Cieca di Sorrento

Vicenda tormentata e avventurosa, piena di colpi di scena, nella Napoli dell’Ottocento.

Il marchese Rionero, giovane diplomatico napoletano, durante un viaggio governativo a Parigi conosce e s’innamora di Albina, vaga e nobile fanciulla, che poi sposa a Napoli. Una bambina, Beatrice è il primo ed unico frutto del loro amore.

Durante un viaggio diplomatico del marchese, Albina e Beatrice restano sole nella loro villa di Portici dove una notte avviene un fatto atroce. Un ladro penetra nella camera dove dormono madre e bambina per involare un cassettino contenente gioielli d’immenso valore. Albina si sveglia al rumore del ladro e si sveglia pure Beatrice che comincia a piangere per lo spavento, il ladro per farla tacere la sta per pugnalare, ma la madre le fa da scudo e un colpo di coltello al cuore la finisce; il ladro omicida s’invola con il cassettino dei gioielli e Beatrice in preda alle convulsione e allo spavento, la mattina la trovano semiviva. Ma la bambina però non era morta, ma una orrenda convulsione nervosa le aveva strappato la parte più cara della vita. Beatrice era cieca.

Il ladro omicida era un giovane calabrese, Nunzio Pisani, che aveva lasciato il suolo nativo per cercare fortuna a Napoli; suo complice fu il notaio Tommaso Basileo, che grazie alla sua attività notarile aveva saputo delle ricchezze che si trovavano nella casa di Portici ed era anche riuscito a conoscere il giorno opportuno per compiere il furto, appunto durane l’assenza del marchese. Dopo il furto i due complici si dividono e il cassetto delle gioie rimane nella mani del calabrese che lo mette al sicuro, sotterrandolo sotto una quercia, e né a notizie al notaio tramite una lettera, raccomandandogli di far pervenire la sua parte alla famiglia in Calabria nel caso in cui fosse stato scoperto catturato. Evento che avviene; il Pisani viene catturato, processato, e ritenuto colpevole di furto e omicidio viene condannato a morte e afforcato, senza rilevare il nome del complice né dove ha nascosto i gioielli.

Il notaio recupera in seguito il tesoro, ma si guarda bene di far recapitare la parte spettante al suo complice, 10.000 ducati, alla sua famiglia. Diciassette anni più tardi Gaetano, figlio di Nunzio, decide di trasferirsi anch’egli, insieme ad una sorella e un’anziana nonna, a Napoli, per avere notizie del padre, ma soprattutto per continuare i suoi studi in medicina. Scopre che il padre è morto giustiziato per furto e omicidio, ma ignora il nome della vittima Albina, il cui consorte Rionero, insieme alla piccola cieca, dopo il tragico avvenimento, si è ritirato in una villa nella quiete Sorrento, dove conducono una vita molto ritirata. Il marchese si dedica completamente a sua figlia, e non manca di consultare i migliori specialisti, nella speranza di veder un giorno guarita la figlia dalla cecità.

Gaetano per pura combinazione diventa commesso nella curia del notaio Tommaso Basileo, e sempre per una felicissima combinazione gli viene tra le mani la lettera che Nunzio Pisani inviò al notaio dove invitava il complice a dare metà del furto dei gioielli alla sua famiglia nel caso fosse caduto nelle mani della giustizia. Grazie a questa lettera Gaetano entra in possesso della parte del bottino che gli spetta, aumentato dagli interessi maturati in 17 anni, e riesce a carpire la somma di 20.000 ducati all’avaro notaio che il seguito muore di crepacuore. Gaetano è diventato ricco e siccome la sorella prima e la nonna poi erano morte, libero di sé, comincia un viaggio di studio, prima in Italia e poi in Europa, e alla fine si ferma in Inghilterra dove diventa ricco e famoso grazie alla sua arte.

In questa nazione cambia pure i connotati e diventa Oliviero Blackman, ricco di sostanze e di doti mediche, ma con un carattere schivo e cinico, dovuto in parte anche dalle sue sembianze fisiche decisamente brutte: è gobbo, deforme e strabico.

Un nobile napoletano, in viaggio di piacere a Londra lo convince a venire in Italia, a Sorrento da un suo amico, il marchese Rionero che ha una figlia cieca, ed è in cerca di un abile specialista per far guarire la figlia. Oliviero accetta l’invito del nobile e fa il viaggio in Italia e arriva a Sorrento, dove conosce Rionero e Beatrice, e qui succede una cosa che Oliviero non avrebbe mai pensato: s’innamora della vaga Beatrice. Dopo averla visitata, capisce che la ragazza può guarire in seguito ad un suo intervento. Così pone al marchese una condizione terribile, ridare la vista alla figlia, ma in cambio la ragazza deve essere sua! Il marchese si trova in una posizione estremamente imbarazzante, anche perché la ragazza è promessa sposa di un tal cav. Amedeo Santoni, un opportunista, che non ama la bella cieca, ma ambisce alle sue ricchezze e a suo titolo nobiliare, ed anche il Marchese non è attratto dalle brutte fattezze del medico inglese.

L’indecisione di Rionero si risolve dopo che scopre che la figlia non ama Amedeo, e soprattutto dopo che riesce a scoprire le ambigue mire del Santoni. Così il marchese, dopo aver avuto il consenso dalla figlia, che brama riacquistare la vista, anche se deve poi sposare un deforme, accetta le condizioni di Oliviero. Beatrice, grazie all’intervento agli occhi riacquista la vista. Per lei si riapre un mondo nuovo dopo 17 anni di buio. Oliviero dal canto suo subisce una trasformazione morale notevole, anche grazie all’esempio del marchese Rionero, persona esemplare, e diventa devoto e sociale.

Arriva il giorno delle sospirate nozze, tutto sembra procedere per il meglio, ma pochi momenti prima che i due sposi si devono recare nella stanza nuziale e quando il padre abbraccia per l’ultima volta la figlia, scopre che sul suo dito Oliviero ci ha posto lo stesso anello che egli aveva messo al dito della moglie Albina. Si viene così a scoprire che sua figlia Beatrice ha sposato Gaetano Pisani, il figlio dell’assassino di sua madre. Infatti l’anello che Oliviero Blackman, alias Gaetano Pisani, faceva parte dei gioielli involati da suo padre 17 anni prima alla misera Albina. Beatrice che ha assistito alla scena sviene e cade in deliquio. Nel corso della notte, Gaetano sta per suicidarsi con del veleno, ma viene fermato in tempo dal marchese che ha bisogno ancora di lui: Beatrice sta morendo. Il marchese comunque perdona a Gaetano di esser figlio dell’assassino di sua moglie, per lui è sempre Oliviero Blackman, lo sposo di sua figlia. Beatrice sembra riprendersi, «ma la scena dell’anello avea gettato nel seno di Beatrice il germe dell’atroce morbo che la troncava lo stame di vita».

Infatti dopo pochi mesi la vaga Beatrice muore lasciando pieni di cordoglio Rionero e Gaetano che otto giorni dopo la morte di Beatrice, lasciano Napoli a bordo di un vapore che li porta nelle Americhe avendo deciso di onorare la memoria di Beatrice amando e consolando i loro fratelli che piangono.

Treccani Enciclopedia Online

Francesco Mastriani, “La cieca di Sorrento” (1952)

Il grillo del focolare

La novella di Charles Dickens si svolge intorno alle vicende di una famiglia umile e, soprattutto, all’amore di un padre per sua figlia cieca.

Ho detto che Caleb e la sua povera figliuola cieca vivevano l’; ma avrei dovuto dire invece che Caleb ci viveva, ma la sua povera figliuola cieca viveva in un altro posto, in una casa incantata[…] […] Caleb non era uno stregone; ma possedeva soltanto l’unica arte magica che ancora ci rimane: la magia di un amore devoto e immortale.

