Un bestseller americano di Jodi Picoult racconta una storia fiction che forse non si discosta tanto dalla nostra realtà degli anni della pandemia
La vita di Diana O’Toole scorre su binari sicuri: si sposerà entro i trent’anni, avrà figli entro i trentacinque e dalla caotica New York si trasferirà in una tranquilla villetta nei sobborghi, il tutto facendo carriera nello spietato mondo delle aste d’arte. È sicura che il suo fidanzato Finn, specializzando in Chirurgia, le farà la proposta di matrimonio durante la fuga romantica alle Galápagos che hanno organizzato, pochi giorni prima del suo trentesimo compleanno. Giusto in tempo. Ma un virus che sembrava lontanissimo compare all’improvviso in città e, alla vigilia della partenza, Finn le dà una brutta notizia: non può assentarsi dall’ospedale. Così, a malincuore, Diana decide di partire senza di lui: chi rinuncerebbe alla prospettiva di una spiaggia assolata su un’isola esotica? Ben presto, però, si ritrova in completa solitudine in un luogo remoto, e quella che doveva essere una vacanza da sogno si trasforma in un incubo. Ma a volte c’è bisogno che vada tutto storto perché alla fine tutto si risolva nel migliore dei modi… Dall’autrice bestseller Jodi Picoult un nuovo, appassionante romanzo che ha dominato le classifiche di vendita americane. Presto un film Netflix, Vorrei che fossi qui ci fa riflettere su quanto le nostre priorità possano cambiare e su come anche le certezze più salde possano essere stravolte.
I testi imprescindibili della letteratura che ruotano intorno al tema della malattia. Da recuperare durante questo periodo di “clausura”
Nel saggio, che ha avuto circolazione autonoma e ha subito diverse revisioni nel passaggio da un’edizione all’altra (le piu importanti: la prima del 1926 e quella definitiva del 1930), Virginia Woolf lamenta che la letteratura non abbia rivolto alla malattia fisica altrettanta attenzione che alle attività della mente. «A impedire la descrizione della malattia in letteratura ci si mette anche la povertà del linguaggio. L’inglese, che può esprimere i pensieri di Amleto e la tragedia di re Lear non ha parole per i brividi e il mal di testa».
Jane Eyre assiste alla morte dell’amica Helen a causa della tubercolosi: nel brano che antologizziamo assistiamo alla scena culminante.
«Dunque, Helen, sei sicura che esiste il cielo e che le nostre anime potranno raggiungerlo quando moriremo?». «Sono sicura che vi è un futuro; credo che Dio sia buono; posso affidare a Lui la parte immortale di me stessa senza alcuna apprensione. Dio è il mio padre; Dio è il mio amico: io Lo amo e credo che Egli ami me». «E ti rivedrò, Helen, dopo la morte?». «Verrai nello stesso mondo di felicità: sarai ricevuta da quello stesso padre potente e universale, non aver dubbi, cara Jane». Feci ancora domande, ma solo entro di me. «Dov’è questo mondo? Esiste?». E strinsi più forte le braccia attorno a Helen; mi sembrava più cara che mai, avevo l’impressione di non potere lasciarla partire. Giacevo col volto nascosto nel cavo della sua spalla; adesso lei mi diceva in tono dolcissimo: «Come mi sento bene! Quest’ultimo accesso di tosse mi ha un po’ stancata; credo di poter dormire; ma non lasciarmi, Jane; mi piace sentirti vicina». «Starò con te, cara Helen: nessuno mi porterà via». «Sei al caldo?». «Sì». «Buona notte, Jane». «Buona notte, Helen». Mi baciò, la baciai e ci addormentammo insieme. Quando mi svegliai era giorno: mi aveva destato un movimento insolito; guardai; ero nelle braccia di qualcuno; l’infermiera mi sosteneva riportandomi lungo il corridoio verso il dormitorio. Non fui sgridata per aver lasciato il mio letto; avevano altro da pensare; non mi diedero allora alcuna spiegazione a tutte le domande che feci; ma un paio di giorni dopo seppi che la signorina Temple, tornando nella sua stanza verso l’alba, mi aveva trovata nel lettino, il volto contro la spalla di Helen Burns, le braccia strette al suo collo. Io ero addormentata e Helen era… morta. La sua tomba è nel cimitero di Brocklebridge: per quindici anni dopo la sua morte rimase coperta solo da un piccolo tumulo erboso; ma adesso una lapide di marmo grigio segna quel luogo con inciso il suo nome e la parola «Resurgam».
