Una cosa che comincia per elle

In questo racconto, contenuto nell’antologia “Boutique del mistero”, Buzzati racconta la lebbra, malattia innominabile e contratta dal mercante Schroder costretto a girare seminudo con la campanella del lebbroso.

Versione integrale audio del racconto

Cristoforo Schroder, mercante in legnami, andò subito a letto, perché non si sentiva bene. Mandò poi a chiamare il medico dottor Lugosi, ch’egli conosceva da anni. Il medico venne e sembrò rimanere perplesso. Escluse che ci fossero cose gravi, si fece dare una bottiglietta di orina per esaminarla e promise di tornare il giorno stesso.
Il mattino dopo lo Schroder si sentiva molto meglio (…)

“Sono qui con un amico, questa mattina” (…)

“Tutto bene, le orine. Solo vorrei farvi un piccolo salasso. ” (…)

Intanto il visitatore estraneo, senza togliersi l’ampio mantello, aveva deposto sul tavolo il cappello e un pacchetto oblungo che mandò un rumore metallico. Lo Schroder notò con un senso di vago malessere, che l’uomo si era seduto quasi sulla soglia come se gli premesse di stare lontano da lui.
” Don Valerio, voi non lo immaginate, ma vi conosce già” disse allo Schroder il medico (…)

Vi dirò non ho mai avuto l’onore di incontrarvi personalmente, ma so qualche cosa di voi che certo non immaginate. ” (…)

“Non era un uomo alto, tutto nero in faccia, con uno strano cappello a cilindro? ” insisteva don Valerio. ” E non aveva una specie di campanella? Non vi ricordate che continuava a suonare? ”  (…)

” E chi era quell’uomo, allora? ” chiese lo Schroder con asprezza, come per far capire che se il Melito aveva qualche cosa da dire, era meglio che lo dicesse subito. (…)

Voi, piuttosto, chi credeste che fosse?” (…)

Un povero diavolo, un disgraziato (…)

“Uno zingaro, poteva essere. Per far venire gente li ho visti tante volte suonare una campana” (…)

” No. Non era uno zingaro. O, se lo era stato una volta, non lo era più. Quell’uomo, per dirvelo chiaro, è una cosa che comincia per elle. “
” Una cosa che comincia per elle? ” (…)

“Un ladro? Volete dire?” (…) Un lanzichenecco forse?… ” (…)

” Nè un ladro nè un lanzichenecco ” disse lentamente il Melito. ” Un lebbroso, era. ” (…)

Sono l’alcade, caro signore (…)” In quel pacchetto c’è la vostra campanella ” rispose. ” Uscirete immediatamente di qui e continuerete a suonarla, fino a che sarete uscito fuori del paese, e poi ancora, fino a che non sarete uscito dal regno. “

“La giacca, la mantella, e basta. L’altro deve essere bruciato. Per la carrozza e il cavallo si è già provveduto.” (…)

Dino Buzzati. La boutique del mistero. (Oscar Mondadori, Mondadori, 1968)

Una donna tra amore e malattia

Scritto dall’editor e critica letteraria, Giovanna De Angelis, stroncata prematuramente nel 2013 da un male che ha voluto raccontare in questo unico e postumo romanzo, il cui tema centrale è proprio la malattia della protagonista, Francesca, in lotta contro un ‘mostro’ incurabile


La giovane protagonista vive a Roma e fa la traduttrice, è sposata con Cosimo, ha una madre assente, un’amica attenta e frequenta il vecchio professore dell’università a cui la lega la passione per la traduzione. Un giorno incontra Diego, un ricercatore universitario, con il quale inizia una storia, fatta di poche parole e incontri sessuali che si consumano su un “divano letto tappezzato di velluto a coste verde scuro”.
Di colpo, arriva la malattia, il dolore, che “è solo di chi lo prova e di nessun altro”, e l’ospedale con la sua routine, “la terapia, il reparto che riapre le porte, una mascella di ferro, plastica e vetro pronta a masticarla e a risputarla fuori barcollante e col sangue pulito”. Francesca vive da ammalata senza rinunciare a combattere per mantenere la sua identità e per ottenere un’altra possibilità.
La narrazione in terza persona del libro, diviso in due parti – ‘Il vento’ e ‘Lo schianto’ – si alterna a brevi pagine di diario dove la malattia non viene esibita, ma diventa un osservatorio da cui scrutare la vita degli altri. Una lettura che propone la sofferenza della protagonista in modo delicato e aiuta a guardare oltre, per dare il giusto peso alle cose.

Marina Landolfi


Giovanna De Angelis, “La frattura”, Elliot (2015 )



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Si incontrano vecchi medici di manicomio

Non esiste vero psichiatra che non sia in amicizia con la pietà.