[…] la fanciulla cieca non seppe mai che il soffitto era scolorito, le pareti coperte di macchie e qua e là prive di intonaco; che vi erano grandi crepature mai otturate […] non seppe mai che il ferro era rugginoso, il legno marcio […] che i pochi capelli di Caleb incanutivano ogni giorno di più […] non seppe mai che essi avevano un padrone freddo, esigente ed egoista; non seppe mai, per dirla breve, che Tackleton era Tackleton. Viveva credendo nell’esistenza di un umorista eccentrico, il quale si divertiva a scherzare con loro, era l’angelo custode delle loro vita, ma sdegnava di ricevere anche una sola parola di ringraziamento.

[…] <<Io non posso permettermi di cantare>>, disse Tackleton. <<sono felice che voi lo possiate, e spero che possiate anche permettervi di lavorare. Non mi pare che si possa avere il tempo per l’una e l’altra cosa.>>

<<Se tu potessi soltanto vederlo, Berta, come mi sta strizzando l’occhio>> mormorò Caleb. <<Gli piacciono tanto gli scherzi! Se tu non lo conoscessi, potresti quasi credere che parli sul serio, no?>>

La fanciulla cieca sorrise e accennò di sì col capo.

[…] <<è sempre così allegro e scherzoso con noi!>> gridò Berta sorridendo.

<< Oh, ci siete anche voi>>, risposte Tackleton. << Povera idiota!>>

Era realmente convinto che fosse un’idiota, e fondava questa sua convinzione, non so se consciamente o inconsciamente, sul fatto che essa gli era affezionata.

[…] << Cara Mary, un momento, un momento! Ancora un’altra cosa, Parlami con dolcezza. So che dici la verità; non vuoi certo ingannarmi adesso, non è vero?>> […] <<Mary quarda dall’altra parte della stanza, là dove eraamo poco prima, e dove ora è mio padre, mio padre così compassionevole e così affettuoso verso di me, e dimmi che cosa vedi.>>

<<Vedo>> disse Dot, che l’aveva compresa perfettamente, <<un vecchio seduto su una sedia e appoggiato dolorosamente alla spalliera, con la faccia che riposa su una mano come se attendesse di esser confortato dalla sua figliuola>>

[…] << è un vecchio logorato dalle preoccupazioni e dal lavoro; è un uomo misero, umiliato, preoccupato, canuto. Lo vedo in questo momento, completamente abbattuto, lottare contro non so che cosa.[…] […] La cieca si allontanò da lei e, cadendo in ginocchio davanti a lui, prese quella testa canuta e se la attirò al seno.

<< ho ritrovato la vista. Questa è la mia vista>>, grido. <<Sono stata cieca e ora ho gli occhi aperti. Non l’avevo mai conosciuto! E pensare che avrei potuto morire, senza aver mai veduto veramente il padre che mi ha voluto tanto bene!>>

<< […] quanto più sei canuto e logoro, tanto più mi sei caro papà. Nessuno deve mai più dire che sono cieca. Non c’è una ruga nel suo viso, non c’è capello sulla sua testa che sarà dimenticato nelle mie preghiere e nei miei ringraziamenti al Cielo!>>

Charles Dickens

Treccani Enciclopedia Online

Charles Dickens, “Il grillo del focolare” (1845)

Colpa delle stelle

John Green affronta il tema del cancro dando voce a due adolescenti: Hazel, una granata sul punto di esplodere, e Augustus che sembra essersi lasciato alle spalle un osteosarcoma.

“Io non esco” ho detto. “Non voglio uscire con nessuno. È un’idea terribile e un enorme spreco di tempo e…”
“Tesoro” ha detto la mamma. “Cosa c’è che non va?”
“Sono una… una… una granata, mamma. Sono una granata e a un certo punto esploderò e vorrei minimizzare le vittime, okay?”
Mio padre ha piegato la testa come un cucciolo rimproverato.
“Sono una granata” ho detto di nuovo. “Voglio starmene lontana dalla gente e leggere libri e riflettere e stare con voi, perché non c’è niente che possa fare per non ferire voi, siete troppo coinvolti, quindi per favore lasciatemi stare, okay? Non sono depressa. Non ho bisogno di uscire di più. E non posso essere un’adolescente normale, perché sono una granata.”
“Hazel” ha detto papà, e poi ha singhiozzato. Piange un sacco, il mio papà.
“Vado in camera mia a leggere un po’, okay? Sto bene. Sto bene sul serio; voglio solo andare un po’ a leggere.”

[…] A volte vorrei solo che non fosse accaduto. Il cancro, dico.

[…] Quando è venuto il suo turno ha sorriso un po’. Aveva una voce bassa, fumosa, eccitante da morire. “Mi chiamo Augustus Waters” ha detto. “Ho diciassette anni. Ho avuto un lieve osteosarcoma un anno e mezzo fa, ma oggi sono qui solo su richiesta di Isaac.”
“E come ti senti?” ha chiesto Patrick.
“Oh, a meraviglia.” Augustus Waters ha sorriso con un angolo della bocca. “Sono su una montagna russa che va solo in salita, amico mio.”

John Green

Google Libri

John Green, “Colpa delle stelle” (2012, Rizzoli)

Ippolito

L’Ippolito del tragediografo greco Euripide fu rappresentato nel 428 a.C ad Atene. La tragedia narra la storia dell’amore proibito tra Fedra e il suo figliastro Ippolito. Fedra è sconvolta nella sua intera persona dalla potenza dell’amore. Il brano antologizzato è tratto dalla prima apparizione del coro: è preoccupato dal male che affligge Fedra e ne descrive i sintomi.

CORO
str. a
C’è una roccia, raccontano, che stilla
acqua d’oceano: dalle rupi
erompe una sorgiva,
vi attingono con brocche.
Là c’era una mia amica,
lavava nella corrente vesti purpuree
le distendeva sopra
una calda, assolata pietra.
Le prime voci sulla mia padrona
mi giunsero di là.

ant. a
Giace in casa, stremata,
sul suo letto di inferma,
veli leggeri le ombrano
il biondo capo.
Da due giorni, mi dicono,
rifiuta di nutrirsi,
tiene puro il suo corpo
del cibo di Cerere: vuole
approdare al termine funesto di morte
spinta da un male segreto.

str. b
† Forse, † figlia, sei in potere
di Pan, oppure di Ecate o
dei venerandi Coribanti
o della Madre dei monti.
O ti tormenti per qualche tua colpa
contro Dictinna, la dea della caccia:
l’hai offesa con libagioni non offerte?
Oltre i laghi essa incede,
oltre la terra, sui vortici d’acque
del salso mare.

ant. b
O il tuo consorte, il capo
degli Eretteidi, nobile di stirpe,
lo signoreggia un amore segreto,
lo sottrae al tuo letto, nel palazzo?
o un navigante salpato da Creta
è giunto al nostro
porto ospitale
con notizie per la regina:
e l’anima è inchiodata al letto
per il dolore e l’angoscia?

ep.
Convive, di solito, con la difficile natura
delle donne una triste infelice debolezza
di travagli e vaneggiamenti.
Ha attraversato anche me, il mio grembo
questa tempesta. E invocavo
Artemide celeste, signora dell’arco, protettrice
dei parti; io la venero, tanto,
ed essa, grazie a Dio, accorre da me, sempre.
Ma guarda lì davanti alla porta la vecchia nutrice: sta accompagnando fuori dal palazzo la padrona. Che volto tetro,
rannuvolato ha la regina. E io desidero sapere, con tutta l’anima, che cosa l’abbia distrutta, perché sia così pallida.

Euripide

Da Euripide, Ippolito, ed. digitale a cura di Patrizio Sanasi. Liberamente disponibile presso il sito web https://spazioinwind.libero.it/latinovivo/Testintegrali/Ippolito.htm

La lettera scarlatta

I due brani antologizzati dalla Lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne presentano sul proscenio della narrazione due figure intrecciate e profondamente diverse: Hester Prynne ed il reverendo Dimmesdale. Lo sfondo è quello di una civiltà ipocritamente e fanaticamente religiosa, pronta a mettere al patibolo Hester per essere stata trovata incinta durante una prolungata assenza del marito: il padre della nascitura Perla è proprio il reverendo. Nel primo brano si comincia ad intravedere il disordine psicologico che nel secondo brano porterà il reverendo alla morte, dopo aver sofferto sino alla fine del romanzo di un senso di colpa profondo per la propria codardia.