Paradossalmente, quello antologizzato è uno dei pochi brani dedicati ai danni del tabacco nel monologo di Cechov. Nel resto dell’opera, infatti, il protagonista Njuchin parlerà del rapporto poco sano con la propria moglie.
Come argomento della mia conferenza odierna ho scelto, per così dire, il danno che reca all’umanità l’uso del tabacco. Sono fumatore anch’io, ma mia moglie mi ha ordinato di parlare oggi della nefasta influenza del tabacco, e quindi la cosa non si discute. Del tabacco, e tabacco sia, per me è del tutto indifferente; a loro, gentili signori, propongo di rapportarsi alla mia presente conferenza con la dovuta serietà, altrimenti non se ne caverà nulla. Chi fosse spaventato da un’arida conferenza scientifica, chi non l’apprezzasse, può non ascoltarla e uscire. (Si aggiusta il gilet).Chiedo particolare attenzione ai signori medici qui presenti, che potranno trarre dalla mia conferenza molte indicazioni utili, visto che il tabacco, oltre alle sue nefaste influenze, viene usato anche in medicina. Per esempio, se si chiudesse una mosca in una tabacchiera, probabilmente creperebbe di esaurimento nervoso. Il tabacco è, essenzialmente, una pianta… Quando tengo una conferenza, di solito ammicco con l’occhio destro, ma loro non facciano caso; è l’emozione. Sono una persona molto nervosa, parlando in generale, ma ad ammiccare ho cominciato nel 1889, il 13 settembre, lo stesso giorno in cui a mia moglie nacque, in un certo senso, la nostra quarta figlia Varvara. Tutte le mie figlie sono nate il 13 del mese.
L’anziana Antonida Vasil’evna, in compagnia del protagonista del romanzo, Aleksej Ivànovic, si dedica con fervore al gioco d’azzardo. Dostoevskij descrive in queste pagine memorabili la lenta, progressiva ed inarrestabile metamorfosi dalla curiosità alla ludopatia dell’anziana signora.
La nonna si gettò senz’altro sullo zéro e subito mi ordinò di puntare dodici federici per volta. Puntammo una volta, una seconda, una terza, lo zéro non usciva. «Punta, punta!» mi urtava la nonna impaziente. Io obbedivo. «Quante volte abbiamo perduto?» ella domandò infine digrignando i denti dall’impazienza. «Abbiamo già puntato dodici volte, nonna. Abbiamo perduto centoquarantaquattro federici. Ve lo dico, nonna, fino a stasera magari…» «Taci!» interruppe la nonna. «Punta sullo zéro e punta subito sul rosso mille fiorini. To’, ecco un biglietto.» Uscì il rosso e lo zéro fece nuovamente cilecca, ci restituirono mille fiorini. «Vedi, vedi!» sussurrava la nonna «ci han restituito quasi tutto quel che avevamo perduto. Punta di nuovo sullo zéro; punteremo ancora una decina di volte, poi smetteremo.» Ma alla quinta volta la nonna fu stufa. «Manda al diavolo questo ignobile zeruccio. To’, punta quattromila fiorini, tutti sul rosso» ordinò. «Nonna! È molto; e se il rosso non uscisse!» supplicavo; ma la nonna per poco non mi batté. (E del resto tanto mi urtava che quasi si può dire mi picchiasse.) Non c’era che fare, puntai sul rosso tutti i quattromila fiorini vinti poc’anzi. La ruota si mise a girare. La nonna, raddrizzata la persona, stava a sedere calma e orgogliosa, non dubitando della immancabile vincita. «Zéro» annunciò il croupier. Sulle prime la nonna non capì, ma quando vide il croupier rastrellare i suoi quattromila fiorini, insieme con tutto quel che c’era sul tavolo, e seppe che lo zéro, che da tanto tempo non usciva e sul quale avevamo perduto quasi duecento federici era balzato fuori, come a farlo apposta, quando la nonna lo aveva appena ingiuriato e abbandonato, mandò un «ah!» e batté insieme le mani da farsi udire in tutta la sala. In giro si rise perfino.«Padri miei! Proprio adesso è saltato fuori il maledetto!» urlava la nonna «ve’, che dannato, che dannato! La colpa è tua! Tutta la colpa è tua!» si scagliò furiosamente contro di me dandomi spintoni. «Sei stato tu a dissuadermi.» «Nonna, io vi ho detto cose giuste, come posso io rispondere di tutte le probabilità?»