<Torniamo alla modestia del nostro tema, ai matti abbandonati.>

<Agli ordini ! come si diceva una volta.> 

I novatori hanno affermato che la follia non esiste, quelli che erano ricoverati in manicomio erano vittime del potere. I giornali, i rotocalchi quando è uscita la legge 180 hanno brindato allo smantellamento, alla liberazione.>

<I ricoverati si devono inserire, tornare in famiglia, in società.>

<La società li ha ammalati, la società se li riprenda. Si devono inserire.>

<Sì, gli piacciono certe parole. Mancano le strutture e non: manca l’assistenza, la protezione, un giaciglio, un tetto.>

<Ne ho visto brancolare per le strade eppure molti mantenevano nel viso un sorriso senza rimprovero. Avevano fame e sete e conservavano un loro incantamento.>

<Evvia devi riconoscerlo, i novatori con la loro malinconia, la malinconia endogena, hanno avuto una bella vittoria.>

<Sì un trionfo>

<Tanti ne hanno uccisi>  (…)

<Ci infamino, ma si propaghi lo splendore della nuova scienza. I matti tornino nelle famiglie dove sono nati>

<E vi rimangano>

<Non importa se vi sono giovani, ragazze, bambini, vecchi>

<E meglio di tutto se la loro abitazione è in uno di quei grossi edifici delle città moderne, umani alveari, un bel appartamento di famiglia operaia>

<Qui il giovane schizofrenico avrà più contatti e più in fretta si inserirà>

<Il padre durante la notte stia in allarme, sa che il figlio può compiere oscenità e picchiare anche qualcuno dei familiari, ma che felicità per lui quando la mattina si alzerà dal letto e andrà verso la sua fabbrica, alla sua catena di montaggio, che è anch’essa certamente una letizia per la fantasia umana>   (…)

<Tu l’avevi immaginata tanta abnegazione nelle madri degli alienati?>

<Ti confesso di no. All’uscita della legge 180 non l’avevo prevista (…)>

<Gli altri familiari presto si stancano, sbuffano, si adirano; arrivano ad odiare il congiunto colpito dalla follia>

<Le madri no, fedeli, accettano qualsiasi cosa dal loro figlio scacciato dal manicomio. (…) Esse sono state costrette a diventare psichiatre, e che potenza di linguaggio acquistano, capaci di incredibili sottigliezze (…)>

<(…) Che è successo in Italia? Ti ricordi la grande speranza che sorse alla scoperta degli psicofarmaci? Eravamo nel 1952>

<Si accese la speranza di salvarne tanti. Le violenze si oacarono, i deliri si appassivan, le allucinazioni ancora battevano in quelle teste ma non si traducevano più in assoluto comando, in terribili imposizioni, divenute invece pallide, un’eco lontana. E ogni giorno di più tra le mura manicomiali soffiava il vento dell’umana libertà>  (…)

<In poco tempo tutti i manicomi d’Italia… e se non ti piace questo nome mettiamone un altro che olezzi di verbena>

<Tutti gli ospedali psichiatrici avrebbero vissuto nella giusta misura, tramutati in umani domicili…>

<E invece piomba giù la moda, la demagogia, la psichiatria sociale>

<La 180. I malati per le strade>   (…)

<Non ti voglio parlare dei matti violenti contro se stessi o contro gli altri. Io vecchio medico di manicomio ho una speciale tenerezza per i deboli di mente, i frenastenici, quelli scarsamente capaci di misurarsi con le difficoltà della vita, di distinguere tra cielo sereno e aria di tempesta. Essi sono diventati preda, facile preda di chi esercita la malizia, chi gode al beffeggio, che si diletta dello zimbello. I frenastenici, gli scarsi di giudizio, sono buon pasto dei profittatori, dei prepotenti, dei cattivi che respirano al mondo>  (…)

<Lasciamo stare questa mia confessione, la verità è che dovremo difenderli tutti, frenastenici e no. E  per questo parlare franco e usare le parole più comuni, quelle che capiscono tutti>

<Scienza è godere del frutto del passato e beneficiare della scoperta moderna>

<Non esiste vero psichiatra che non sia in amicizia con la pietà>

<Se davvero vogliamo difendere, aiutare i malati di mente dobbiamo essere nemici di chi maneggia politica e sociologia e imbratta la psichiatria, la quale non è né democratica né aristocratica né borghese o plebea, è solo la psichiatria, colei che studia la pazzia, uno dei più profondi misteri umani>.

Mario Tobino

Treccani Enciclopedia Online

Mario Tobino, “Zita dei fiori” (Mondadori meridiani, 1986)

Le parole per dirlo

Marie Cardinal scava nell’animo umano e porta in superficie le cause del suo malessere esistenziale e della sua inquietudine.

