Un bestseller americano di Jodi Picoult racconta una storia fiction che forse non si discosta tanto dalla nostra realtà degli anni della pandemia
La vita di Diana O’Toole scorre su binari sicuri: si sposerà entro i trent’anni, avrà figli entro i trentacinque e dalla caotica New York si trasferirà in una tranquilla villetta nei sobborghi, il tutto facendo carriera nello spietato mondo delle aste d’arte. È sicura che il suo fidanzato Finn, specializzando in Chirurgia, le farà la proposta di matrimonio durante la fuga romantica alle Galápagos che hanno organizzato, pochi giorni prima del suo trentesimo compleanno. Giusto in tempo. Ma un virus che sembrava lontanissimo compare all’improvviso in città e, alla vigilia della partenza, Finn le dà una brutta notizia: non può assentarsi dall’ospedale. Così, a malincuore, Diana decide di partire senza di lui: chi rinuncerebbe alla prospettiva di una spiaggia assolata su un’isola esotica? Ben presto, però, si ritrova in completa solitudine in un luogo remoto, e quella che doveva essere una vacanza da sogno si trasforma in un incubo. Ma a volte c’è bisogno che vada tutto storto perché alla fine tutto si risolva nel migliore dei modi… Dall’autrice bestseller Jodi Picoult un nuovo, appassionante romanzo che ha dominato le classifiche di vendita americane. Presto un film Netflix, Vorrei che fossi qui ci fa riflettere su quanto le nostre priorità possano cambiare e su come anche le certezze più salde possano essere stravolte.
Antologizziamo qui la scena della morte di Goriot, fiaccato dagli anni e dalle delusioni della vita, tra le quali un amore patologico e non corrisposto per le figlie, che si segnalano per la loro distanza ed assenza nei confronti del padre.
«Non dimentichi Sylvie», bisbigliò la signora Vauquer all’orecchio di Eugène, «sono due notti che veglia». Appena Eugène ebbe voltato le spalle, la vecchia corse dalla cuoca. «Prendi le lenzuola rivoltate, numero sette. Perdio, vanno anche troppo bene per un morto», le disse all’orecchio. Eugène, che aveva già salito qualche scalino, non sentì le parole della vecchia locandiera. «Forza», gli disse Bianchon, «infiliamogli la camicia. Tienilo diritto». Eugène si mise a capo del letto e sorresse il moribondo al quale Bianchon tolse la camicia. Il vecchio fece un gesto quasi volesse trattenere qualcosa sul petto, ed emise dei gridi lamentosi e inarticolati, come un animale che abbia un grande dolore da esprimere. «Ah, sì!», fece Bianchon. «Vuole una catenella di capelli con un piccolo medaglione che prima gli abbiamo tolto per applicare le sanguisughe. Pover’uomo! Bisogna rimettergliela. È sul caminetto». Eugène andò a prendere una catenella intrecciata di capelli biondo cenere, sicuramente quelli della signora Goriot. Su una faccia del medaglione lesse: Anastasie, e sull’altra: Delphine. Immagine del suo cuore che riposava sempre sul suo cuore. I riccioli che conteneva erano talmente fini che dovevano essere stati tagliati nella loro prima infanzia. Quando il medaglione gli toccò il petto, il vecchio fece un haan prolungato che manifestava una soddisfazione terribile a vedersi. Era uno degli ultimi echi della sua sensibilità, che pareva ritrarsi in quel centro sconosciuto, origine e punto d’arrivo delle nostre simpatie. Il suo viso contratto assunse un’espressione di gioia morbosa. I due studenti, colpiti da quella tremenda esplosione di forza affettiva che sopravviveva al pensiero, piansero calde lacrime che caddero sul moribondo strappandogli un grido di acuto piacere. «Nasie! Fifine!», esclamò. «È ancora vivo», disse Bianchon. «A che gli serve?», chiese Sylvie. «A soffrire», rispose Rastignac. Dopo aver fatto cenno al compagno perché lo imitasse, Bianchon s’inginocchiò per infilare le braccia sotto le gambe del malato, mentre Rastignac s’inginocchiava dall’altra parte del letto per infilarle sotto la schiena. Sylvie si teneva pronta a tirar via le lenzuola appena il moribondo fosse stato sollevato, per sostituirle con quelle che aveva portato. Ingannato forse dalle lacrime, Goriot impiegò le ultime forze per tendere le mani incontrando ai due lati del letto le teste degli studenti. Le afferrò con violenza per i capelli, e lo si udì mormorare fievolmente: «Ah! Angeli miei!». Due parole, due mormorii espressi dall’anima che così sospirando volò via.
