Paradisi Artificiali

Baudelaire descrive in questa originalissima opera gli effetti sul pensiero e sulla percezione delle droghe. Antologizziamo i brani riguardanti l’oppio.

L’oppio ingrandisce le cose che già non hanno limite, allunga l’infinito, approfondisce il tempo, scava nella voluttà e riempie l’anima al di là delle sue capacità di neri e cupi piaceri.
Ma tutto ciò non vale il veleno che sgorga dai tuoi occhi, dai tuoi occhi verdi, laghi in cui la mia anima trema specchiandovisi rovesciata… I miei sogni accorrono a dissetarsi a quegli amari abissi.
Tutto questo non vale il terribile prodigio della tua saliva che morde, che sprofonda nell’oblìo la mia anima senza rimorso, e trasportando la vertigine, la rotola estinta alle rive della morte!

[…]
Esasperato al pari d’un ubbriaco che vede doppio, rientrai a casa, serrai la porta, pieno di spavento, malato, infreddolito, l’anima febbrile e turbata, ferito dal mistero e dall’assurdo. Invano la mia mente voleva riprendere il timone; la tempesta, mulinando, rendeva inutili i suoi sforzi e la mia anima, vecchia barca senza alberi, ballava e ballava su un mare mostruoso e illimitato.

Charles Baudelaire

Il Giocatore

L’anziana Antonida Vasil’evna, in compagnia del protagonista del romanzo, Aleksej Ivànovic, si dedica con fervore al gioco d’azzardo. Dostoevskij descrive in queste pagine memorabili la lenta, progressiva ed inarrestabile metamorfosi dalla curiosità alla ludopatia dell’anziana signora.

La nonna si gettò senz’altro sullo zéro e subito mi ordinò di puntare dodici federici per volta. Puntammo una volta, una seconda, una terza, lo zéro non usciva. «Punta, punta!» mi urtava la nonna impaziente. Io obbedivo.
«Quante volte abbiamo perduto?» ella domandò infine digrignando i denti dall’impazienza.
«Abbiamo già puntato dodici volte, nonna. Abbiamo perduto centoquarantaquattro federici. Ve lo dico, nonna, fino a stasera magari…»
«Taci!» interruppe la nonna. «Punta sullo zéro e punta subito sul rosso mille fiorini. To’, ecco un biglietto.»
Uscì il rosso e lo zéro fece nuovamente cilecca, ci restituirono mille fiorini.
«Vedi, vedi!» sussurrava la nonna «ci han restituito quasi tutto quel che avevamo perduto. Punta di nuovo sullo zéro; punteremo ancora una decina di volte, poi smetteremo.»
Ma alla quinta volta la nonna fu stufa.
«Manda al diavolo questo ignobile zeruccio. To’, punta quattromila fiorini, tutti sul rosso» ordinò.
«Nonna! È molto; e se il rosso non uscisse!» supplicavo; ma la nonna per poco non mi batté. (E del resto tanto mi urtava che quasi si può dire mi picchiasse.) Non c’era che fare, puntai sul rosso tutti i quattromila fiorini vinti poc’anzi. La ruota si mise a girare. La nonna, raddrizzata la persona, stava a sedere calma e orgogliosa, non dubitando della immancabile vincita.
«Zéro» annunciò il croupier.
Sulle prime la nonna non capì, ma quando vide il croupier rastrellare i suoi quattromila fiorini, insieme con tutto quel che c’era sul tavolo, e seppe che lo zéro, che da tanto tempo non usciva e sul quale avevamo perduto quasi duecento federici era balzato fuori, come a farlo apposta, quando la nonna lo aveva appena ingiuriato e abbandonato, mandò un «ah!» e batté insieme le mani da farsi udire in tutta la sala. In giro si rise perfino.«Padri miei! Proprio adesso è saltato fuori il maledetto!» urlava la nonna «ve’, che dannato, che dannato! La colpa è tua! Tutta la colpa è tua!» si scagliò furiosamente contro di me dandomi spintoni. «Sei stato tu a dissuadermi.»
«Nonna, io vi ho detto cose giuste, come posso io rispondere di tutte le probabilità?»

Te le darò io le probabilità!» sussurrava lei minacciosa «vattene, lontano da me.»
«Addio, nonna» e mi voltai per andar via.
«Aleksej Ivanovič, Aleksej Ivanovič, rimani! Dove vai? Be’, perché, perché? Ve’, si è arrabbiato! Scemo! Via, rimani, rimani ancora, via, non adirarti, sono io stessa una scema! Su, dimmi, su, che fare adesso?»
«Io, nonna, non mi prendo la briga di suggerirvi, perché poi incolpereste me. Giocate da voi sola; ordinate, io punterò.»
«Via, via! Su, punta ancora quattromila fiorini sul rosso! Ecco il portafogli, prendi.» Cavò di tasca il portafogli e me lo porse. «Su, prendili in fretta, qui ci sono ventimila rubli in contanti.»
«Nonna» balbettai «tali puntate…»
«Voglio piuttosto morire, ma mi rifarò. Metti!» Puntammo e perdemmo.

Fëdor Dostoevskij

Fonte: Fëdor Dostoevskij, Il Giocatore, traduzione di Alfredo Polledro, Mondadori, 2016

Quando la malattia mentale diventa letteratura

È quanto avviene nelle opere di Venedikt Erofeev, scrittore russo dedito all’alcol e al vagabondaggio, autore tra l’altro, del diario ‘Memorie di uno psicopatico’. Scritto nel 1956, il volume offre un inedito ritratto della Russia del tempo, raccontata con uno stile dall’andamento bipolare

Venedikt Erofeev (1938-1990) è stato uno scrittore-simbolo per intere generazioni, oltre che un autore tra i più controversi del post-modernismo russo. La sua vita al limite tra dipendenza da alcool e vagabondaggio ha fortemente contribuito sia alla sua immagine di reietto, sia alla crudezza della sua scrittura, che trova la massima espressione nel suo bestseller clandestino ‘Mosca-Petuska’. Un’opera grottesca, visionaria, tragicomica, che parte da Mosca per un viaggio forse mai compiuto.