Te le darò io le probabilità!» sussurrava lei minacciosa «vattene, lontano da me.» «Addio, nonna» e mi voltai per andar via. «Aleksej Ivanovič, Aleksej Ivanovič, rimani! Dove vai? Be’, perché, perché? Ve’, si è arrabbiato! Scemo! Via, rimani, rimani ancora, via, non adirarti, sono io stessa una scema! Su, dimmi, su, che fare adesso?» «Io, nonna, non mi prendo la briga di suggerirvi, perché poi incolpereste me. Giocate da voi sola; ordinate, io punterò.» «Via, via! Su, punta ancora quattromila fiorini sul rosso! Ecco il portafogli, prendi.» Cavò di tasca il portafogli e me lo porse. «Su, prendili in fretta, qui ci sono ventimila rubli in contanti.» «Nonna» balbettai «tali puntate…» «Voglio piuttosto morire, ma mi rifarò. Metti!» Puntammo e perdemmo.
Fëdor Dostoevskij
Fonte: Fëdor Dostoevskij, Il Giocatore, traduzione di Alfredo Polledro, Mondadori, 2016
Madame Bovaryin questo brano ha deciso di darsi la morte con l’arsenico, emulando le grandi eroine del mondo della finzione letteraria d’amore del quale lei è rimasta vittima e prigioniera. La realtà è tuttavia ben diversa dai romanzi d’amore: l’arsenico le procurerà dei dolori inimmaginabili.
Un sapore acre in bocca la svegliò. Intravide Charles e richiuse gli occhi.
Spiava le proprie sensazioni per rendersi conto se cominciasse a star male. Ma no, non ancora. Sentiva il ticchettio della pendola, il rumore del fuoco e Charles, in piedi al suo capezzale, che respirava.
“Ah! È una cosa ben da poco la morte” pensava. “Dormirò e tutto sarà finito!”
Bevve un sorso d’acqua, e si voltò verso il muro. Quell’orribile sapore di inchiostro continuava.
«Ho sete!… Oh! Ho una sete terribile!» sospirò.
«Ma che cos’hai, insomma?» disse Charles, porgendole un bicchiere d’acqua.
«Non è nulla!… Apri la finestra… Soffoco!»
E fu afferrata dalla nausea così d’improvviso che ebbe appena il tempo di prendere il fazzoletto sotto il cuscino.
«Portalo via!» disse con vivacità «Buttalo!»
Charles le fece domande alle quali Emma non rispose. Rimaneva immobile, temendo che la più piccola emozione la facesse vomitare. Sentiva però un freddo di gelo salirle dai piedi fino al cuore.
«Ah! Ecco che comincia!» mormorò.
«Che dici?»
Voltò la testa con un movimento lento, pieno di angoscia, aprendo e chiudendo di continuo la bocca come se avesse avuto sulla lingua qualcosa di molto pesante. Alle otto, i conati di vomito ricominciarono.
Charles osservò sul fondo della bacinella qualcosa di simile a granelli bianchi attaccati alle pareti di porcellana.
«È straordinario! È una cosa stranissima!» ripeteva.
Ma Emma disse ad alta voce:
«No, ti sbagli!»
Allora, delicatamente, quasi la carezzasse, Charles le passò una mano sullo stomaco. Emma gettò un grido acuto. Charles si tirò indietro spaventato.
Poi la signora Bovary si mise a gemere, dapprima debolmente. Grandi brividi le scotevano le spalle e diventava più pallida del lenzuolo nel quale affondava le dita contratte. Il polso, aritmico, era quasi impercettibile, adesso.