Il principe Sigismondo vive rinchiuso in una torre per volere di suo padre. La sua esistenza si svolge sul filo tra sogno e realtà, senza la possibiltà di ricomporre questa dicotomia. In questo brano il principe descrive la propria condizione.
Sigismondo (solo) So che esistiamo in mondo singolare dove vivere è sognare… e l’esperienza mi insegna che l’uomo che vive sogna fino a farsi ridestare…. Sogna il re il suo trono, e vive nell’inganno… comandando… disponendo e governando… e l’applauso che riceve in prestito… nel vento scrive…. e in cenere lo converte la morte… sventura forte! Chi ancora vorrà regnare… dovendosi ridestare nel sogno della morte? Sogna il ricco la ricchezza… che continui affanni gli offre… sogna il povero… che soffre la miseria e la tristezza…. sogna chi agli agi s’avvezza… sogna chi nell’ansia attende… sogna chi ferisce e offende… e nel mondo… in conclusione… sogna ognuno la passione… ch’egli vive… e non lo intende… Io sogno la prigionia che mi tiene qui legato… e sognai che un altro stato mi rendeva l’allegria… Che è la vita?… Frenesia… Che è la vita?… Un’illusione… solo un’ombra… una finzione… e il maggiore bene… un bisogno del nulla… la vita è un sogno… e i sogni… non sono che sogni.
Il brano antologizzato riguarda la terribile morte della prima moglie di David, Dora, che viene a mancare a causa di un aborto spontaneo.
Tento di trattenere le lacrime e di rispondere: «Oh, Dora, amor mio, eri adatta come lo ero io per essere un marito!» «Non lo so,» e scuote ancora i riccioli come un tempo. «Forse! Ma se fossi stata più adatta al matrimonio, avrei reso più adatto anche te. Inoltre tu sei intelligente, e io non lo sono mai stata.» «Siamo stati molto felici, Dora mia dolce.» «Sono stata molto felice, molto. Ma, col passar degli anni, il mio caro ragazzo si sarebbe stancato della sua moglie-bambina. Sarebbe stata sempre meno un compagno per lui. E lui avrebbe sentito sempre più quello che mancava nella sua casa. Non sarebbe migliorata. È meglio che sia andata così.» «Oh, Dora, cara, cara, non dirmi queste cose. Ogni tua parola mi sembra un rimprovero!» «No, nemmeno una sillaba!» mi risponde baciandomi. «Oh, caro, non lo meriti, e io ti amo troppo per dirti una sola parola di rimprovero, davvero: è tutto il merito che ho avuto oltre al fatto di essere graziosa… o almeno tu mi consideravi tale. C’è molta solitudine da basso, Doady?» «Tanta! Tanta!» «Non piangere! C’è ancora la mia sedia?» «Al suo solito posto.» «Oh, come piange il mio povero ragazzo! Zitto, zitto! Adesso fammi una promessa. Voglio parlare ad Agnes. Quando scendi, dillo ad Agnes e mandamela su; e mentre le parlo non lasciar venire nessuno, nemmeno la zia. Voglio parlare solo ad Agnes. Voglio parlare ad Agnes da sola.» Le prometto che verrà subito; ma, nel mio dolore, non posso lasciarla. «Ho detto che è meglio che sia andata così!» mi mormora tenendomi fra le braccia. «Oh, Doady, fra qualche anno tu non avresti amato la tua moglie-bambina più di quanto la ami adesso; e dopo qualche anno ancora lei ti avrebbe così messo alla prova e deluso che tu non saresti stato capace di amarla nemmeno la metà di adesso! So che ero troppo giovane e stupidella. È molto meglio che sia andata così!» Quando scendo in salotto, Agnes è lì; le comunico il messaggio. Scompare