Italo Svevo, “La coscienza di Zeno” (1923)

Le memorie di un pazzo

Gogol scrive il racconto delirante di un uomo uscito di senno: Cina e Spagna sono la stessa nazione; febbraio ha 30 giorni e gennaio lo segue nel calendario.

3 ottobre

[…]L’ho riconosciuta subito: era la carrozza del nostro direttore. Ma lui non aveva motivo d’entrare in quel negozio, ho pensato; di certo è sua figlia. Mi sono addossato al muro. Il lacchè ha aperto gli sportelli e lei è svolazzata fuori dalla carrozza come un uccellino. Che occhiate ha dato a destra e a sinistra, che balenio di ciglia e di occhi… Signoriddio! Ero perduto, completamente perduto. E perchè poi lei era uscita con un tempo così piovoso? E va’ poi a raccontare che le donne non perdono la testa per tutti quegli stracci! Lei non mi ha riconosciuto, e del resto anch’io di proposito mi sono imbacuccato il più possibile, perchè avevo indosso un cappotto molto sudicio e poi di vecchio taglio. Adesso si portano i mantelli con il collo a scialle, mentre il mio è abbottonato sino in cima; e poi anche la stoffa non è affatto buona. La sua cagnetta, che non aveva fatto in tempo a infilare la porta del negozio, è rimasta sulla strada. Conosco questa cagnetta. Si chiama Meggy. Stavo lì appena da un minuto quando, a un tratto, sento una vocina sottile: «Salve, Meggy.» Questa si che era bella! Chi aveva parlato? Mi sono guardato in giro e ho visto due signore che camminavano sotto a un ombrello: una vecchia, l’altra abbastanza giovane; ma loro erano già passate e vicino a me ho udito di nuovo: «Guai a te, Meggy!» Che razza di diavolo! Allora ho visto che Meggy annusava l’altra cagnetta che seguiva le signore. Eh! mi son detto; questo è troppo, non sarò ubriaco? Davvero, per quanto mi risulta questa è una cosa che mi succede molto di rado. «No, Fidèle, fai male a pensare così», e io con i miei occhi ho visto che era Meggy a parlare. «Sono stata, bau! bau! Sono stata, bau, bau, bau! molto ammalata.» Ah, razza di cagnetta! Confesso d’essermi molto stupito a sentirla parlare nella lingua degli uomini. Ma poi, quando ho ragionato per bene su tutto questo, ho cessato di meravigliarmi. Effettivamente, al mondo ci sono già stati parecchi esempi del genere. Si dice che in Inghilterra sia venuto a galla un pesce il quale ha detto due parole in una lingua stranissima che da tre anni ormai gli scienziati si sforzano di decifrare, ma finora non hanno scoperto nulla. Sui giornali ho letto anche di due vacche che sono entrate in un negozio e hanno chiesto una libbra di tè. Ma, lo confesso, mi sono meravigliato molto di più quando Meggy ha detto: «Io ti ho scritto, Fidèle; di certo Polkan non ha portato la mia lettera!» Che non riceva lo stipendio se in vita mia avevo mai sentito che un cane potesse scrivere. Solo un nobile può scrivere correttamente. Sì, naturale, anche certi mercanti e persino i servi della gleba talvolta scrivono, ma il loro scrivere per lo più è meccanico: nè virgole, nè punti, nè stile.

Anno 2000, 43 aprile

Oggi è una giornata di immenso trionfo! In Spagna c’è un re. È stato trovato. Questo re sono io. L’ho saputo solo oggi. Confesso che, di colpo, è stato come se avessi avuto un’illuminazione. Non capisco come abbia potuto immaginarmi di essere un consigliere titolare. Come mi sia passato per il capo un pensiero così stravagante. Meno male che nessuno ha pensato allora di mettermi in manicomio. Adesso tutto è chiaro dinanzi a me. Adesso vedo tutto come sul palmo della mano. Mentre prima, io non capisco, prima tutto mi stava davanti come in una nebbia. E tutto questo, credo, avviene perchè gli uomini credono che il cervello umano si trovi nella testa; nient’affatto: lo porta il vento dalla parte del Mar Caspio. Dapprima ho annunciato a Mavra chi sono io. Quando ha sentito che dinanzi a lei stava il re di Spagna, ha battuto le mani e per poco non moriva dalla paura. Stupida, lei non ha mai visto il re di Spagna. Io, tuttavia, ho cercato di tranquillizzarla e con parole affettuose ho cercato di assicurarla circa i miei sentimenti, e che non me la sarei presa se certe volte lei mi ha pulito male le scarpe. Questa infatti è plebaglia. A loro non si può parlare di argomenti elevati. Lei si è spaventata, perchè è convinta che tutti i re in Spagna assomigliano a Filippo II. Ma io le ho spiegato che fra me e Filippo non c’è nessuna affinità e che io non ho nemmeno un cappuccino … Al ministero non sono andato. Al diavolo anche quello! No, amici, adesso non mi attirate più; non mi metterò a copiare le vostre schifose carte!