Gocce di sudore gemevano dal viso cianotico che sembrava quasi irrigidito nell’esalazione di un vapore metallico. I denti battevano, gli occhi dilatati guardavano vagamente tutto intorno e a ogni domanda Emma rispondeva scotendo il capo; sorrise addirittura una o due volte. A poco a poco i gemiti si fecero più forti. Un urlo soffocato e continuo le sfuggiva; voleva far credere di stare meglio e che ben presto si sarebbe alzata ma le presero le convulsioni, gridava:
Il romanzo storico di Dacia Maraini è stato pubblicato nel 1990; nello stesso anno, l’opera vinse il Premio Campiello. “Marianna Ucrìa” è invece il titolo del film del 1997, diretto da Roberto Faenza, tratto dal romanzo. Assieme alla scheda del libro, vi proponiamo alcuni contributi utili ad approfondirne la genesi e la trama
Protagonista è Marianna, la figlia sordomuta di una grande famiglia palermitana della prima metà del Settecento. Marianna comunica per mezzo di bigliettini con il mondo ed in parte è guidata dagli altri sensi, che ha sviluppato notevolmente; fra lei e il padre, il duca Signoretto Ucrìa di Fontanasalsa, sembra esserci una tenera complicità, mentre con la madre il rapporto è improntato a una reciproca diffidenza.
All’età di sette anni, la bambina è portata dal padre ad assistere all’esecuzione di un condannato a morte, nella speranza che una forte emozione possa guarirla dalla menomazione che sarebbe stata causata da un forte spavento (altrove la madre aveva scritto a Marianna che la figlia era nata sordomuta), il che non dà alcun risultato. I cinque fratelli le vivono accanto senza troppa confidenza: Signoretto, il più grande, freddo e formale, vuole somigliare al padre, di cui imita i modi e dal quale dovrà ereditare tutte le proprietà; dell’atteggiamento di Agata che è già promessa sposa, e della meno bella Fiammetta che è destinata al convento, nulla si dice; Carlo e Geraldo, tanto simili da sembrare gemelli, entreranno uno in convento, l’altro nell’esercito e il primo è il più garbato dei fratelli verso Marianna.
A tredici anni Marianna, che tenta invano di opporsi, viene sposata allo zio, Pietro Ucrìa di Campo Spagnolo, fratello della madre. Dopo quattro anni di matrimonio, ha già tre figlie (Felice, Giuseppa e Manina), ma il marito aspetta con trepidazione quel figlio maschio che, quando finalmente arriverà, ai diciannove anni della sposa, sarà chiamato Mariano. Marianna si ritira per sua volontà nella villa di Bagheria, da cui non esce quasi mai, passando giornate intere a leggere e a scrivere, nonostante il marito preferisca Palermo e non ami i segni di desiderio di libertà che la moglie-nipote fa emergere; in particolare egli guarda male la passione di lei per la lettura, considerato che i libri diffondono le nuove correnti filosofiche fra cui l’Illuminismo e le teorie di David Hume che intaccano la concezione della superiorità dei nobili e della ragione, che deve dominare ad ogni costo le passioni ed i desideri. Muore la madre e, poco dopo, anche il padre, le cui disposizioni testamentarie suscitano un forte sdegno nei figli maschi perché la maggior parte dei beni viene destinata alle figlie. I fratelli, nel frattempo, hanno seguito le volontà dei genitori e pure non mostrano molta confidenza: Agata sposata e madre di numerosi figli fino allo sfinimento, indifferente ai tradimenti del marito Diego, Fiammetta monaca ma forse con una dedizione inaspettata, Signoretto aspirante alla carica di senatore, Carlo che in convento si dedica alla traduzione della letteratura, Geraldo che, ora ufficiale, muore in un alterco per strada.