lasciandomi solo con Jip. La sua pagoda cinese è accanto al fuoco; lui vi è sdraiato dentro, sul suo letto di flanella, tentando lamentosamente di dormire. La luna brilla luminosa nell’alto. Mentre guardo fuori nella notte, le lacrime mi cadono copiose e il mio indisciplinato cuore è castigato duramente… molto duramente. Mi siedo accanto al fuoco pensando con un sordo rimorso a tutti i segreti sentimenti che ho nutrito durante il mio matrimonio. Penso a ogni piccola cosa intervenuta fra me e Dora, e capisco la verità che di piccole cose è formata la nostra vita. Sempre risorge dal mare dei ricordi l’immagine della cara fanciulla quale l’avevo conosciuta dapprima, aggraziata dal mio giovane amore e dal suo, con tutte le magie di cui questo amore è ricco. Sarebbe stato davvero meglio se ci fossimo amati come due fanciulli e ci fossimo poi dimenticati? Indisciplinato cuore, rispondi! Non so come il tempo trascorra; finché sono richiamato a me dal vecchio compagno della mia moglie- bambina. Più inquieto del solito, si trascina fuori della sua casa, e mi guarda, e va incerto alla porta, e uggiola per salire. «Non stanotte, Jip! Non stanotte!» Torna molto lentamente verso di me, mi lecca la mano e alza verso il mio volto i suoi occhi appannati. «Oh, Jip! Forse non avverrà mai più!» Si abbandona ai miei piedi, si allunga come per dormire, e, con un grido lamentoso, muore. «Oh, Agnes, guarda qui!» …Quel volto, così pieno di pietà e di dolore, quel fluire di lacrime, quel terribile, silenzioso appello a me, quella mano solenne levata verso il cielo!
Paradossalmente, quello antologizzato è uno dei pochi brani dedicati ai danni del tabacco nel monologo di Cechov. Nel resto dell’opera, infatti, il protagonista Njuchin parlerà del rapporto poco sano con la propria moglie.
Come argomento della mia conferenza odierna ho scelto, per così dire, il danno che reca all’umanità l’uso del tabacco. Sono fumatore anch’io, ma mia moglie mi ha ordinato di parlare oggi della nefasta influenza del tabacco, e quindi la cosa non si discute. Del tabacco, e tabacco sia, per me è del tutto indifferente; a loro, gentili signori, propongo di rapportarsi alla mia presente conferenza con la dovuta serietà, altrimenti non se ne caverà nulla. Chi fosse spaventato da un’arida conferenza scientifica, chi non l’apprezzasse, può non ascoltarla e uscire. (Si aggiusta il gilet).Chiedo particolare attenzione ai signori medici qui presenti, che potranno trarre dalla mia conferenza molte indicazioni utili, visto che il tabacco, oltre alle sue nefaste influenze, viene usato anche in medicina. Per esempio, se si chiudesse una mosca in una tabacchiera, probabilmente creperebbe di esaurimento nervoso. Il tabacco è, essenzialmente, una pianta… Quando tengo una conferenza, di solito ammicco con l’occhio destro, ma loro non facciano caso; è l’emozione. Sono una persona molto nervosa, parlando in generale, ma ad ammiccare ho cominciato nel 1889, il 13 settembre, lo stesso giorno in cui a mia moglie nacque, in un certo senso, la nostra quarta figlia Varvara. Tutte le mie figlie sono nate il 13 del mese.
Vanja, guardandosi alle spalle, trova di essere deluso della sua vita: le speranze e le illusioni sono ormai cadute. Per questo motivo nel brano antologizzato tenta il suicidio.