Madrid, 30 febbraio

E così sono in Spagna e tutto è successo così rapidamente che ho fatto appena in tempo a fiatare. Questa mattina si sono presentati da me i deputati spagnoli e sono salito con loro in carrozza. M’è sembrata strana l’insolita velocità. Andavamo così lesti che in mezz’ora abbiamo raggiunto la frontiera spagnola. Del resto, adesso in tutta l’Europa ci sono strade ferrate e i treni viaggiano velocissimi. Strano paese la Spagna: quando siamo entrati nella prima stanza ho visto una quantità di persone con la testa rapata. Però ho intuito che dovevano essere domenicani o cappuccini, perchè loro si rapano la testa. Mi è sembrato molto strano il modo di fare del cancelliere di stato, che mi ha preso per mano, mi ha spinto in una piccola stanza e ha detto: «Siediti qui, e se seguiti a raccontare di essere il re Ferdinando, te la levo io la voglia.» Ma io, sapendo che quello era solamente un modo per tentarmi, ho risposto picche, per la qual cosa il cancelliere mi ha battuto due volte sulla schiena con un bastone e in modo così doloroso che per poco non lanciavo un grido, ma mi sono trattenuto ricordando che si tratta d’un uso cavalleresco quando si assurge a un alto titolo, giacchè in Spagna sono ancor oggi in vigore gli usi cavallereschi. Rimasto solo, ho deciso di occuparmi degli affari di stato. Ho scoperto che la Cina e la Spagna sono la stessa identica terra e solo per ignoranza li considerano due stati diversi. Consiglio a tutti di provare a scrivere su un pezzo di carta «Spagna» : verrà fuori «Cina». Mi ha tuttavia straordinariamente amareggiato un avvenimento che deve aver luogo domani. Domani alle sette si compirà uno strano fenomeno: la terra si poserà sulla luna. Ne scrive anche il celebre chimico inglese Wellington. Confesso che mi sono sentito stringere il cuore considerando l’insolita morbidezza e la fragilità della luna. La luna infatti di solito viene fatta ad Amburgo, e vien fatta malissimo. Mi stupisco come l’Inghilterra non se ne interessi. La fa un bottaio zoppo ed è evidente che quel cretino non ha nessuna nozione della luna. Adopera del catrame e olio; per questo su tutta la terra c’è un lezzo terribile, tanto che bisogna tapparsi il naso. E per questo che la luna stessa è un globo così tenero che gli uomini non possono viverci e adesso lassù ci vivono solamente i nasi. E per questo anche che noi non possiamo vedere i nostri nasi, giacchè si trovano tutti sulla luna. E quando ho considerato che la terra è una materia pesante e, posandosi, può schiacciare i nostri nasi, mi ha preso un’inquietudine tale che, infilatemi calze e scarpe, sono corso nella sala del consiglio di stato per dare ordine alla polizia di non autorizzare la terra a posarsi sulla luna. I cappuccini, di cui ho trovato un gran numero nella sala del consiglio di stato, erano gente molto intelligente, e, quando ho detto: «Signori, salviamo la luna, perchè la terra vuole posarsi su di lei», all’istante si sono precipitati tutti a eseguire la mia sovrana volontà e molti si sono arrampicati sul muro allo scopo di agguantare la luna, ma in quel momento è entrato il grande cancelliere. Vedendolo, tutti sono scappati via. Io, in quanto re, sono rimasto solo. Ma, con mia meraviglia, il cancelliere mi ha colpito con il bastone e mi ha cacciato nella mia stanza. Tanto potere ha ancor oggi in Spagna l’usanza popolare.