Nel suo ultimo singolare incontro con Mr Dimmesdale Hester Prynne era rimasta turbata nel vedere in che  stato fosse il pastore. I suoi nervi sembravano assolutamente a pezzi. La forza d’animo era avvilita a debolezza infantile. Strisciava inerme sulla terra, mentre le sue facoltà intellettuali conservavano la pristina forza; anzi avevano forse  acquistato una energia morbosa, che soltanto la malattia avrebbe potuto conferire loro. Conoscendo una sequenza di  circostanze ignote a tutti gli altri, Hester poteva facilmente intuire che, accanto alla legittima azione della coscienza, sul  benessere e sulla tranquillità di Mr Dimmesdale operava e tuttora era in azione un terribile meccanismo. Memore di ciò  che era stato una volta quel povero peccatore, la sua anima si commosse davanti al brivido di terrore con cui si era  appellato a lei – la donna esclusa – invocando aiuto contro il nemico scoperto per istinto. Hester decise che egli aveva  diritto a tutto il suo aiuto. Poco abituata, nel suo lungo esilio dalla società umana, a misurare i principi di giusto e  ingiusto in base a criteri esterni a se stessa, Hester ritenne – o parve ritenere – di avere nei confronti del pastore una  responsabilità che non aveva verso nessun altro, neppure verso l’intero mondo. I legami che la univano al resto  dell’umanità – legami di fiori, sete, oro o chissà quale altro materiale – erano stati spezzati tutti […]

«Popolo della Nuova Inghilterra!», esclamò con una voce che si levò sopra gli astanti alta, solenne, maestosa –  eppure pervasa dal tremore e, a tratti, possente come un urlo che scaturisse dagli insondabili abissi del rimorso e della pena – «voi che mi avete amato! Voi che mi avete considerato santo! Guardatemi qui, il peggior peccatore! Finalmente!  Finalmente! Sono nel luogo dove avrei dovuto ergermi sette anni fa, con questa donna, il cui braccio – più di quel po’ di  forza che mi ha trascinato qui – mi sostiene in questo terribile momento, impedendomi di prostrarmi con la faccia a  terra! Ecco la lettera scarlatta che Hester porta! Avete tremato tutti vedendola! Ovunque la portassero i suoi passi –  ovunque lei cercasse di trovare riposo, sotto quel terribile fardello – dappertutto il simbolo ha gettato intorno a lei un  bagliore sinistro di ripugnanza e di orrore. Ma ecco in mezzo a voi un uomo davanti al cui marchio di infamia e di  peccato voi non avete tremato».

Parve a questo punto che il ministro non dovesse rivelare il resto del suo segreto. Ma combatté contro la  debolezza del corpo – e ancora di più contro la codardia del cuore – che tentava di sopraffarlo. Respingendo ogni aiuto,  avanzò di un passo avanti alla donna e alla bambina.

«Il marchio era su di lui!», continuò quasi con accanimento, tanto era deciso a rivelare tutto. «L’occhio di Dio  lo vedeva! Gli angeli lo additavano! Il demonio lo conosceva bene e lo affliggeva con il tocco delle sue dita di fiamma!  Ma egli lo nascondeva agli uomini con scaltrezza e si aggirava fra voi con il portamento di uno spirito addolorato,  perché puro in un mondo di peccato! Triste, perché lontano dai suoi congiunti in cielo! Ora, nel momento della morte,  sta davanti a voi! Vi incita a guardare ancora la lettera scarlatta di Hester! Vi dice che, pur con tutto il suo arcano orrore, è soltanto l’ombra di quello che egli porta sul petto e che anche questo, il suo marchio rosso, è soltanto il segno di ciò  che l’ha inaridito nel profondo del cuore! C’è qualcuno qui che mette in dubbio il castigo di Dio su un peccatore?  Guardate! Guardate la terribile testimonianza!»

Con un gesto convulso strappò il paramento sacro dal petto. Ecco la rivelazione! Ma sarebbe irriverente  descriverla. Per un attimo lo sguardo della moltitudine inorridita si concentrò sullo spaventoso miracolo, mentre il  ministro si ergeva con il volto avvampante di trionfo, come chi, nello spasimo di un dolore acutissimo, abbia conseguito la vittoria. Poi si abbatté sul palco! Hester lo sollevò un poco e gli sostenne la testa contro il proprio petto. Il vecchio  Roger Chillingworth si inginocchiò al suo fianco, con un volto vuoto e vacuo, che sembrava privo di vita. «Mi sei sfuggito!», ripeté più di una volta. «Mi sei sfuggito!»

[…]

Perla gli baciò le labbra. Si spezzò l’incantesimo. La grande scena di dolore, nella quale la bimba selvaggia  aveva avuto la sua parte, aveva risvegliato tutta la sua tenerezza, e, mentre cadevano sulle guance del padre, le lacrime  erano il pegno che sarebbe cresciuta in mezzo alla gioia e al dolore umano, non per combattere contro il mondo, ma per  essere donna nel mondo. Anche verso sua madre si era compiuta la missione di Perla, quale messaggera di angoscia. «Hester», disse il pastore, «addio!»

«Non ci incontreremo più?», sussurrò lei piegando il volto sul suo. «Non trascorreremo insieme la nostra vita  immortale? Sì, sì, ci siamo riscattati a vicenda con tanto dolore! Guardi lontano nell’eternità con quei luminosi occhi  morenti. Dimmi quello che vedi».

«Silenzio, Hester, silenzio!», disse con tremula solennità. «La legge che abbiamo infranto! Il peccato rivelato  in modo così orribile! Che soltanto questo sia nei tuoi pensieri! Ho paura! Ho paura! Forse, quando abbiamo  dimenticato il nostro Dio – quando abbiamo violato la deferenza reciproca per l’anima dell’altro – da quel momento è  stato vano sperare di poterci incontrare nell’aldilà in una unione eterna e pura. Dio sa ed è misericordioso! Ha  dimostrato misericordia soprattutto nella mia afflizione. Infliggendomi questa tortura da portare sul cuore! Mandando  quel terribile vecchio tenebroso a tenerla sempre incandescente! Portandomi a questa morte di ignominia davanti a tutti! Se una sola di queste agonie fosse mancata, sarei stato perduto per sempre! Sia lodato il suo nome! Sia fatta la sua  volontà! Addio!»

Quest’ultima parola accompagnò l’estremo respiro del ministro. La moltitudine, in silenzio fino a quel  momento, proruppe in uno strano, profondo clamore di smarrimento e di stupore, incapace di esprimersi se non con quel mormorio che rimbombava sordo dietro lo spirito dipartito.

Nathaniel Hawthorne

Fonte: hawtorne_lettera scarlatta

Agamennone

Il brano antologizzato è tratto dalle ultime pagine dell’Agamennone di Eschilo, una tragedia greca rappresentata nel 458 a.C, insieme ad altre due tragedie (che, insieme con la prima, compongono la trilogia dell’Orestea) e ad un dramma satiresco. Cassandra ha previsto la morte propria e del re “pastore dei popoli” Agamennone per mano della regina Clitemnestra (o Clitennestra), con la complicità dell’amante Egisto. La morte dei due si consuma fuori scena, secondo la consuetudine del teatro tragico attico.