Marianna trascorre le sue giornate in compagnia dei libri, ma non è felice essendo comunque moglie di un uomo che ella non ama davvero. Dopo aver sorpreso la serva Fila in intimità con il giovane Saro, che si rivela il fratellino di lei, nuove inquietudini turbano la sua apparente tranquillità: lo stesso ragazzo inizia con lei un gioco di seduzione cui si sente attratta, divertita e impaurita. Intanto Giuseppa ottiene di sposare un ragazzo che ama, ma dal quale è delusa perché ella ama leggere e il marito odia le nuove idee filosofiche quanto il duca Pietro; Felice è mandata dal padre in convento in cui fa la suora con un comportamento non irreprensibile, amando lussi e pettegolezzi; Manina è data in moglie a 12 anni e come la zia Agata trascorre la vita in casa sottomessa al marito. Muore anche il marito Pietro e la donna, durante una passeggiata per la campagna, soccorre Saro che finge una caduta da cavallo per poter ricevere un suo bacio. Successivamente, Marianna si ammala di pleurite e, durante la convalescenza, comincia a interrogarsi sull’inerzia della propria vita che l’ha portata a negarsi a un vero amore. Decide di ammogliare Saro per sentirlo distante, e durante un colloquio con il fratello Carlo, cui chiede di trovare una moglie da dare a Saro, lo interroga sull’origine del proprio mutismo. La reticenza di Carlo le fa affiorare il ricordo di quando, a sei anni, lo zio Pietro l’aveva violentata, e dallo shock era derivata la perdita di udito e parola: per mettere a tacere la cosa (che certamente il padre sapeva, per le donne della famiglia non è chiaro quanto sapessero del fattaccio) la famiglia aveva aspettato il momento buono di combinare un matrimonio riparatore proprio fra la bambina e lo zio orco, che avrebbe anche portato una ricca contraddote ai genitori di Marianna.
Dal matrimonio di Saro con la moglie Peppinedda nasce un figlio, ma Fila, in un impeto di gelosia, cerca di uccidere Peppinedda mentre dorme con Saro e il bambino. Durante l’aggressione Saro viene gravemente ferito e il bambino muore schiacciato dai genitori che cercavano di reagire. Peppinedda lascia la casa e Fila è portata in Vicaria, a Palermo, per essere giustiziata, ma Marianna intercede per lei presso il pretore della città, Don Giacomo Camalèo, per cui la cameriera verrà rinchiusa in manicomio per un certo tempo. Assistendo Saro, che sta lentamente guarendo dalle ferite, fa l’amore con lui e, per la prima volta, si abbandona a un rapporto dolce e coinvolgente. Tuttavia, al ritorno della moglie di Saro, ormai anche lei guarita, Marianna decide di troncare la relazione. Parte per Napoli, recando con sé Fila che è riuscita a fare uscire dal manicomio.
I familiari cominciano a rimproverarle i presunti “scandali” che la vedono coinvolta: per esempio, quello di vedersi spesso con Camalèo, uomo ricco e influente ma, per loro, di dubbia reputazione in quanto un tempo in relazioni con i francesi (la famiglia di Marianna invece è filo-spagnola), che peraltro le fa la corte anche se Marianna lo considera solo un amico. Le rimproverano inoltre di avere smesso il lutto soltanto un anno dopo la morte del marito e, soprattutto, di circondarsi di persone non del suo ceto, Fila e Saro. Frattanto il rapporto di Giuseppa con il marito peggiora e la ragazza lo tradisce con Olivo il figlio di Signoretto, Saro e Mariano fanno una vita da signori, Felice si atteggia a monaca più devota interessandosi alla medicina e riscuotendo successo, Manina continua a fare la moglie. Nel viaggio verso Napoli, il brigantino su cui le due donne sono imbarcate fa naufragio. Da Napoli esse si dirigeranno a Roma. Fila, infine, grazie anche alla dote procuratale da Marianna, sposa il padrone di una locanda e insieme alla duchessa rimane ancora a Roma.