Gennaio dello stesso anno, che vien dopo febbraio

Non riesco ancora a capire che razza di paese sia la Spagna. Le usanze e l’etichetta di corte sono assolutamente insolite. Non capisco, non capisco, proprio non capisco. Oggi mi hanno rapato la testa sebbene gridassi con tutte le forze che non desideravo farmi monaco. Ma non sono più capace di ricordare che cosa ne è stato di me quando hanno cominciato a versarmi sulla testa dell’acqua fredda. Un inferno simile non l’avevo ancora mai provato. Ero lì lì per montare su tutte le furie, tanto che a fatica potevano trattenermi. Non capisco assolutamente il significato di questa strana usanza. Usanza stupida, insensata! Mi è incomprensibile l’irragionevolezza dei re, che ancora non l’aboliscono. A giudicare da tutte le apparenze, credo di indovinare, forse sono caduto nelle mani dell’Inquisizione e quello che ho preso per il cancelliere forse è il grande inquisitore. Solamente non riesco ancora a capire come il re possa esser sottomesso all’Inquisizione. È vero che potrebbe essere una cosa che viene dalla Francia, e probabilmente da Polignac. Oh, quella bestia di Polignac! Ha giurato di danneggiarmi mortalmente. Ed ecco che mi perseguita e mi perseguita, ma io lo so, amico bello, che è l’inglese che ti guida. L’inglese è un gran politico. S’intrufola dappertutto. È ormai universalmente noto che quando I’Inghilterra fiuta il tabacco, la Francia starnuta.

Giorno 25

Oggi il grande inquisitore è venuto nella mia stanza, ma io, avendo sentito da lontano i suoi passi, mi sono nascosto sotto una sedia. Vedendo che non c’ero, lui ha cominciato a chiamarmi. Prima ha gridato: «Poprišèìn!» e io, neanche una parola. Poi: «Aksèntij Ivànoviè! Consigliere titolare! Nobile!» Io, sempre zitto. «Ferdinando VIII, re di Spagna!» Avrei voluto cacciar fuori la testa, ma poi ho pensato: no, bello, non me la fai! Ti conosco, mascherina: mi vuoi versare di nuovo dell’acqua fredda sulla testa. Lui però mi ha visto e col bastone mi ha fatto uscire di sotto la sedia. Quel maledetto bastone colpisce in una maniera incredibilmente dolorosa. Comunque, di tutto questo mi ha ricompensato la scoperta che ho fatto oggi: sono venuto a sapere che ogni gallo ha una Spagna e che essa si trova sotto le sue penne. Il grande inquisitore, tuttavia, se n’è andato furibondo, minacciandomi chissà che castigo. Ma io non ho fatto assolutamente caso alla sua rabbia impotente, sapendo che lui agisce come una macchina, come uno strumento degli inglesi.

Li 34 slo Mc gdao febbraio 349

No, non ho più la forza di sopportare. Dio! che cosa fanno di me! Mi versano in testa acqua fredda. Non mi ascoltano, non mi vedono, non mi danno retta. Che cosa gli ho fatto? Perchè mi torturano? Che cosa vogliono da me, poveretto? Che cosa posso dargli? Io non ho niente. Non ho la forza, non posso sopportare tutte le loro torture, la testa mi brucia e tutto mi gira intorno. Salvatemi! Portatemi via! Datemi una trojka di cavalli veloci come il vento! A cassetta, mio cocchiere; tintinna, mia campanella; impennatevi, cavalli, e portatemi via da questo mondo! Lontano, più lontano, che non si veda nulla, nulla. Ecco che il cielo turbina davanti a me; lontano brilla una stellina; sotto di me corre la foresta con gli alberi scuri e con la luna; una nebbia bluastra si stende sotto i miei piedi; nella nebbia, vibra una corda; da una parte c’è il mare, dall’altra l’Italia; ecco che si vedono anche le isbe russe. È la mia casa quella che azzurreggia lontano? È mia madre quella che siede alla finestra? Mamma, salva il tuo povero figliolo! Versa una lacrimuccia sulla sua testolina malata! Guarda come lo torturano! Stringi al petto il tuo povero orfanello! Non c’è posto per lui al mondo! Lo perseguitano! Mammina! abbi pietà del tuo bambino malato!… Ma lo sapete che il re di Francia ha un bernoccolo proprio sotto il naso?