CASSANDRA

Ahi, ahi, la fiamma, eccola! Mi assale! Apollo Liceo, a me, a me! Leonessa a due gambe, a letto col lupo, mentre il  leone gagliardo è lontano. Lei mi abbatterà: ah, mio tormento. Come preparando filtro di morte, mischierà alla vendetta  la mia parte di paga. Affila la lama per lui, il suo uomo. La morte – di questo si vanta – sarà giusto compenso per avermi  condotta sin qui. Perché vi ho ancora indosso, scettro, fasce profetiche sulle spalle? Perché si rida di me? Vi spezzo, io  stessa prima dell’ora fatale. Distrutte vi voglio. Nella polvere, ecco come io vi ripago. Un’altra al mio posto fate ricca di  strazio. Guardate, la mano stessa di Apollo mi strappa il velo oracolare. Prima posava l’occhio superbo su me che così  abbigliata ero esposta alle beffe di tutti: amici, nemici, perfetto equilibrio di scherno… “E mi adattavo al nome ormai  consueto: Ciarlatana!” rifiuto umano, in giro ad accattare, miserabile morta di fame. Per finire, il mago che m’ha fatta  maga, lui m’ha trascinata a questa vicenda di morte. Non l’altare – nella casa paterna – ma il tronco del boia mi aspetta,  scarlatto di tiepido sangue dal mio capo reciso. Cadremo, ma non senza castigo di mano divina. Sarà qui uno a  vendicare, germoglio matricida, esigerà il saldo per l’assassinio del padre. Lui, fuggitivo, cacciato lontano in esilio, è  ormai di ritorno: pronto a incorniciare con l’ultimo fregio l’avito edificio di colpe. Saldo patto hanno giurato gli dèi. Lo  spingerà il gesto implorante del padre steso al suolo. Perché questo abisso di pianto? Ho forse pietà di me stessa? Ho  visto, all’inizio, compiersi il fato di Troia. Ho visto i suoi vincitori uscire in questo stato dal divino giudizio. Perciò mi  avvio, voglio il mio destino: patire la morte! Cassandra volge lo sguardo al portale del palazzo. E ora a te, mia porta  dell’Ade: ti saluto. Mi tocchi un colpo preciso, lo supplico. Senza scarti d’agonia – fiotti, torrenti di sangue per una morte soave. Così possa chiudere gli occhi.

CORO

Quanto devi patire, donna di alto sapere! Hai detto molto. Ma se realmente conosci la tua fine fatale, perché questo  strano coraggio, questi passi verso l’altare, come vittima rapita dal dio?

CASSANDRA

No, ospiti, non c’è salvezza neppure tardando.

CORO

È impagabile l’ultimo istante.

CASSANDRA

La mia ora è qui: fuggendo guadagno ben poco.

CORO

Attingi coraggio dal tuo animo prode. Sappilo.

CASSANDRA

Chi ha sorte felice non ode simili frasi.

CORO

Una morte illustre affascina gli uomini.

CASSANDRA

O padre! Te, e i tuoi nobili figli!

CORO

Cos’hai? Quale spavento ti strappa indietro?

CASSANDRA

Ahimè!

CORO

Perché questo “ahimè”? Brivido d’orrore, dentro?

CASSANDRA

Sfiata assassinio la casa, gronda cruenta.

CORO

Come può? È aroma di offerte votive, dai focolari.

CASSANDRA

Si distingue come un respiro di tomba.

CORO

Non c’è incenso d’Oriente là dentro, a tuo dire!

CASSANDRA

Parto. Ululerò ai trapassati il mio fato e quello di Agamennone. Sia finita qui. Ah stranieri! Grido: non di spavento –  uccello a un’ombra di fronda – ma perché di tutto questo, dopo la fine, mi siate testi fedeli, nell’ora che una donna, a  saldare la mia morte di donna, cadrà, e un uomo dovrà morire, in cambio di un uomo cui fu fatale la sposa. Pensate che  sto per morire. Fatemi questo dono ospitale.

CORO

O tu che soffri, ho pena del fato che tu stessa t’annunci.

CASSANDRA

Ancora una volta voglio dire parole distese, non cantilene di lutto, per la mia morte. Davanti a quest’ultima luce di sole,  io chiedo ai vendicatori del re che facciano scontare ai nemici anche la mia uccisione, di me morta schiava, vittima  disarmata. Vicende terrene! Prospere, e basta un’ombra a travolgerle: se la sorte è ostile, una passata di spugna stillante,  e il disegno è perduto. Questo mi fa piangere, molto più di tutto il resto. Cassandra entra nella reggia. 

CORO

Hanno nel sangue gli uomini

fame implacabile di felicità.

Nessuno di quelli che la gente

già mostra col dito, vuole

vietarle l’entrata, scacciarla

dal proprio palazzo, gridando

“Non avvicinarti, mai più.”

A quest’uomo i beati donarono

di vincere la terra di Priamo,

e torna alla patria

pieno di onori divini.

Ma ora, se deve saldare il sangue

di chi l’ha preceduto,

se per quelle morti antiche

morendo lui stesso compie

espiazione di altri assassinii,

quale uomo, che sappia la storia,

può dire di essere nato

all’ombra di un destino innocente?

Dall’interno della reggia, laceranti, esplodono voci di dolore. 

AGAMENNONE

Aaah! Ho dentro, m’inchioda colpo preciso.

CORO

Silenzio. Chi grida, trapassato da colpo preciso?

AGAMENNONE

Altra fitta, orrenda! Due colpi ho in corpo.

CORO

L’azione è conclusa: quest’ululo del re me lo fa sospettare. Amici, scambiamoci i pareri sicuri. Vi dico quel che penso:  far gridare in città che si corra alla rocca.

Per me, scattare subito dentro, smascherare il delitto con evidenza di lama appena estratta. Ecco il mio voto, su cosa decidere: mi associo a questo consiglio. Non è ora d’indugi.

Apriamo gli occhi. Queste sono le prime battute, indizi di tirannide, di ciò che stanno preparando allo stato. Troppo tardi: loro schiacciano sotto i piedi il decantato “pensaci bene”! Intanto la mano è ben sveglia. Non so quale miglior consiglio dare: l’agire esige riflessione attenta, …

Sono dalla stessa parte: non ho il mezzo di far risorgere l’ucciso a parole.

Dunque, salvare la vita. E per questo, chinarsi ai padroni che sono infamia alla casa?

No, non si può tollerarlo. Meglio la morte, è più dolce che subire i tiranni.

Come indizio c’è l’urlo del re. Ci basta per crederlo ucciso?

Vediamoci chiaro, poi venga pure lo sdegno. Indovinare, ed essere certi: c’è differenza.

Per me, prevale questo parere, e l’approvo: sapere con certezza la fine dell’Atride.

Lento, si spalanca il portale della reggia. Dentro, tre figure. Riverso in una conca lucente, avvolto in un largo drappo  chiazzato di sangue, il corpo di Agamennone. Accanto, abbattuta, Cassandra. Li sovrasta – l’arma è ancora in mano –  Clitennestra, superba. 

CLITENNESTRA

In passato molte parole ho detto sfruttando un’occasione: ora, non avrò scupoli a smentirle. Come può, uno, tramando  ostili colpi a gente ostile che si presenta con la faccia amica, gettare rete di sventura, altezza che nessun balzo varca? Da troppo tempo non mi usciva dalla mente questa gara di morte. Ora il premio della lotta, la vittoria: tardi, ma alla fine è  giunta! Qui mi ergo, dove vibrai l’arma, dove ho saldato il mio impegno. Ho agito, ho avuto successo, non voglio  celarlo: né scampo per lui, né riparo al colpo fatale. Un volo di rete, inestricabile – come a una mattanza – e lo ingabbio,  sfarzo doloroso di stoffe. Io due squarci. Due rantoli, lui, fascio di membra snervate, lì al suolo. È steso. Un terzo colpo  gli assesto. Grato ossequio a Zeus dell’abisso, patrono dei morti. Sfoga l’anima crollando – una boccata precipitosa di  sangue e spira. Mi schizza di fosche stille – velo di rugiada scarlatta che mi fa lieta, come la semente del grano, quando  nel pieno sbocciare dei chicchi s’ingemma del rorido dono del cielo. Questi gli eventi, degna nobiltà di Argo. Esultate se vi piace. Io me ne glorio. Se mai fosse buon momento per libare su un ucciso, ora sarebbe giusto, legittimo, anzi.  Quest’uomo ha colmato il calice di troppi crimini, qui nella reggia: al suo ritorno gli è toccato svuotarlo.