ASTROV (grida adirato) Smettila! (Addolcendosi).Quelli che vivranno cento, duecento anni dopo di noi, ci disprezzeranno perché abbiamo vissuto le nostre vite in modo così stupido e rozzo; quelli, forse, troveranno il modo per essere felici, ma noi… Tu ed io abbiamo un’unica speranza. La speranza che quando riposeremo nelle nostre tombe, vengano a visitarci visioni, magari piacevoli. (Sospirando).Sì, fratello. In tutto il distretto ci sono state soltanto due persone per bene e intelligenti: io e te. Ma nel giro di una decina di anni, la vita filistea, la vita spregevole ha avuto ragione di noi; con le sue putride esalazione ha avvelenato il nostro sangue, e noi siamo diventati volgari come tutti gli altri. (Vivacemente). Ma io non ci casco, comunque. Restituiscimi ciò che mi hai preso. VOJNICKIJ Non ti ho preso niente. ASTROV Mi hai preso dalla borsa delle medicine una fiala di morfina. Pausa. Ascolta, se tu, a qualunque condizione, hai deciso di farla finita, va’ nel bosco e sparati un colpo là. Rendimi la morfina, se no ci saranno chiacchiere, congetture, penseranno che sia stato io a dartela… Già dovrò farti l’autopsia… Pensi che sia interessante? (Entra Sonja.) VOJNICKIJ Lasciami. ASTROV (a Sonja) Sof’ja Aleksandrovna, vostro zio ha sottratto dalla mia borsa una fiala di morfina e non la vuole restituire. Ditegli che non è cosa… intelligente, tutto sommato. E io non ho tempo. Devo partire. SONJA Zio Vanja, hai preso la morfina? Pausa. ASTROV L’ha presa. Ne sono certo. SONJA
Restituiscila. Perché ci vuoi spaventare? (Teneramente). Restituiscila, zio Vanja! Io, forse, non sono meno infelice di te, però non mi abbandono alla disperazione. Sopporto e sopporterò, finché la mia vita non finirà da sola… Sopporta anche tu. Pausa. Restituiscila! (Gli bacia le mani).Caro, dolce zio, buono, restituiscila (Piange). Sei buono, avrai pietà di noi e la restituirai. Sopporta, zio! Sopporta! VOJNICKIJ (estrae da un cassetto del tavolo la fiala e la porge ad Astrov) To’, prendi! (A Sonia). Bisogna lavorare al più presto, al più presto fare qualcosa, altrimenti non posso… non posso…
Per certi viaggi non si parte mai quando si parte. Si parte prima. A volte molto prima. Sono bastate poche parole: “Suo figlio probabilmente è autistico”
Il verdetto di un medico ha ribaltato il mondo. La malattia di Andrea è un uragano, sette tifoni. L’autismo l’ha fatto prigioniero e Franco è diventato un cavaliere che combatte per suo figlio. Un cavaliere che non si arrende e continua a sognare. Per anni hanno viaggiato inseguendo terapie: tradizionali, sperimentali, spirituali. Adesso partono per un viaggio diverso, senza bussola e senza meta. Insieme, padre e figlio, uniti nel tempo sospeso della strada. Tagliano l’America in moto, si perdono nelle foreste del Guatemala. Per tre mesi la normalità è abolita, e non si sa più chi è diverso. Per tre mesi è Andrea a insegnare a suo padre ad abbandonarsi alla vita. Andrea che accarezza coccodrilli, abbraccia cameriere e sciamani. E semina pezzetti di carta lungo il tragitto, tenero pollicino che prepara il ritorno mentre suo padre vorrebbe rimanere in viaggio per sempre. Se ti abbraccio non aver paura è la storia di un’avventura grandiosa, difficile, imprevedibile. Come Andrea. Una storia vera. Da questo romanzo Gabriele Salvatores ha tratto il suo ultimo film.
LA STORIA DI FRANCO E ANDREA Un mattino senza scuola, Fulvio Ervas guarda scorrere il mondo dal tavolino di un bar. “Ehi, tu scrittore” lo apostrofa un tipo con occhi da Richard Gere “ho una storia per te. Sei uno scrittore, vero? Mi han detto che sei uno scrittore, e di quelli bravi”. “Sì” risponde Fulvio incerto “scrivo storie di fantasia”. “Allora ascoltami” dice l’uomo, che nel frattempo ha detto di chiamarsi Franco e ha ordinato uno spritz, “perché la storia che voglio raccontarti ha la forza della vita vera e la bellezza di un sogno”. Comincia così un dialogo durato un anno intero, sotto la pergola dell’uva fragola, sul divano di casa Ervas. Franco racconta di Andrea, della loro avventura attraverso le Americhe. Fulvio è incantato dalla sua energia, dal coraggio di quel padre che ama disperatamente suo figlio e vuole regalargli a ogni costo tutta la vita che può, tutta la bellezza che può: in barba a quell’autismo maledetto. Un giorno anche Andrea entra in giardino, con i suoi delicati saltelli sulle punte, con la sua smania di abbracciarti, di toccarti la pancia, di dirti ‘bella’, ‘bello’. E la sua mano percepisce in un istante come stai veramente. La mente di Fulvio parte, elabora immagini, corre con quell’Harley Davidson su strade a perdita d’occhio. Segue la danza di Andrea, che sembra sempre sul punto di spiccare il volo. Trasforma il racconto di Franco in un romanzo che affonda nel cuore e fa decollare le emozioni. “Io e Andrea attraverseremo tutte le Americhe possibili e immaginabili: due o tre, quelle che incontreremo. Ce ne andremo a zonzo, come esploratori.” Il nuovo romanzo di Fulvio Ervas affronta un tema di grande impatto: la vita con un figlio ‘diverso’. Lo fa con slancio e umorismo. “Credo che il viaggio che vorrei fare con Andrea sia una sfida nella sfida, siamo in movimento, non aspettiamo che la vita ci scarichi a una fermata.” Narrando l’avventura di Franco e Andrea tra deserti, foreste e città, Se ti abbraccio non aver paura parla di alchimie amorose, trappole nascoste dietro uno sguardo, sogni degni di una vita intera. Della forza dirompente dell’abbraccio di Andrea.