Gogol

Treccani Enciclopedia Online

Gogol (Janovskij Nikolaj Vasil’evič), “I racconti di Pietroburgo

Il paese dei ciechi

Lo scrittore inglese George Wells Herbert mostra come la vita da ciechi sia possibile grazie alla compensazione degli altri sensi.

Le loro bestie vi si trovarono bene, e si moltiplicarono. Una sola cosa offuscava la loro contentezza; ma bastava ad offuscarla gravemente. Un male strano li aveva assaliti, colpendo di cecità tutti i figli che avevano avuto lassù, ed anzi colpendo anche alcuni dei maggiori.

Egli aveva ridisceso le gole, a prezzo di fatica, difficoltà e pericoli, appunto per cercare un antidoto o un talismano contro quella cecità. A quei tempi, in casi del genere, gli uomini non pensavano a bacilli e infezioni, bensì a peccati, e a lui era sembrato che il motivo di quella piaga dovesse risiedere nella negligenza di quegli immigrati senza prete, che non avevano costruito una cappelletta appena penetrati nella valle.

[…] E tra la sparuta popolazione di quella valle ormai isolata e dimenticata, la malattia seguì il suo corso. I vecchi, diventati mezzi ciechi, andarono a tastoni, i giovani ci videro appena, e i figli che misero al mondo non ci videro affatto. Ma la vita era molto facile in quella conca orlata di nevi, ignota al mondo intero, priva di spine e rovi, senza insetti nocivi n‚ animali all’infuori dei miti lama delle mandrie ch’essi avevano tirato, spinto, seguito su per il letto angusto dei corsi d’acqua, in fondo alle gole attraverso le quali erano saliti. A quelli che ci vedevano, la vista si era abbassata per gradi, tanto che quasi non si accorsero della perdita. Avevano guidato i ragazzi privi della vista, qua, là, ovunque, tanto che questi conobbero tutta la valle a meraviglia; e quando l’ultimo residuo di vista si spense, tra loro, la razza sopravvisse. Avevano persino fatto in tempo ad adattarsi per adoperare il fuoco alla cieca, accendendolo cautamente in forni di pietra. All’inizio erano una stirpe di gente semplice, analfabeta, appena sfiorata dalla civiltà spagnola, ma nella quale sussisteva ancora un poco la tradizione artistica e la filosofia perduta dell’antico Perù. Una generazione seguì l’altra. Essi dimenticarono parecchie cose, altre ne escogitarono. La tradizione dell’esistenza d’un più vasto mondo, dal quale erano venuti, si fece vaga, prese il colore del mito. Tranne che nella vista, erano, in tutto il resto, forti ed abili, e non tardò che, al caso delle nascite e dell’ereditarietà, comparve tra loro un individuo d’intelletto originale, dotato di parola persuasiva, poi un altro ancora.

[…]”Tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re, tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re”

[…]Erano ciechi da quattordici generazioni, completamente segregati dal mondo dotato di vista, e il nome di ogni cosa attinente al senso ottico si era cancellato o trasformato, la storia del mondo esterno si era cancellata, trasformata in una fiaba, ed essi avevano perso ogni interesse per tutto ciò che stava al di là dei pendii rocciosi, incombenti sul loro muro di cinta. Erano sorti, tra loro, ciechi geniali, che avevano messo in discussione gli ultimi brandelli delle credenze e delle tradizioni di un tempo in cui possedevano ancora la vista, negandole come vane bubbole e sostituendole con altre e più assennate spiegazioni. Buona parte della loro immaginazione si era disseccata come i loro occhi, ed essi si erano procurati altre immaginazioni in base alla sensibilità sempre maggiore delle orecchie e dei polpastrelli

[…]Un poco seccato, Núñez gli tenne dietro. “Verrà il mio momento”, disse. “Imparerai”, disse il cieco. “C’è tanto da imparare al mondo”. “Nessuno ti ha mai detto che tra i ciechi l’orbo è re?. “Ciechi? cosa vuol dire?”, domandò con indifferenza il cieco senza girare la testa