CORO

Ci scuote la tua lingua sfacciata, questa voce superba contro lo sposo.

CLITENNESTRA

Mi state saggiando: quella donna insensata, pensate. Io però con cuore immoto mi rivolgo a gente che intende. Tu mi  assecondi, sei disposto? Mi critichi? È lo stesso. Ecco Agamennone, sì mio marito. Morto. Colpo di questa abile mano,  autrice di vendetta. Questi i fatti.

CORO

str. I 

Regina, che tossico frutto della zolla

inghiottisti, che filtro stillato

dall’onda salmastra

per commettere l’assassinio?

Per spezzare, troncare

l’imprecazione che sale dal paese?

Sarai fuorilegge, sotto un carico d’astio

ti schiaccerà la tua gente.

CLITENNESTRA

Adesso tocca a me fuggire il paese, affrontare l’astio, la pubblica esecrazione: così tu ora sentenzi. Non facesti contrasto in passato a quest’uomo. Lui, senza scrupolo – non conta la morte di un’agnella, quando il pascolo trabocca di mandrie  ricciute – immolò la sua figlia, frutto doloroso e adorato del mio parto. Doveva affascinare, in Tracia, il calo di vento. A  lui no, non toccava l’espulsione da questo paese, a fargli scontare il crimine osceno. Alle mie azioni, invece, tendi le  orecchie, e ti fai giudice senza pietà. Ora ascolta. Limita le minacce, potrai darmi ordini, ma solo piegandomi con le tue  mani: io, per me, sono pronta, da pari a pari. Régolati. Certo, se dio decide l’opposto, apprenderai la dura lezione di un  tardivo equilibrio di mente.

CORO

ant. I 

Sei spavalda di cuore

e alzi la voce arrogante.

Delira il tuo spirito

per il cruento colpo di fortuna.

Ombra fosca di sangue

– la vedo – ti scintilla negli occhi.

Hai vuoto d’amore, intorno:

devi espiare il colpo con colpo di risarcimento.

CLITENNESTRA

E tu considera la santa base dei miei giuramenti: su Equità che rese giustizia a mia figlia, su Perdizione punitrice divina, su Erinni, cui dedico quest’uomo scannato, mai varcherà la mia soglia il brivido della paura, finché attizzi il fuoco nel  mio braciere Egisto, pieno d’affetto, come sempre in passato, per me. È lui scudo non piccolo del mio franco ardire.  Eccolo, steso, colui che schizzò fango su questa donna, l’incanto delle Criseidi, laggiù sotto Troia. E guarda, ecco la  preda di guerra, la veggente, la profetessa d’oracoli che spartì il letto con lui. Che amica fedele di letto, ora, guardali!  Come quando si stendevano insieme sul ponte delle navi! Non è salato il conto, di quei due. Lui, giace così come vedi.  Lei, modulò la nenia estrema dell’agonia – un cigno, pareva. Eccola stesa con lui, a fare l’amore. Me la porse lui, il mio  uomo, ghiotto contorno al mio godere!

Eschilo

Fonte: eschilo_agamennone

I fratelli Karamazov

Fëdor Pavlovič decide, dopo essere stato abbandonato dalla prima moglie, di risposarsi con Sof ‘ja Ivanovna. L’incompatibilità di due caratteri nettamente distinti genera uno squilibrio emotivo all’interno dell’animo della giovane moglie, conducendola ad una forma di isteria.

Fëdor Pavlovič ben presto si sposò per la seconda volta. Il secondo matrimonio durò circa otto anni. Pescò la sua seconda consorte, Sof ‘ja Ivanovna, anche lei molto giovane, in un altro governatorato nel quale era passato per via di un piccolo appalto in società con un certo ebreo. Sebbene Fëdor Pavlovič gozzovigliasse, bevesse e si desse alla bella vita, tuttavia non smetteva mai di occuparsi di investire il proprio capitale e concludeva sempre con successo i suoi affarucci anche se, ovviamente, senza farsi tanti scrupoli. Sof ‘ja Ivanovna era figlia di un oscuro diacono ed era rimasta orfana e senza parenti sin dall’infanzia; era cresciuta nella ricca casa della sua benefattrice, educatrice e despota, l’illustre vegliarda vedova del generale Vorochov. Non conosco i dettagli, ho solo sentito dire che una volta avevano tolto la mite, placida, umile educanda dal cappio che aveva appeso a un chiodo in un ripostiglio, tanto le riusciva difficile sopportare il carattere bisbetico e gli eterni rimproveri di quella vecchia, che, forse, non era cattiva ma tiranneggiava intollerabilmente il prossimo per noia. Fëdor Pavlovič chiese la mano della ragazza, raccolsero informazioni su di lui e lo cacciarono via e allora lui, come nel primo matrimonio, propose la fuga all’orfanella. È molto, molto probabile che lei stessa non lo avrebbe seguito per nulla al mondo se per tempo ne avesse saputo di più sul suo conto. Ma il fatto accadeva in un altro governatorato e poi che cosa poteva capire una ragazzina di sedici anni che avrebbe preferito annegarsi nel fiume piuttosto che continuare a vivere dalla sua benefattrice? E così la poverina cambiò una benefattrice per un benefattore. Fëdor Pavlovič questa volta non ottenne neanche il becco di un quattrino perché la generalessa montò su tutte le furie, non dette nulla e per di più li maledisse entrambi; questa volta però egli non aveva programmato di ottenere nulla, era stato sedotto esclusivamente dalla straordinaria bellezza dell’innocente fanciulla e, soprattutto, dalla sua aria innocente che aveva un fascino particolare per un lascivo e, fino a quel momento, depravato estimatore solo del tipo più volgare di bellezza femminile. «Quegli occhietti innocenti allora mi tagliarono l’anima come la lama di un rasoio», raccontava in seguito con il suo solito ghigno ripugnante. Del resto, in un uomo depravato come lui anche quello poteva essere motivo di attrazione lasciva. Non avendo ricevuto alcuna ricompensa, Fëdor Pavlovič non fece tante cerimonie con la consorte e, sfruttando il fatto che ella, per così dire, era “in torto” dinanzi a lui e che lui l’aveva quasi “tolta dal cappio” e sfruttando, soprattutto, la straordinaria mitezza e umiltà di lei, egli addirittura calpestò le più elementari regole della decenza matrimoniale. In casa, alla presenza stessa della moglie, c’era un andirivieni di donne di malaffare e si organizzavano orge. Come nota caratteristica dirò che il servo Grigorij, un moralista cupo, ottuso e testardo, che aveva odiato la precedente padrona di casa, questa volta prese le parti della nuova padrona, la difendeva e litigava per lei con Fëdor Pavlovič in un modo quasi inammissibile da parte di un servo; una volta addirittura disperse con la forza un’orgia e tutte le svergognate che vi erano convenute. In seguito a tutto questo, alla disgraziata giovane donna, vissuta nel terrore sin da piccola, venne una specie di malattia nervosa femminile che si riscontra con maggiore frequenza nel popolino, fra le donne di campagna, che, per via di questo male, vengono chiamate klikusi. A causa di questa malattia, che provocava terribili attacchi isterici, la malata di tanto in tanto perdeva persino la ragione.

Fëdor Dostoevskij

Fonte: dostoevskij_karamazov

Le Metamorfosi o Asino d’Oro

Il testo è tratto dal “romanzo” di Apuleio Le Metamorfosi o L’Asino d’Oro, che tratta delle avventure cui deve andare incontro il protagonista del libro, Lucio, trasformato in asino per la propria stolta curiosità. L’Asino Lucio nel suo vagare incontra esempi di grande virtù e di bassissima scelleratezza, che l’autore dipinge con tinte fosche. Il brano antologizzato rappresenta uno di questi ultimi casi: Lucio si trova ad assistere ad un caso di omicidio.