Il seguente brano traccia le vicende avvenute al ritorno in patria di Agamennone, il pastore dei popoli: la moglie Clitemnestra, con la complicità del suo amante Egisto, uccide il re. Suo figlio Oresteè chiamato ad uccidere la madre per vendicare il padre.
PILADE Ma felici sono i mille e mille che morirono la morte dolceamara per mano del nemico! Selvaggi orrori e una fine luttuosa ha preparato invece del trionfo per i reduci un dio sdegnato e ostile. La voce degli uomini non viene fino a voi? Dovunque arriva, diffonde intorno la fama di fatti inauditi, che sono accaduti. Così lo strazio che gli atrii di Micene riempie di sospiri sempre ripetuti, è un segreto per te? Clitennestra con l’aiuto d’Egisto ha irretito il marito, l’ha ucciso il giorno stesso che è ritornato. – – Sì, tu onori questa casa regale. Io lo vedo. Il tuo cuore combatte invano la parola così atroce ed inattesa. […]
ORESTE
Il giorno che il padre cadde Elettra nascose, per salvarlo, il fratello: Strofio, il cognato del padre, lo accolse volentieri, lo crebbe accanto al proprio figlio di nome Pilade, che annodò i vincoli più belli d’amicizia con il nuovo venuto. E con la loro età, nella loro anima cresceva la smania ardente di vendicare la morte del re. Inattesi, in abito straniero, raggiunsero Micene, fingendo di portare la notizia luttuosa della morte d’Oreste con le sue ceneri. Benevola li accoglie la regina; loro entrano nella casa. Oreste rivela a Elettra che è suo fratello; lei riattizza in lui il fuoco della vendetta, che alla presenza sacra della madre si era sopìto. In silenzio lo guida al luogo dove il padre era caduto, dove una antica, lieve traccia del sangue versato con protervia, colorava il suolo lavato spesso, di funeste strisce sbiadite. Con la sua lingua di fuoco lei descrisse tutte le fasi di quell’azione infame, la sua vita miserabile, da serva, l’arroganza di quei traditori fortunati e i pericoli che ora attendevano i fratelli da parte di una madre divenuta matrigna. Qui lei lo forza a stringere l’antico pugnale, strumento di furia atroce nella casa di Tantalo, e Clitennestra cadde per mano del figlio.
Madame Bovaryin questo brano ha deciso di darsi la morte con l’arsenico, emulando le grandi eroine del mondo della finzione letteraria d’amore del quale lei è rimasta vittima e prigioniera. La realtà è tuttavia ben diversa dai romanzi d’amore: l’arsenico le procurerà dei dolori inimmaginabili.
Un sapore acre in bocca la svegliò. Intravide Charles e richiuse gli occhi.
Spiava le proprie sensazioni per rendersi conto se cominciasse a star male. Ma no, non ancora. Sentiva il ticchettio della pendola, il rumore del fuoco e Charles, in piedi al suo capezzale, che respirava.
“Ah! È una cosa ben da poco la morte” pensava. “Dormirò e tutto sarà finito!”
Bevve un sorso d’acqua, e si voltò verso il muro. Quell’orribile sapore di inchiostro continuava.
«Ho sete!… Oh! Ho una sete terribile!» sospirò.
«Ma che cos’hai, insomma?» disse Charles, porgendole un bicchiere d’acqua.
«Non è nulla!… Apri la finestra… Soffoco!»
E fu afferrata dalla nausea così d’improvviso che ebbe appena il tempo di prendere il fazzoletto sotto il cuscino.
«Portalo via!» disse con vivacità «Buttalo!»
Charles le fece domande alle quali Emma non rispose. Rimaneva immobile, temendo che la più piccola emozione la facesse vomitare. Sentiva però un freddo di gelo salirle dai piedi fino al cuore.