[…] loro sensi avevano acquistato un’acutezza meravigliosa: erano in grado di udire e valutare il minimo gesto di un uomo da dodici passi di distanza; di sentirne persino il battito del cuore. Da un pezzo, per loro, le intonazioni della voce avevano sostituito le espressioni del viso, il tatto aveva sostituito i gesti; e lavoravano di zappa, vanga o forcone con la stessa facilità e sicurezza che se si fosse trattato di giardinaggio. Possedevano un senso dell’odorato finissimo, straordinario, tale da poter distinguere Prontamente le diversità individuali, come fanno i cani. E badavano al bestiame (i lama, che vivevano tra le rocce in alto e venivano a cercar cibo e ricovero presso il muro) con disinvoltura e tranquillità.

George Wells Herbert 

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George Wells Herbert, “Il paese dei ciechi” 

Cieca di Sorrento

Vicenda tormentata e avventurosa, piena di colpi di scena, nella Napoli dell’Ottocento.

Il marchese Rionero, giovane diplomatico napoletano, durante un viaggio governativo a Parigi conosce e s’innamora di Albina, vaga e nobile fanciulla, che poi sposa a Napoli. Una bambina, Beatrice è il primo ed unico frutto del loro amore.

Durante un viaggio diplomatico del marchese, Albina e Beatrice restano sole nella loro villa di Portici dove una notte avviene un fatto atroce. Un ladro penetra nella camera dove dormono madre e bambina per involare un cassettino contenente gioielli d’immenso valore. Albina si sveglia al rumore del ladro e si sveglia pure Beatrice che comincia a piangere per lo spavento, il ladro per farla tacere la sta per pugnalare, ma la madre le fa da scudo e un colpo di coltello al cuore la finisce; il ladro omicida s’invola con il cassettino dei gioielli e Beatrice in preda alle convulsione e allo spavento, la mattina la trovano semiviva. Ma la bambina però non era morta, ma una orrenda convulsione nervosa le aveva strappato la parte più cara della vita. Beatrice era cieca.

Il ladro omicida era un giovane calabrese, Nunzio Pisani, che aveva lasciato il suolo nativo per cercare fortuna a Napoli; suo complice fu il notaio Tommaso Basileo, che grazie alla sua attività notarile aveva saputo delle ricchezze che si trovavano nella casa di Portici ed era anche riuscito a conoscere il giorno opportuno per compiere il furto, appunto durane l’assenza del marchese. Dopo il furto i due complici si dividono e il cassetto delle gioie rimane nella mani del calabrese che lo mette al sicuro, sotterrandolo sotto una quercia, e né a notizie al notaio tramite una lettera, raccomandandogli di far pervenire la sua parte alla famiglia in Calabria nel caso in cui fosse stato scoperto catturato. Evento che avviene; il Pisani viene catturato, processato, e ritenuto colpevole di furto e omicidio viene condannato a morte e afforcato, senza rilevare il nome del complice né dove ha nascosto i gioielli.

Il notaio recupera in seguito il tesoro, ma si guarda bene di far recapitare la parte spettante al suo complice, 10.000 ducati, alla sua famiglia. Diciassette anni più tardi Gaetano, figlio di Nunzio, decide di trasferirsi anch’egli, insieme ad una sorella e un’anziana nonna, a Napoli, per avere notizie del padre, ma soprattutto per continuare i suoi studi in medicina. Scopre che il padre è morto giustiziato per furto e omicidio, ma ignora il nome della vittima Albina, il cui consorte Rionero, insieme alla piccola cieca, dopo il tragico avvenimento, si è ritirato in una villa nella quiete Sorrento, dove conducono una vita molto ritirata. Il marchese si dedica completamente a sua figlia, e non manca di consultare i migliori specialisti, nella speranza di veder un giorno guarita la figlia dalla cecità.

