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Papà Goriot

Antologizziamo qui la scena della morte di Goriot, fiaccato dagli anni e dalle delusioni della vita, tra le quali un amore patologico e non corrisposto per le figlie, che si segnalano per la loro distanza ed assenza nei confronti del padre.

«Non dimentichi Sylvie», bisbigliò la signora Vauquer all’orecchio di Eugène, «sono due notti che veglia».
Appena Eugène ebbe voltato le spalle, la vecchia corse dalla cuoca. «Prendi le lenzuola rivoltate, numero sette. Perdio, vanno anche troppo bene per un morto», le disse all’orecchio.
Eugène, che aveva già salito qualche scalino, non sentì le parole della vecchia locandiera.
«Forza», gli disse Bianchon, «infiliamogli la camicia. Tienilo diritto».
Eugène si mise a capo del letto e sorresse il moribondo al quale Bianchon tolse la camicia. Il vecchio fece un gesto quasi volesse trattenere qualcosa sul petto, ed emise dei gridi lamentosi e inarticolati, come un animale che abbia un grande dolore da esprimere.
«Ah, sì!», fece Bianchon. «Vuole una catenella di capelli con un piccolo medaglione che prima gli abbiamo
tolto per applicare le sanguisughe. Pover’uomo! Bisogna rimettergliela. È sul caminetto». Eugène andò a prendere una catenella intrecciata di capelli biondo cenere, sicuramente quelli della signora Goriot. Su una faccia del medaglione lesse: Anastasie, e sull’altra: Delphine. Immagine del suo cuore che riposava
sempre sul suo cuore. I riccioli che conteneva erano talmente fini che dovevano essere stati tagliati nella loro prima infanzia. Quando il medaglione gli toccò il petto, il vecchio fece un haan prolungato che manifestava una soddisfazione terribile a vedersi. Era uno degli ultimi echi della sua sensibilità, che pareva ritrarsi in quel centro sconosciuto, origine e punto d’arrivo delle nostre simpatie. Il suo viso contratto assunse un’espressione di gioia morbosa. I due studenti, colpiti da quella tremenda esplosione di forza affettiva che sopravviveva al pensiero, piansero calde lacrime che caddero sul moribondo strappandogli un grido di acuto piacere.
«Nasie! Fifine!», esclamò.
«È ancora vivo», disse Bianchon.
«A che gli serve?», chiese Sylvie.
«A soffrire», rispose Rastignac.
Dopo aver fatto cenno al compagno perché lo imitasse, Bianchon s’inginocchiò per infilare le braccia sotto le gambe del malato, mentre Rastignac s’inginocchiava dall’altra parte del letto per infilarle sotto la schiena. Sylvie si teneva pronta a tirar via le lenzuola appena il moribondo fosse stato sollevato, per sostituirle con quelle che aveva portato. Ingannato forse dalle lacrime, Goriot impiegò le ultime forze per tendere le mani incontrando ai due lati del letto le teste degli studenti. Le afferrò con violenza per i capelli, e lo si udì mormorare fievolmente: «Ah! Angeli miei!».
Due parole, due mormorii espressi dall’anima che così sospirando volò via.

Honoré de Balzac

Carlo Carducci

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