‘Memorie di uno psicopatico’, scritta nel 1956 e ora riproposta da Miraggi, è una rarità. Si tratta infatti del primo libro di Erofeev, caratterizzato da un insieme di memorie scritte su pagine di un diario di cui non si conosceva l’esistenza. Pubblicato in Russia solo nel 2000, il libro è una costellazione di riferimenti e contestazioni furiose sui totem e i tabù della società sovietica. Protagonista di questi racconti è Venedikt, alter-ego dell’autore che, ancora giovanissimo, esprime la sua disperata ribellione verso il mondo.

Il libro mostra la psichedelica visione del mondo dell’autore: questi diari giovanili seguono il giovane Venedikt nel periodo che va dall’ottobre 1956 al novembre 1957. Tredici mesi cruciali, dall’ammissione con lode all’Università di Mosca alla successiva espulsione, dal primo impiego al successivo licenziamento. Il racconto delle esperienze autobiografiche si accavalla e si interseca con riflessioni di carattere filosofico, pseudoscientifico, spesso assurdo. Ciò che colpisce immediatamente è l’andamento bipolare della scrittura tra rabbia incontrollabile a paura, tra odio e bisogno di affetto; lo spazio e il tempo non hanno confini e la metrica del linguaggio di Venedikt richiama le figure cinematografiche dello sterminatore di scarafaggi William Lee nel film ‘Pasto nudo’ (David Cronenberg, 1991) o di Michael Anderson, il nano immaginario del telefilm ‘I segreti di Twin Peaks’ (David Lynch, 1991).

La violenza narrativa con cui Venedikt fa sentire la sua psicopatologia ci ricorda che ancora oggi, a oltre 60 anni dall’uscita di questo libro, esistono milioni di persone che come lui vagano perse per il mondo alle quali nessuno sa indicare loro la via del ritorno a casa. Anche se negli ultimi 40 anni, la scienza della malattia mentale è diventata capace di fornire diagnosi sempre più accurate.

Antonio Cerasa

Venedikt Erofeev, “Memorie di uno psicopatico” (Miraggi, 2017)

erofeev scheda

Almanacco della Scienza CNR

L’illusione della droga ‘sociale’


Una testimonianza lucida e un viaggio all’interno del mondo delle droghe “leggere”, con l’invito ad aprire gli occhi e a guardare il dramma che è presente, soprattutto tra i giovani.

Circa quattro milioni di italiani nell’ultimo anno hanno fatto uso di droghe ‘leggere’.  E’ uno dei dati dai quali parte l’analisi di ‘Degenerazioni. Droga, padri e figli nell’Italia di oggi’ (Rubbettino). Il giornalista e saggista Alessandro Barbano vi ha raccolto dati ed esperienze che confermano come abuso e dipendenza siano solo la cartina di tornasole di una società in cui si è rotto il ruolo generazionale, nella quale le istituzioni formative (scuola, famiglia) hanno abdicato al loro ruolo.

Non si tratta dunque semplicemente di un libro sulla tossicodipendenza, ma di un saggio documentato e – insieme – una testimonianza appassionata sulla “crisi dei valori che ad essa si connette”. Bisogna guardare alla realtà del dramma e non ai fumi delle utopie, spiega l’autore, chiedendo: ‘Che peso ha oggi la categoria dei doveri nell’etica, nell’impegno politico e sociale, nell’educazione?’.

Il libro punta prima l’indice di tutto sui genitori, gli insegnanti, gli adulti. ‘La droga spesso diventa un segreto di famiglia, condiviso tra le generazioni con un silenzio complice’, spiega l’autore, come ‘un male oscuro che dalla famiglia si proietta sulla scuola e in tutti i presidi formativi. Il processo di disintegrazione della morale pubblica è così compiuto’. E la scuola, grande assente sulla droga, è la stessa ‘scuola che non vede il disagio, bullismo o droga, che arretra di fronte al disagio, che lo rimuove. Che ha totalmente chiuso gli occhi e ignora la devastazione, per debolezza e incompetenza. In parte perché i suoi insegnanti sono gli stessi padri cresciuti nel mito della trasgressione. E per difendersi da un accerchiamento capillare di cui ha percepito il pericolo’.

Barbano parla di ‘schiavitù inconsapevole’, per definire una situazione di arrendevolezza ‘in cui il massimo di libertà coincide con il minimo di libertà, la potenza coincide con la debolezza, l’autonomia coincide con la dipendenza, l’intelligenza con la cecità’. Una schiavitù di cui la diffusione della cocaina, con il suo ‘brodo di coltura’ alimentato ‘dagli esempi di modelle e testimonial dalla narice larga, nella cui vita la coca ha un alone di fascino’, è la principale evidenza. ‘Ma su quest’evidenza la società ha chiuso gli occhi’, avverte Barbano, facendoci tornare persino indietro rispetto agli anni ’70 e ’80 dell’eroina e del suo inferno di solitudine e di esclusione. Già, perché la nuova droga garantisce una illusoria, pericolosa ‘socialità fittizia’.

Marco Ferrazzoli

Alessandro Barbano, “Degenerazioni. Droga, padri e figli nell’Italia di oggi” (Rubbettino, 2008)

https://www.store.rubbettinoeditore.it/autore/alessandro-barbano/