Gaetano per pura combinazione diventa commesso nella curia del notaio Tommaso Basileo, e sempre per una felicissima combinazione gli viene tra le mani la lettera che Nunzio Pisani inviò al notaio dove invitava il complice a dare metà del furto dei gioielli alla sua famiglia nel caso fosse caduto nelle mani della giustizia. Grazie a questa lettera Gaetano entra in possesso della parte del bottino che gli spetta, aumentato dagli interessi maturati in 17 anni, e riesce a carpire la somma di 20.000 ducati all’avaro notaio che il seguito muore di crepacuore. Gaetano è diventato ricco e siccome la sorella prima e la nonna poi erano morte, libero di sé, comincia un viaggio di studio, prima in Italia e poi in Europa, e alla fine si ferma in Inghilterra dove diventa ricco e famoso grazie alla sua arte.

In questa nazione cambia pure i connotati e diventa Oliviero Blackman, ricco di sostanze e di doti mediche, ma con un carattere schivo e cinico, dovuto in parte anche dalle sue sembianze fisiche decisamente brutte: è gobbo, deforme e strabico.

Un nobile napoletano, in viaggio di piacere a Londra lo convince a venire in Italia, a Sorrento da un suo amico, il marchese Rionero che ha una figlia cieca, ed è in cerca di un abile specialista per far guarire la figlia. Oliviero accetta l’invito del nobile e fa il viaggio in Italia e arriva a Sorrento, dove conosce Rionero e Beatrice, e qui succede una cosa che Oliviero non avrebbe mai pensato: s’innamora della vaga Beatrice. Dopo averla visitata, capisce che la ragazza può guarire in seguito ad un suo intervento. Così pone al marchese una condizione terribile, ridare la vista alla figlia, ma in cambio la ragazza deve essere sua! Il marchese si trova in una posizione estremamente imbarazzante, anche perché la ragazza è promessa sposa di un tal cav. Amedeo Santoni, un opportunista, che non ama la bella cieca, ma ambisce alle sue ricchezze e a suo titolo nobiliare, ed anche il Marchese non è attratto dalle brutte fattezze del medico inglese.

L’indecisione di Rionero si risolve dopo che scopre che la figlia non ama Amedeo, e soprattutto dopo che riesce a scoprire le ambigue mire del Santoni. Così il marchese, dopo aver avuto il consenso dalla figlia, che brama riacquistare la vista, anche se deve poi sposare un deforme, accetta le condizioni di Oliviero. Beatrice, grazie all’intervento agli occhi riacquista la vista. Per lei si riapre un mondo nuovo dopo 17 anni di buio. Oliviero dal canto suo subisce una trasformazione morale notevole, anche grazie all’esempio del marchese Rionero, persona esemplare, e diventa devoto e sociale.

Arriva il giorno delle sospirate nozze, tutto sembra procedere per il meglio, ma pochi momenti prima che i due sposi si devono recare nella stanza nuziale e quando il padre abbraccia per l’ultima volta la figlia, scopre che sul suo dito Oliviero ci ha posto lo stesso anello che egli aveva messo al dito della moglie Albina. Si viene così a scoprire che sua figlia Beatrice ha sposato Gaetano Pisani, il figlio dell’assassino di sua madre. Infatti l’anello che Oliviero Blackman, alias Gaetano Pisani, faceva parte dei gioielli involati da suo padre 17 anni prima alla misera Albina. Beatrice che ha assistito alla scena sviene e cade in deliquio. Nel corso della notte, Gaetano sta per suicidarsi con del veleno, ma viene fermato in tempo dal marchese che ha bisogno ancora di lui: Beatrice sta morendo. Il marchese comunque perdona a Gaetano di esser figlio dell’assassino di sua moglie, per lui è sempre Oliviero Blackman, lo sposo di sua figlia. Beatrice sembra riprendersi, «ma la scena dell’anello avea gettato nel seno di Beatrice il germe dell’atroce morbo che la troncava lo stame di vita».

Infatti dopo pochi mesi la vaga Beatrice muore lasciando pieni di cordoglio Rionero e Gaetano che otto giorni dopo la morte di Beatrice, lasciano Napoli a bordo di un vapore che li porta nelle Americhe avendo deciso di onorare la memoria di Beatrice amando e consolando i loro fratelli che piangono.

Treccani Enciclopedia Online

Francesco Mastriani, “La cieca di Sorrento” (1952)

‘E cecate a Caravaggio

Il poeta napoletano Salvatore Di Giacomo descrive teneramente la cecità in una poesia degli anni ’20 del Novecento.