X. II
Alcuni giorni dopo, ricordo che si scoprì proprio lì un delitto orribile, un crimine efferato, di cui voglio accennarvi in questo mio libro perché possiate conoscerlo anche voi.
Il padrone di casa aveva un figlio, molto istruito e per questo modesto e virtuoso, tanto che anche tu, lettore, avresti gradito averne uno come lui.
La madre era morta da molto tempo e il padre s’era risposato e da questo secondo matrimonio aveva avuto un figliolo che allora poteva contare dodici anni.
Ma la matrigna che nella casa del marito si faceva notare più per la sua bellezza che per i buoni costumi, o perché lei era corrotta per natura o perché il destino la spingeva all’infamia più degradante, certo è che mise gli occhi sul figliastro.
Bada bene, lettore, io sto raccontandoti di una tragedia non di una commediola e che quindi dal socco ora si passa al coturno.
La donna, finché l’amore era sul nascere e quindi poco esigente, seppe resistere ai suoi deboli stimoli e soffocare facilmente in silenzio la tenue passione; ma quando il crudele iddio cominciò a divamparle in cuore e a diffondere come una smania per le sue intime fibre, ella cedette, e, fingendo un mortale languore nascose la ferita dell’animo dando ad intendere d’esser malata.
Tutti sanno che il deperimento del volto è comune agli ammalati come agli innamorati: viso pallido, occhi languidi, gambe fiacche, sonni inquieti, respiro sempre più affannoso, via via che cresce la pena.
A vederla pareva che lei si agitasse soltanto per un attacco di febbre e, invece, piangeva anche. E quanta ignoranza nei medici: cosa volevano dire il polso frequente, le vampe al viso, il respiro ansimante, il continuo voltarsi e rivoltarsi ora su un fianco ora sull’altro?
Santo cielo! Com’è facile capire, anche senza essere un medico, cosa vuol dire quando uno brucia e non ha

febbre, solo se si ha un po’ d’esperienza nelle cose d’amore.
III
La donna, dunque, nella sua eccitazione, non riuscendo più oltre a contenersi, decise di rompere il lungo silenzio e mandò a chiamare il figlio, nome questo che, se avesse potuto, per non arrossire, se lo sarebbe volentieri cancellato dalla mente.
Il giovane non indugiò a obbedire all’ordine della matrigna ammalata e con la fronte segnata dalla tristezza e dal cruccio, come quella di un vecchio, con tutto il dovuto rispetto entrò nella camera della moglie di suo padre e della madre di suo fratello.
La donna, però, depressa dal lungo tormentoso silenzio, fu ripresa dai dubbi e le parole che un momento prima aveva ritenute adatte per la circostanza, ora le sembravano sconvenienti e, trattenuta da un senso di vergogna, non sapeva da dove cominciare.
E quando il giovane, non sospettando di nulla, le chiese con deferenza che male avesse, lei, approfittando che, malauguratamente, erano soli, divenne audace e scoppiando in un pianto dirotto, coprendosi il volto con un lembo della veste, con voce trepidante, così gli parlò brevemente: «Tu sei la causa, l’origine del mio male, ma tu sei anche il rimedio, la mia sola salvezza. I tuoi occhi, fissando i miei, mi son penetrati dentro fin nel profondo dell’animo e vi hanno acceso un fuoco che mi brucia tutta e che non riesco più a estinguere. Muoviti a pietà d’una donna che muore di te e non farti scrupolo per tuo padre a cui, in fondo, salvi la moglie che altrimenti morrebbe. Del resto io ti amo anche perché nel tuo volto ritrovo il suo. Non aver timore, siamo soli e c’è tutto il tempo per far quello che ormai è inevitabile; e poi, le cose che non si vengono a sapere è come se non fossero mai accadute.»
IV
Il giovane rimase sconvolto da quella inattesa rivelazione e sebbene fosse inorridito dinanzi a un crimine così mostruoso, pensò di non esasperare la donna con un netto rifiuto ma di calmarla con vaghe promesse e, intanto, di prender tempo.
Così le dette tutte le assicurazioni possibili e immaginabili, le disse di tirarsi su, di rimettersi in salute e di attendere che suo padre si assentasse per qualche viaggio perché allora essi si sarebbero goduti a loro agio.
Così le disse e subito si sottrasse alla insidiosa presenza della matrigna e andò difilato a trovare il suo maestro, un vecchio di molta esperienza e di gran senno, pensando che in una così grave sciagura familiare fosse urgente un qualche saggio consiglio.
I due ragionarono a lungo e insieme convennero che l’unico rimedio era quello di sottrarsi con la fuga alla tempesta che il destino avverso addensava su quella casa.
Ma la donna che non ce la faceva più ad aspettare, con un pretesto qualsiasi e con straordinaria abilità riuscì a convincere il marito a recarsi subito in certe sue proprietà molto distanti di lì. Fatto questo, ancor più eccitata perché vedeva appagata in anticipo la sua speranza, pretese che il ragazzo, come le aveva promesso, si concedesse alla sua libidine.
Ma il giovane, ora con una scusa ora con un’altra, cercò di eludere l’infame convegno, tanto che la donna comprendendo chiaramente da tutti quei pretesti che egli non aveva alcuna intenzione di mantenere la sua promessa, con estrema volubilità, mutò il suo nefando amore in un odio ben più terribile. E chiamato un suo schiavo che s’era portato in dote, uno scellerato capace di tutti i delitti, lo mise a parte delle sue criminali intenzioni, e a entrambi non parve cosa migliore che uccidere lo sventurato ragazzo.
Così la matrigna mandò subito quel delinquente a procurarsi un veleno a effetto istantaneo che, accuratamcnte sciolto nel vino, doveva togliere di mezzo il figliastro innocente.
V
Mentre quei due criminali s’accordavano sul momento più opportuno per dargli da bere il veleno, il ragazzo più giovane, proprio il figlio di quella perfida donna, rientrò a casa dalle lezioni del mattino e, fatta colazione e sentendo sete, vide quel bicchiere di vino in cui era stato messo il veleno e, non sospettando quale insidia nascondesse, bevve tutto d’un fiato.
Così il ragazzo bevve la morte destinata al fratello e, di schianto, crollò esanime a terra.
Accorse sgomenta tutta la servitù e la stessa madre alle grida del maestro sconvolto da quella repentina tragedia, e subito apparve chiaro che si trattava di veleno e ognuno cominciò a fare le più svariate supposizioni sugli autori di quell’orribile delitto.