“Gomitoli di memoria” è un viaggio “fra realtà e fantasie” che Maria Paola Graziani, alias Airamp Lever, sceglie per la sua protagonista. In queste pagine, soprattutto in quelle dedicate a bulimia ed anoressia, si coglie direttamente l’esperienza professionale dell’autrice, psicologa e già ricercatrice dell’Istituto di scienza dell’alimentazione del Cnr
“Quando si ritrova il bandolo e lo si riesce a districare dagli ingarbugliati nodi, la vita si presenta come una vera avventura al pari di una sceneggiatura piena di colpi di scena, di colori e di ombre che, pur fra realtà e fantasie, appare comprensibile”. Questo è il viaggio “fra realtà e fantasie” che Maria Paola Graziani, alias Airamp Lever, sceglie per la protagonista dei suoi ‘Gomitoli di memoria’. Il racconto è un intreccio tra la storia personale di Lei e i luoghi fisici custodi della sua memoria su cui, tra tutti, spicca una Roma lontana, piegata sia fisicamente che moralmente dalla guerra. La ricostruzione storica e la riflessione scientifica sono le due sponde che accompagnano questo viaggio nella memoria. Un cammino lungo dieci momenti dell’esistenza senza un apparente rapporto di consequenzialità, in cui trovano spazio l’incontro prematuro con la morte, l’amore, la solitudine, la lotta, le madri di gioia e gli amici dell’infanzia. Tutto, dai luoghi agli oggetti, perfino gli odori, ha un ordine interno, quasi a scandire il tempo delle scelte, delle nuove curiosità, della vita. Così la riflessione si avvicenda alla narrazione ed è con Jo, amico d’infanzia e interlocutore muto che la accompagna nelle sue elaborazioni più intime, che Lei riflette sul significato di simboli e modelli culturali, dal dopoguerra fino alla ‘società liquida’. E, ancora, la magia dell’incontro con lo Zahir che, “impadronitosi dell’altro, detta le regole del gioco e l’importanza delle ricompense e delle delusioni, il limite e la barriera”; la sua “memoria intellettuale”, il dolore della separazione e, infine, il tempo dell’accettazione. Pensieri che generano nuovi pensieri e nuove domande, in un salto continuo dal passato al presente. Il dolore è sullo sfondo, come “il grande tema che gira intorno al nostro universo”. Il dolore del distacco dai propri cari e la sofferenza per “le domande senza risposta” che restano, ma che non impedisce di risalire verso una ritrovata consapevolezza di sé fino alla rinnovata capacità di progettare il domani. Ed è in queste pagine, come in quelle dedicate a bulimia ed anoressia, che più direttamente si coglie l’esperienza professionale dell’autrice, psicologa e già ricercatrice dell’Istituto di scienza dell’alimentazione del Cnr. Voltarsi indietro per comprendere e non per abbandonarsi al dolore o alla gioia di momenti ormai andati. Voltarsi e riconoscersi negli eventi passati, perché “noi siamo i nostri ricordi” e “… narrare forse, resta uno dei pochi percorsi che allentano il dolore e danno suono ai silenzi della memoria”.
Monica Di Fiore
Airamp Lever, “Gomitoli di memoria”, Nuova Cultura (2014)
La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in “Sarà bella la vita”. A scriverlo è Monica Mondo, una giornalista che definisce il libro un “romanzo”, anche se vi racconta in prima persona la propria esperienza di rifiuto del cibo, con le sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare
La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in un libro breve, ‘Sarà bella la vita’ di Monica Mondo, che l’autrice e l’editore Marietti 1820 definisce come “romanzo” ma che sarebbe invece più appropriato chiamare ‘testimonianza’. A scriverlo è infatti una giornalista che racconta in prima persona il rifiuto del cibo, dalle sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali forse trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare, fino alla completa uscita dal tunnel grazie, di nuovo, a un concerto di stimoli positivi. La cornice è rappresentata da una serie di citazioni, letterarie e musicali, che attestano la provenienza dell’autrice da una famiglia in cui libri e giornali costituivano un oggetto di lavoro quotidiano e che rappresentano gli spunti per inquadrare ricordi di persone e fatti. Si inanella così una trama esile ma estremamente intensa e significativa, soprattutto la generazione che ha vissuto, o almeno visto, in prima persona gli anni plumbei dell’odio ideologico. Essere scampata al terrorismo, come pure alla droga, avere trovato accoglienza da parte di un prete sensibile, avere provato l’inevitabile sentimento di amore-odio per i terapeuti sono solo alcuni dei passaggi attraverso i quali Mondo riesce a vincere l’anoressia. Oggi, adulta e madre nonostante le pessimistiche previsioni di sterilità dei medici, può guardare a quei ricordi di bambina e ragazza con una maturità tranquilla che le consente di trasformarli in racconto.