«Ah! Ecco che comincia!» mormorò.
«Che dici?»
Voltò la testa con un movimento lento, pieno di angoscia, aprendo e chiudendo di continuo la bocca come se avesse avuto sulla lingua qualcosa di molto pesante. Alle otto, i conati di vomito ricominciarono.
Charles osservò sul fondo della bacinella qualcosa di simile a granelli bianchi attaccati alle pareti di porcellana.
«È straordinario! È una cosa stranissima!» ripeteva.
Ma Emma disse ad alta voce:
«No, ti sbagli!»
Allora, delicatamente, quasi la carezzasse, Charles le passò una mano sullo stomaco. Emma gettò un grido acuto. Charles si tirò indietro spaventato.
Poi la signora Bovary si mise a gemere, dapprima debolmente. Grandi brividi le scotevano le spalle e diventava più pallida del lenzuolo nel quale affondava le dita contratte. Il polso, aritmico, era quasi impercettibile, adesso.
Gocce di sudore gemevano dal viso cianotico che sembrava quasi irrigidito nell’esalazione di un vapore metallico. I denti battevano, gli occhi dilatati guardavano vagamente tutto intorno e a ogni domanda Emma rispondeva scotendo il capo; sorrise addirittura una o due volte. A poco a poco i gemiti si fecero più forti. Un urlo soffocato e continuo le sfuggiva; voleva far credere di stare meglio e che ben presto si sarebbe alzata ma le presero le convulsioni, gridava:
Il romanzo storico di Dacia Maraini è stato pubblicato nel 1990; nello stesso anno, l’opera vinse il Premio Campiello. “Marianna Ucrìa” è invece il titolo del film del 1997, diretto da Roberto Faenza, tratto dal romanzo. Assieme alla scheda del libro, vi proponiamo alcuni contributi utili ad approfondirne la genesi e la trama
Protagonista è Marianna, la figlia sordomuta di una grande famiglia palermitana della prima metà del Settecento. Marianna comunica per mezzo di bigliettini con il mondo ed in parte è guidata dagli altri sensi, che ha sviluppato notevolmente; fra lei e il padre, il duca Signoretto Ucrìa di Fontanasalsa, sembra esserci una tenera complicità, mentre con la madre il rapporto è improntato a una reciproca diffidenza.
All’età di sette anni, la bambina è portata dal padre ad assistere all’esecuzione di un condannato a morte, nella speranza che una forte emozione possa guarirla dalla menomazione che sarebbe stata causata da un forte spavento (altrove la madre aveva scritto a Marianna che la figlia era nata sordomuta), il che non dà alcun risultato. I cinque fratelli le vivono accanto senza troppa confidenza: Signoretto, il più grande, freddo e formale, vuole somigliare al padre, di cui imita i modi e dal quale dovrà ereditare tutte le proprietà; dell’atteggiamento di Agata che è già promessa sposa, e della meno bella Fiammetta che è destinata al convento, nulla si dice; Carlo e Geraldo, tanto simili da sembrare gemelli, entreranno uno in convento, l’altro nell’esercito e il primo è il più garbato dei fratelli verso Marianna.
A tredici anni Marianna, che tenta invano di opporsi, viene sposata allo zio, Pietro Ucrìa di Campo Spagnolo, fratello della madre. Dopo quattro anni di matrimonio, ha già tre figlie (Felice, Giuseppa e Manina), ma il marito aspetta con trepidazione quel figlio maschio che, quando finalmente arriverà, ai diciannove anni della sposa, sarà chiamato Mariano. Marianna si ritira per sua volontà nella villa di Bagheria, da cui non esce quasi mai, passando giornate intere a leggere e a scrivere, nonostante il marito preferisca Palermo e non ami i segni di desiderio di libertà che la moglie-nipote fa emergere; in particolare egli guarda male la passione di lei per la lettura, considerato che i libri diffondono le nuove correnti filosofiche fra cui l’Illuminismo e le teorie di David Hume che intaccano la concezione della superiorità dei nobili e della ragione, che deve dominare ad ogni costo le passioni ed i desideri. Muore la madre e, poco dopo, anche il padre, le cui disposizioni testamentarie suscitano un forte sdegno nei figli maschi perché la maggior parte dei beni viene destinata alle figlie. I fratelli, nel frattempo, hanno seguito le volontà dei genitori e pure non mostrano molta confidenza: Agata sposata e madre di numerosi figli fino allo sfinimento, indifferente ai tradimenti del marito Diego, Fiammetta monaca ma forse con una dedizione inaspettata, Signoretto aspirante alla carica di senatore, Carlo che in convento si dedica alla traduzione della letteratura, Geraldo che, ora ufficiale, muore in un alterco per strada.