Ma quella femmina perversa, esempio più che unico della malvagità delle matrigne, non fu punto turbata dalla morte improvvisa del figlio, non sentì alcun rimorso per quel delitto, per la sventura della sua famiglia, per il dolore del marito, per il lutto che avrebbe avvolto la casa, ma trasse spunto da questa disgrazia per portare a compimento la sua vendetta.
Inviò subito un corriere per informare della sciagura il marito che era in viaggio e, quando questi rientrò a precipizio, con un’audacia senza pari, disse che era stato il figliastro ad assassinare con il veleno suo figlio. E in questo, se vogliamo, mentiva fino a un certo punto, perché, in effetti, il ragazzo aveva rivolto su di sé la morte destinata all’altro; epperò aggiunse che il fratello minore era stato ammazzato dal figliastro perché lei non s’era concessa alle sporche voglie di quest’ultimo che aveva tentato di farle violenza.
Inoltre, ancora non contenta di queste turpi menzogne, aggiunse che quando s’era visto smascherato, l’aveva minacciata con la spada.
Sgomento per la perdita dei suoi due figli il povero padre si sentì come travolto da un’immane catastrofe.
Il figlio più piccolo se lo vedeva infatti seppellire sotto i suoi occhi e l’altro sapeva che glielo avrebbero condannato a morte per incesto e omicidio. Eppure verso quest’ultimo, per le false lacrime di una moglie troppo amata, sentiva ormai un odio profondo.
VI
S’erano appena concluse con la sepoltura le cerimonie funebri che il povero vecchio con il viso ancora scavato dal pianto e i capelli bianchi sporchi di cenere, lasciò il sepolcro del figlio e raggiunse il tribunale. Qui, fra le lacrime e le implorazioni, gettandosi ai piedi dei decurioni, ignaro delle frodi della perfida moglie, scongiurò con tutta l’anima che l’altro suo figlio fosse condannato a morte, dichiarandolo colpevole di incesto per aver violato il talamo paterno, un fratricida per l’uccisione del fratello, un assassino per aver minacciato di morte la matrigna.
E tanta fu la pietà, tanto lo sdegno che egli suscitò nei senatori e fra il popolo che di fronte ad accuse così schiaccianti e palesi e a prove così deboli e incerte portate a sua difesa, tutti gridarono che bisognasse tagliar corto con le lungaggini procedurali e che quel pericolo pubblico fosse condannato pubblicamente alla lapidazione.
Ma i magistrati temendo di esporsi a un rischio troppo grande se da un banale motivo di sdegno il tumulto popolare avesse preso dimensioni tali da minacciare lo stesso ordine cittadino, da un verso si raccomandarono ai decurioni, dall’altro convinsero il popolo perché si istruisse un processo secondo tutte le regole della procedura nel rispettò della tradizione, si esaminassero le prove portate dall’una e dall’altra parte e si pronunziasse una sentenza regolare, non all’uso dei barbari o dei selvaggi o come fanno i tiranni e i prepotenti che condannano un cittadino senza nemmeno ascoltarlo; questo anche per non dare, in un’età di prosperità e di pace, un esempio di crudeltà.
VII
Quando ciascuno si fu seduto al posto che gli assegnava il suo rango, nuovamente il banditore si fece sentire e chiamò il primo accusatore, poi, a gran voce, anche l’imputato, mentre avvertiva gli avvocati, secondo la legge Attica e la procedura dell’Areopago a non dilungarsi in esordi e a non appellarsi alla pietà popolare.
Che le cose fossero andate così io lo seppi dopo da alcune persone che continuarono a parlarne; quale poi sia stata la requisitoria del pubblico accusatore e con quali argomenti l’imputato si sia difeso e poi le arringhe e le discussioni, io non so proprio, confinato com’ero nella stalla, e quindi non sono in grado di riferirvelo; perciò su queste carte riporterò soltanto quello che ho potuto accertare.
Dunque, terminati i dibattiti, fu deciso che la verità e l’attendibilità delle accuse fossero accertate da prove sicure per non giungere a una condanna così grave su semplici sospetti e che, quindi, era necessario far venire in tribunale quel famoso servo, il solo che a detta di tutti, sapeva com’erano andate effettivamente le cose.
Ma quel delinquente, per nulla turbato dall’esito incerto di un processo così importante, né dalla maestà della curia riunita al completo e tanto meno dalla sua coscienza sporca, cominciò a raccontare un sacco di fandonie facendole passare per pura verità, che cioè quel giovane, infuriato per la repulsa della matrigna, lo aveva chiamato e per vendicarsi gli aveva chiesto di uccidere il figlio della donna promettendogli un grosso premio in cambio del suo silenzio; e che siccome lui s’era rifiutato, lo aveva minacciato di morte; che gli aveva consegnato il veleno da far bere al fratello, preparato con le sue mani, ma che poi, sospettando che egli non compisse il delitto e si tenesse la tazza come prova, alla fine l’aveva porta al ragazzo lui stesso.
Con queste dichiarazioni che quel miserabile fece con un’aria tutta spaventata e come se dicesse le cose più vere di questo mondo, il processo ebbe termine.
Questo saggio consiglio venne accolto e subito il banditore ebbe l’incarico di radunare i senatori nella curia.

VIII
Fra i decurioni non vi fu più nessuno disposto alla benevolenza. Di fronte all’evidenza tutti ritennero di dover proclamare il giovane colpevole e degno di essere cucito nel sacco.
La sentenza fu unanime ed era già stata trascritta sulle schede che ciascuno si apprestava a metter nell’urna di bronzo secondo la consuetudine di sempre, dove, una volta deposte, avrebbero irrevocabilmente segnato la sorte del reo e rimesso la sua testa al carnefice, quando un senatore, uno dei più anziani, stimato da tutti per la sua rettitudine e medico di grande prestigio, coprendo con la mano la bocca dell’urna per evitare una votazione affrettata, così parlò alla corte:
«Mi consola il fatto di aver vissuto così a lungo sempre nella vostra stima e perciò non posso consentire che, condannando costui sotto falsa accusa si commetta un vero e proprio assassinio, né che voi, chiamati a esercitare la giustizia sotto il vincolo del giuramento, fuorviati dalle menzogne di uno schiavo, diventiate voi stessi spergiuri. Almeno per quel che mi riguarda, io non posso calpestare il timore degli dei e venir meno alla mia coscienza pronunciando una condanna ingiusta.
«Perciò ascoltatemi e saprete come sono andate veramente le cose.
IX
«Questo furfante, non molto tempo fa, mi si presentò con cento monete d’oro sonanti dicendomi che aveva urgente bisogno di un veleno a pronto effetto per un malato che, colpito da un male inguaribile, voleva farla finita con una vita di sofferenze.
«Io, però, mi accorsi che questo sciagurato s’impappinava, adduceva confusi pretesti e così mi convinsi che stava macchinando qualche delitto.
«Allora gli detti il veleno, certo che glielo detti, ma prevedendo quanto prima un’inchiesta, non ritirai il compenso che mi aveva offerto: ‘Sta a sentire,’ gli dissi, ‘nel caso che qualcuna di queste monete fosse falsa o fuori corso, domani le controlleremo davanti a un banchiere.’
«Lui ci cascò e sigillò il denaro, così quando l’ho visto comparire in tribunale, ho detto a un mio schiavo di correre in bottega a prendere il sacchetto e di portarlo qui. Eccolo, io ve lo esibisco. E se lo guardi anche lui e dica che non e il suo sigillo. E allora, com’è che si può accusare il fratello se il veleno l’ha comprato costui?»
X
Allora questo mascalzone fu preso da un tremito convulso, perse il suo colorito naturale e divenne cadaverico, cominciò a sudar freddo per tutto il corpo e a non star fermo un momento con i piedi, a grattarsi continuamente la testa, a borbottare nella bocca semichiusa parole incomprensibili, così che ognuno capì che qualcosa sulla coscienza doveva avercela.
C’è da dire, però, che egli riprese quasi subito il controllo di sé e furbo com’era, cominciò a negare, anzi ad accusare il medico di mendacio.
Allora questi, vedendo che oltre l’autorità della corte si offendeva l’onorabilità della sua persona, raddoppiò la sua foga oratoria per confondere quel farabutto tanto che, su ordine dei magistrati, i pubblici ufficiali afferrarono le mani di quell’infame schiavo, gli strapparono l’anello di ferro e lo confrontarono con il sigillo del sacchetto: il raffronto confermò il sospetto iniziale. Si passò allora alla tortura e, all’uso greco, non gli furono risparmiati la ruota e il cavalletto. Ma egli oppose una resistenza eccezionale e non si piegò né alle frustate né al fuoco.
XI
Allora il medico: «No, non permetterò, perdio, non posso permettere che voi contro ogni giustizia condanniate a morte questo giovane innocente e che costui, prendendosi beffa di questo tribunale, sfugga alla pena che si merita per l’orrendo delitto commesso.
«Eccovi, allora, la prova decisiva del fatto in questione.
«Dunque, quando vidi che questo sciagurato insisteva per avere un veleno a effetto fulminante, subito riflettei che come medico io non potevo dare a un tizio qualunque sostanze che facessero morire ben sapendo che la medicina serve a guarire gli uomini non a ucciderli; però, temendo che se io gli avessi negato il veleno, non è che col mio rifiuto gli avrei tolta l’occasione di porre in atto il suo crimine in quanto egli se lo sarebbe procurato da un altro o avrebbe usato, alla fin fine, la spada o un’altra arma, io glielo diedi, ma era un sonnifero, quello famoso che si estrae dalla mandragora e che fa piombare in un letargo simile alla morte.