Dimme na cosa. T’ allicuorde tu
e quacche faccia ca p”o munno e’ vista,
mo ca pe’ sempe nun ce vide cchiù?

Sì, m’ allicordo; e tu?-No, frato mio;
io so’ nato cecato. Accussì ncielo,
pe mme murtificà, vulette Dio…

Lassa sta’ Dio!…Quant’ io ll’ aggio priato,
frato, nun t”o puo’ manco mmaggenà,
e dio m’ ha fatto addeventà cecato. (…)

E se stettero zitte. E attuorno a lloro
addurava ‘o ciardino, e ncielo ‘o sole
luceva, ‘o sole bello, ‘o sole d’ oro…

Salvatore Di Giacomo

Raccolta completa

Salvatore di Giacomo, “Poesie” (Riccardo Ricciardi editore, 1920)

Il grillo del focolare

La novella di Charles Dickens si svolge intorno alle vicende di una famiglia umile e, soprattutto, all’amore di un padre per sua figlia cieca.

Ho detto che Caleb e la sua povera figliuola cieca vivevano l’; ma avrei dovuto dire invece che Caleb ci viveva, ma la sua povera figliuola cieca viveva in un altro posto, in una casa incantata[…] […] Caleb non era uno stregone; ma possedeva soltanto l’unica arte magica che ancora ci rimane: la magia di un amore devoto e immortale.

[…] la fanciulla cieca non seppe mai che il soffitto era scolorito, le pareti coperte di macchie e qua e là prive di intonaco; che vi erano grandi crepature mai otturate […] non seppe mai che il ferro era rugginoso, il legno marcio […] che i pochi capelli di Caleb incanutivano ogni giorno di più […] non seppe mai che essi avevano un padrone freddo, esigente ed egoista; non seppe mai, per dirla breve, che Tackleton era Tackleton. Viveva credendo nell’esistenza di un umorista eccentrico, il quale si divertiva a scherzare con loro, era l’angelo custode delle loro vita, ma sdegnava di ricevere anche una sola parola di ringraziamento.

[…] <<Io non posso permettermi di cantare>>, disse Tackleton. <<sono felice che voi lo possiate, e spero che possiate anche permettervi di lavorare. Non mi pare che si possa avere il tempo per l’una e l’altra cosa.>>

<<Se tu potessi soltanto vederlo, Berta, come mi sta strizzando l’occhio>> mormorò Caleb. <<Gli piacciono tanto gli scherzi! Se tu non lo conoscessi, potresti quasi credere che parli sul serio, no?>>

La fanciulla cieca sorrise e accennò di sì col capo.

[…] <<è sempre così allegro e scherzoso con noi!>> gridò Berta sorridendo.

<< Oh, ci siete anche voi>>, risposte Tackleton. << Povera idiota!>>

Era realmente convinto che fosse un’idiota, e fondava questa sua convinzione, non so se consciamente o inconsciamente, sul fatto che essa gli era affezionata.

[…] << Cara Mary, un momento, un momento! Ancora un’altra cosa, Parlami con dolcezza. So che dici la verità; non vuoi certo ingannarmi adesso, non è vero?>> […] <<Mary quarda dall’altra parte della stanza, là dove eraamo poco prima, e dove ora è mio padre, mio padre così compassionevole e così affettuoso verso di me, e dimmi che cosa vedi.>>

<<Vedo>> disse Dot, che l’aveva compresa perfettamente, <<un vecchio seduto su una sedia e appoggiato dolorosamente alla spalliera, con la faccia che riposa su una mano come se attendesse di esser confortato dalla sua figliuola>>

[…] << è un vecchio logorato dalle preoccupazioni e dal lavoro; è un uomo misero, umiliato, preoccupato, canuto. Lo vedo in questo momento, completamente abbattuto, lottare contro non so che cosa.[…] […] La cieca si allontanò da lei e, cadendo in ginocchio davanti a lui, prese quella testa canuta e se la attirò al seno.