Marianna trascorre le sue giornate in compagnia dei libri, ma non è felice essendo comunque moglie di un uomo che ella non ama davvero. Dopo aver sorpreso la serva Fila in intimità con il giovane Saro, che si rivela il fratellino di lei, nuove inquietudini turbano la sua apparente tranquillità: lo stesso ragazzo inizia con lei un gioco di seduzione cui si sente attratta, divertita e impaurita. Intanto Giuseppa ottiene di sposare un ragazzo che ama, ma dal quale è delusa perché ella ama leggere e il marito odia le nuove idee filosofiche quanto il duca Pietro; Felice è mandata dal padre in convento in cui fa la suora con un comportamento non irreprensibile, amando lussi e pettegolezzi; Manina è data in moglie a 12 anni e come la zia Agata trascorre la vita in casa sottomessa al marito. Muore anche il marito Pietro e la donna, durante una passeggiata per la campagna, soccorre Saro che finge una caduta da cavallo per poter ricevere un suo bacio. Successivamente, Marianna si ammala di pleurite e, durante la convalescenza, comincia a interrogarsi sull’inerzia della propria vita che l’ha portata a negarsi a un vero amore. Decide di ammogliare Saro per sentirlo distante, e durante un colloquio con il fratello Carlo, cui chiede di trovare una moglie da dare a Saro, lo interroga sull’origine del proprio mutismo. La reticenza di Carlo le fa affiorare il ricordo di quando, a sei anni, lo zio Pietro l’aveva violentata, e dallo shock era derivata la perdita di udito e parola: per mettere a tacere la cosa (che certamente il padre sapeva, per le donne della famiglia non è chiaro quanto sapessero del fattaccio) la famiglia aveva aspettato il momento buono di combinare un matrimonio riparatore proprio fra la bambina e lo zio orco, che avrebbe anche portato una ricca contraddote ai genitori di Marianna.
Dal matrimonio di Saro con la moglie Peppinedda nasce un figlio, ma Fila, in un impeto di gelosia, cerca di uccidere Peppinedda mentre dorme con Saro e il bambino. Durante l’aggressione Saro viene gravemente ferito e il bambino muore schiacciato dai genitori che cercavano di reagire. Peppinedda lascia la casa e Fila è portata in Vicaria, a Palermo, per essere giustiziata, ma Marianna intercede per lei presso il pretore della città, Don Giacomo Camalèo, per cui la cameriera verrà rinchiusa in manicomio per un certo tempo. Assistendo Saro, che sta lentamente guarendo dalle ferite, fa l’amore con lui e, per la prima volta, si abbandona a un rapporto dolce e coinvolgente. Tuttavia, al ritorno della moglie di Saro, ormai anche lei guarita, Marianna decide di troncare la relazione. Parte per Napoli, recando con sé Fila che è riuscita a fare uscire dal manicomio.
I familiari cominciano a rimproverarle i presunti “scandali” che la vedono coinvolta: per esempio, quello di vedersi spesso con Camalèo, uomo ricco e influente ma, per loro, di dubbia reputazione in quanto un tempo in relazioni con i francesi (la famiglia di Marianna invece è filo-spagnola), che peraltro le fa la corte anche se Marianna lo considera solo un amico. Le rimproverano inoltre di avere smesso il lutto soltanto un anno dopo la morte del marito e, soprattutto, di circondarsi di persone non del suo ceto, Fila e Saro. Frattanto il rapporto di Giuseppa con il marito peggiora e la ragazza lo tradisce con Olivo il figlio di Signoretto, Saro e Mariano fanno una vita da signori, Felice si atteggia a monaca più devota interessandosi alla medicina e riscuotendo successo, Manina continua a fare la moglie. Nel viaggio verso Napoli, il brigantino su cui le due donne sono imbarcate fa naufragio. Da Napoli esse si dirigeranno a Roma. Fila, infine, grazie anche alla dote procuratale da Marianna, sposa il padrone di una locanda e insieme alla duchessa rimane ancora a Roma.