«Non c’è da stupirsi, quindi, se questo furfante sopporta la tortura; egli la ritiene ancora il male minore perché sa che per lui non c’è più speranza e che, secondo le leggi degli antenati, lo aspetta la pena di morte.
«Ma se è vero che quel ragazzo ha bevuto la pozione preparata da me, è vero anche che egli è vivo e che ora riposa e dorme e che fra poco, quando si ridesterà dal suo sonno profondo, tornerà alla luce del giorno.
«Se, invece, egli è morto bisognerà che voi cerchiate altrove le cause del suo decesso.»
XII
Con questo discorso il vecchio ebbe partita vinta e subito tutti si recarono di corsa al sepolcro dove giaceva composto il corpo del ragazzo. Non ci fu un senatore, un nobile, o anche uno solo del popolo che, spinto dalla curiosità, non vi accorresse. Ed ecco il padre, alzato con le proprie mani il coperchio della bara, vide che il figlio, proprio allora, stava destandosi dal profondo letargo e tornava dalla morte alla vita; e strettoselo forte fra le braccia, senza riuscire a dir parola per la troppa gioia, lo mostrò al popolo; poi, così com’era ancora avvolto nelle vesti funebri, lo portò in tribunale e la verità venne fuori e piena luce fu fatta sugli intrighi dell’infame servo e dell’ancor più infame moglie.
La matrigna fu condannata all’esilio perpetuo, il servo al patibolo e il bravo medico, su proposta unanime, in premio di quel sonno provvidenziale, s’ebbe le monete d’oro.
E fu proprio la mano della divina provvidenza a far concludere così l’avventura straordinaria e clamorosa di quel vecchio che dopo aver corso il pericolo di vedersi privato dei suoi due giovani figli, in poco tempo, anzi nel giro di qualche istante, si ritrovò padre di entrambi.

Apuleio

Fonte: Apuleio, Metamorfosi, a cura di Nino Marziano, Garzanti, Milano, 2008

Una sincera, spudorata storia di sla

La cruda e realistica autobiografia di una malata di sla: “L’ultima estate” è un’opera a metà tra diario e letteratura, una collezione di fatti, persone e pensieri raccontati con spudorata sincerità.

Il caso editoriale del 2008 è stato quello di Paolo Giordano con ‘La solitudine dei numeri primi’, quello di quest’anno, Cesarina Vighy de ‘L’ultima estate’: due esordienti. Un fattore comune non infrequente, si pensi a come torni anche in ‘Mille anni che sto qui’ di Mariolina Venezia e per la Benedetta Cibrario di ‘Rossovermiglio’. È chiaro che le opere prime conservano una freschezza letteraria che gli ‘scrittori di professione’ facilmente perdono, preferendo (loro o gli editori) riciclare i cliché rivelatisi vincenti. Ed ecco dunque l’incetta di premi: il quartetto citato ha fatto strage di Campiello e Strega.

Ma il caso della Vighy ha una particolarità, curiosamente opposta a quella di Giordano: ad un giovanissimo è infatti succeduta una signora over 70. Le due ‘rivelazioni’ sono agli antipodi non solo per l’anagrafe: all’aitante ricercatore che ha dimostrato grande equilibrio, anche nel gestire l’immediato ed eclatante risultato, si contrappone una malata di sla, cui proprio l’approssimarsi della fine ha impresso la spinta risolutiva per darsi alla letteratura; a un romanzo nel quale la malattia (psichica) dei protagonisti viene trattata con estrema freddezza (è questo l’aspetto che ha talvolta respinto i lettori de ‘La solitudine dei numeri primi’), fa pendant la scelta della Vighy redigere una cruda e realistica autobiografia partendo dalla situazione di paziente irrecuperabile.

Quest’ultimo aspetto, però, è prevalso eccessivamente nelle interpretazioni di molti critici e commentatori. ‘L’ultima estate’ non è uno dei tanti ‘diari’ di malati che ormai si stipano nelle proposte editoriali (un genere nel quale gli affetti da sla sono particolarmente presenti). È vero che il rapporto con le progressive difficoltà fisiche e con le cure tornano spesso nelle pagine e riempiono quelle finali, ma la cifra del libro sta più in generale nella sua spudorata sincerità, possiamo dire semmai che l’età e le cattive condizioni rendono l’autrice efficacemente disinibita.

Agghiacciante, ad esempio, la rievocazione della “visita alle faiseuses d’anges”, l’aborto giovanile che viene così descritto: “Pallida, seduta ingloriosamente sul bidè, non sembravo certo una regina” (e omettiamo la macabra espulsione del feto). Con lo stesso tono, la Vighy collaziona fatti e persone non memorabili – “Cleopatro Colabianchi, l’unico uomo al mondo che portasse questo nome” – ricorrendo a qualche insistita civetteria letteraria: “spencolandomi tra i banchi alla ricerca della mia preziosa matita col gommino”. Il rischio della banalità, insomma, non sempre viene evitato: “E’ così che, nelle famiglie, si diventa prigionieri uno dell’altro, legati in una rete robustissima che non sai se fatta più d’amore o di odio”; “continuavo a piangere: non per il dolore che non c’era più, ma per la perdita, il lutto”.

Una lettura piacevole, ma non di più, grazie soprattutto alla sua trasversalità di genere. Solo, non si capisce l’illuminazione di cui questo libro ha goduto rispetto ad altri, contemporanei, connotati dalla medesima capacità di intersecare dato biografico e letterario. Ad esempio il piacevolissimo ‘Mondo privato e altre storie’ di Marta Dassù (Bollati Boringhieri, pp. 149, 10 euro): un “taccuino poco diplomatico” “scritto per insonnia” da una esperta di relazioni internazionali, insieme diario rivolto a un ipotetico “dottore” e anamnesi della complicata evoluzione identitaria della sinistra italiana.

Marco Ferrazzoli

Cesarina Vighy, “L’ultima estate” (Fazi, 2009)

Il libro sul sito di Fazi Editore

Il padre, dalla Bibbia alla psicanalisi

Un saggio dedicato al tema dell’interpretazione psicanalitica della figura paterna, partendo da Freud per poi approfondire il pensiero di due studiosi che da questo si discostarono, Carl Gustav Jung e Jacques Lacan.

‘Il nome del padre’ richiama inequivocabilmente un segno religioso, ma anche un aspetto fondamentale dell’interpretazione psicanalitica.

Il saggio dedicato a questo tema da Giuliana Kantzà prende le mosse proprio dall’appartenenza ebraica di Sigmund Freud, per poi approfondire il distacco dalla originaria formulazione freudiana su tale tema che connotò il pensiero di Carl Gustav Jung e Jacques Lacan.

Il padre, in Freud, è uno dei soggetti principali della formazione della psiche, un protagonista di quell’imprinting infantile che segnerebbe in modo indelebile la nostra personalità per tutto il resto della vita. Il padre è al centro del tabù dell’incesto che, secondo il fondatore della psicanalisi, fa da perno alla nostra struttura relazionale. Ed è proprio dalla sua uccisione ad opera dei figli che, sul piano simbolico, le società si sono evolute secondo la forma che conosciamo.

Il dissenso di Jung, che trasferì sul piano mitico la ragione di gran parte dei meccanismi psicologici individuati da Freud, fu vissuto dai due studiosi in modo piuttosto traumatico anche sul piano personale. Toccò poi a Lacan rielaborare l’insegnamento freudiano, facendone la lente di lettura delle società contemporanee. Ma all’origine resta sempre il padre veterotestamentario al quale Freud, al di là del professato laicismo, era legato in modo ‘non puramente casuale’.

Marco Ferrazzoli

Giuliana Kantzà, “Il nome del padre nella psicanalisi” (Ares, 2008)

La scheda sul sito di Ares Edizioni