Marco Ferrazzoli
Monica Mondo, “Sarà bella la vita”, Editore Marietti-1820 (2012)
I Disturbi del comportamento alimentare (Dca) come anoressia e bulimia nervosa colpiscono, secondo dati Aidap (Associazione italiana disturbi dell’alimentazione edel peso), dai due ai tre milioni di italiani, di cui il 90% donne. « Il tema è presente anche in letteratura. Nel romanzo “Il cavaliere inesistente” di Italo Calvino, Agilulfo, il valoroso combattente del re Carlomagno, è infatti senza corpo », spiega Franco Bonaguidi dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa. « Quando un giorno il re passa in rassegna le truppe, Agilulfo tiene con la visiera dell’elmo abbassata senza mostrare il volto al re, spiegando: ‘Perché non esisto’. Agilulfo vive il suo corpo come inesistente mentre il suo spirito abita nell’imperatore. Questa scissione aiuta a comprendere quello che può accadere nell’adolescenza quando il disagio sfocia in una situazione patologica »
C’è chi controlla in modo ossessivo il proprio peso, sminuzzando il cibo in pezzi sempre più piccoli e rifiutando alimenti ipercalorici. E chi, invece, si abbandona ad abbuffate ‘compulsive’, solitamente in solitudine e di nascosto, ricorrendo poi a vomito autoindotto, uso di lassativi o diuretici, per non accumulare chili in più. Entrambi gli atteggiamenti sono annoverati tra i Disturbi del comportamento alimentare (Dca) come anoressia e bulimia nervosa. Queste patologie psichiatriche complesse colpiscono, secondo dati Aidap (Associazione italiana disturbi dell’alimentazione edel peso). dai due ai tre milioni di italiani, di cui il 90% donne, anche se negli ultimi anni sono sempre più frequenti i casi di maschi anoressici, sia adolescenti sia di mezz’età.
“La comparsa dei Disturbi del comportamento alimentare è legata a un distorto rapporto con il cibo e il proprio corpo: per il quale il pasto diventa un campo di battaglia tra desideri e conflitti e tra sensazioni contrastanti”, spiega Franco Bonaguidi dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa, che continua a fornire cifre fornite dall’Aidap. “Ad ammalarsi sono soprattutto giovani (il 5% sono donne tra i 13 e i 35 anni), bambini (il 21% delle femmine, il 15% dei maschi tra gli 11 e i 17 anni) e adulti (il 20% con più di 35 anni). E, cosa ancor più drammatica, un adolescente su dieci non ce la fa a uscirne”. L’anoressia è una malattia complessa in cui interagiscono fattori genetici, ambientali, sociali e psicologici, che si manifestano con l’ossessiva necessità di avere un corpo sempre più magro attraverso il digiuno. Un ideale di bellezza paradossale, che in realtà è una negazione del corpo e della sua autonomia. “In alcuni casi, nell’adolescente anoressico si riattualizza un disturbo che si radica nei conflitti con la figura materna, dove le fantasie narcisistiche della genitrice invadono la vita del bambino, passando attraverso il controllo del corpo” chiarisce Bonaguidi. L’adolescente tratta e controlla il proprio corpo allo stesso modo in cui la madre ha trattato il suo nel passato”.
Chi soffre di questa visione distorta del corpo (dismorfofobia) vede difetti inesistenti o accentuati, fino a ricorrere alla chirurgia plastica o, nei casi più gravi, all’isolamento e al suicidio. In altri casi, il disturbo non è così radicato, ma fa parte della costellazione depressiva. “Il tema è presente anche in letteratura. Nel romanzo ‘Il cavaliere inesistente’ di Italo Calvino, Agilulfo, il valoroso combattente del re Carlomagno, è infatti senza corpo”, continua lo psicologo del Cnr. “Quando un giorno il re passa in rassegna le truppe Agilulfo tiene con la visiera dell’elmo abbassata senza mostrare il volto al re, spiegando: ‘Perché non esisto’. Agilulfo vive il suo corpo come inesistente mentre il suo spirito abita nell’imperatore. Questa scissione aiuta a comprendere quello che può accadere nell’adolescenza quando il disagio sfocia in una situazione patologica: si avverte un sentimento di estraneità verso il fisico, frequente in questa età. L’adolescente, infatti, vive con conflitto i cambiamenti dell’organismo, la scoperta della sessualità, l’accesso all’età adulta, la privazione dell’onnipotenza infantile. Una trasformazione che può introdurre elementi di perdita e di angoscia”.
La malattia anoressica-bulimica esprime dunque un profondo malessere psichico che deve essere ascoltato e curato, fin dai suoi primi sintomi, in opportune sedi specialistiche. “In questa malattia la psiche sembra prendere la sua rivincita: l’immagine del corpo trasfigurato e negato della persona affetta da anoressia, diventa l’urlo di dolore, la raffigurazione del profondo e crescente disagio psicologico della nostra società”, conclude Bonaguidi.