<< ho ritrovato la vista. Questa è la mia vista>>, grido. <<Sono stata cieca e ora ho gli occhi aperti. Non l’avevo mai conosciuto! E pensare che avrei potuto morire, senza aver mai veduto veramente il padre che mi ha voluto tanto bene!>>

<< […] quanto più sei canuto e logoro, tanto più mi sei caro papà. Nessuno deve mai più dire che sono cieca. Non c’è una ruga nel suo viso, non c’è capello sulla sua testa che sarà dimenticato nelle mie preghiere e nei miei ringraziamenti al Cielo!>>

Charles Dickens

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Charles Dickens, “Il grillo del focolare” (1845)

La cecità in Pascoli

“Il cieco” 

Chi  l’udi prima piangere? Fu l’alba.

Egli piangeva; e, per udirlo, ascese

Qualche ramarro per una vitalba.

E strettero, per breve ora, sospese

Su quel capo due grandi aquile fosche.

Presso era un cane, con le zampe tese 

All’aria, morto; tra un ronzio di mosche.

“Donde venni non so; nè dove io vada
saper m’è dato. Il filo del pensiero
che mi reggeva, per la cieca strada,
da voci a voci, dal dì nero al nero
tacer notturno (m’addormii; sognai:
vedevo in sogno che vedevo il vero:
desto, più non lo so, nè saprò mai…);

nel chiaro sonno, in mezzo a un rombo d’api,
si ruppe il tenue filo. E poi che gli occhi
apersi, cerco i due penduli capi
in vano. Mi levai sopra i ginocchi,
mi levai su’ due piedi. E l’aria invano
nera palpo, e la terra anche, s’io tocchi
pure il guinzaglio, cui lasciò la mano

addormentata. Oh! non credo io che dorma
la mia guida, e con lieve squittir segua
nel chiaro sonno il lieve odor d’un’orma!
Egli è fuggito; è vano che l’insegua
per l’ombra il suono delle mie parole!
Oh! la lunga ombra che non mai dilegua
per la sempre aspettata alba d’un sole,

che di là brilla! Vano il grido,

vano il pianto. Io sono il solo dei viventi,

lontano a tutti ed anche a me lontano.

Io so che in alto scivolano i venti, 

e vanno e vanno senza trovar l’eco,

a cui frangere al fine i miei lamenti;

a cui portare il murmore del cieco…

[…] Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi
me, parla dunque: dove sono? Io voglio
scansar l’abisso che mi sento ai piedi…

di fronte? a tergo? Parlami. Il gorgoglio
n’odo incessante; e d’ogni intorno pare
che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,

tra un nero immenso fluttuar di mare,

Così piangeva: e l’aurea sera nelle
rughe gli ardea del viso; e la rugiada
sopra il suo capo piovvero le stelle.

Ed egli stava, irresoluto, a bada
del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni
d’oblio, volgeva; fin ch’— io so la strada —

una, la Morte, gli sussurrò ― vieni! —

“Il fringuello cieco” 

Finch… finché nel cielo volai,
finch… finch’ebbi il nido sul moro,
c’era un lume lassù, in ma’ mai,
un gran lume di fuoco e d’oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo…

Il sole!… Ogni alba nella macchia,
ogni mattina per il brolo,
– Ci sarà? – chiedea la cornacchia;
– Non c’è più! – gemea l’assiuolo;
e cantava già l’usignolo:
– Addio, addio dio dio dio dio… –
Ma la lodola su dal grano
saliva a vedere ove fosse.
Lo vedeva lontan lontano
con le belle nuvole rosse.
E, scesa al solco donde mosse,
trillava: – C’è, c’è, lode a Dio! –

“Finch… finché non vedo, non credo”
però dicevo a quando a quando.
Il merlo fischiava – Io lo vedo -;
l’usignolo zittìa spiando.
Poi cantava gracile e blando:
– Anch’io anch’io chio chio chio chio… –

Ma il dì ch’io persi cieli e nidi,
ahimè che fu vero, e s’è spento!
Sentii gli occhi pungermi, e vidi
che s’annerava lento lento.
Ed ora perciò mi risento:
– O sol sol sol sol… sole mio? –

Giovanni Pascoli

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Giovanni Pascoli, “Il cieco” (poemetti)

Giovanni Pascoli, “Il fringuello cieco” (Canti di Castelvecchio)