Fino a quel giorno, quando presi il coraggio a due mani per parlargli finalmente dell’allucinazione, e quando lui mi chiese dopo aver ascoltato la mia descrizione: “Tubo’, che cosa le fa venire in mente?” fino quel giorno non mi ero ancora avventurata a fondo nell’inconscio. Vi avevo fatto qualche puntatina a caso, quasi senza rendermene conto.

[…] Mi rendevo conto che ancora a trent’anni e passa, avevo paura di non piacere a mia madre. Allo stesso tempo mi rendevo conto che la botta tremenda che mi aveva dato raccontandomi il suo aborto mancato mi aveva procurato un profondo disgusto di me stessa: non potevo essere amata, non potevo piacere, non potevo che essere respinta. Per questo ogni separazione, ogni partenza, ogni contrattempo erano vissuto come altrettanti abbandoni. Bastava che perdessi la metropolitana per sentire la Cosa agitarsi dentro di me. Ero una fallita, e quindi era logico che fallissi in tutto.

Era tanto semplice! Come mai non c’ero arrivata da sola? Come mai non me n’ero servita ogni volta che mi sentivo male? Semplicemente perché finora non ne avevo parlato con nessuno.

[…] Era tanto semplice che stentavo a crederci. Eppure i fatti lo dimostravano: tutti i miei disturbi psicosomatici erano scomparsi: il sangue, l’impressione di diventare cieca e sorda. La distanza tra le crisi di angoscia aumentava, ormai mi capitavano solo due o tre volte alla settimana.

Nonostante ciò, non ero ancora normale. 

[…] In quel momento il dottore chiese:

“’Tubo’, che cosa le fa venire in mente?”

Queste parole mi diedero fastidio. Sapevo dove andava a parare: il pisellino di carta, l’uscita dalla pancia di mia madre. Non si trattava di qiesto. Se fosse stato così semplice ci sarei arrivata da sola. M0p venuto voglia di alzarmi e di tagliare la corda. Mi esasperava quel piccolo burattino muto, con la sua calma e la sua impassibilità da iniziati. 

“lei mi ricorda i preti. È uguale a loro. Lei è il gran sacerdote della religione del cazzo. È sempre lo stesso ritornello con voialtri. Mi fai schifo.

[…] “…tubo, mi fa pensare a un tubo. Un tubo è un tubo… tubo mi fa pensare a tubetto… a tunnel… tunnel mi fa pensare al treno… da bambina viaggiavo spesso. Passavamo le nostre estati in Francia e in Svizzera. Prendevamo la nave poi il treno. Sul treno avevo paura di far la pipì. Mia madre era fissata sull’igiene e vedeva microbi dappertutto…”

Divagavo, divagavo. La bambina è venuta a raggiungermi. Io ero la bambina, avevo tre o quattro anni.”

[…] Durante quelle settimane, o quei mesi, non ricordo più, ero ubriaca dal mattino alla sera, ubriaca di gioia, d’alcool, di salute, di notti insonni, di carezze sempre nuove, di cibi appetitosi. Passavo le mie giornate a divertirmi con questo straordinario giocattolo: il mio corpo.

[…] Ogni parola che faticavo a pronunciare nascondeva in realtà un territorio nel quale rifiutavo di entrare. Ogni parola che dicevo con piacere designava al contrario un territorio che mi piaceva.

[…] Mi sono allora resa conto che c’era tutta una parte del mio corpo che non avevo mai accettato, che in qualche modo non mi era mai appartenuta. Tutto quello che era collocato tra le mie gambe poteva essere indicato soltanto con parole vergognose e non era mai stato l’oggetto del mio pensiero cosciente. Nessuna parola conteneva il mio ano.

[…] Non parlavo mai dell’analisi perché mi rendevo conto che quell’argomento infastidiva la gente: “sono tutte balle. I pazzi si mandano in manicomio. Per il resto sono balle da donnette, froci o squilibrati.” A quel punto iniziava una vera pioggia di racconti del genere: “io (o Pietro, Paolo o Mariarosa) ho fatto una psicoanalisi. Ebbene, cara mia, mi ha completamente distrutto. Non me ne parlare. Mi ci sono voluti cinque anni per rimettermi in sesto!” dopo scoprivo che avevano visto un medico per due mesi, sei mesi o anche due anni. Qualcuno al quale avevano raccontato la loro vita, che li aveva ascoltati, dato dei consigli e infine gli aveva prescritto un tranquillante nuovo. Insomma, o non avevano fatto una vera analisi, o l’avevano abbandonata nel momento in cui diventava difficile.

Marie Cardinal

Scheda dell’editore

Marie Cardinal, “Le parole per dirlo” (1975)

I dolori del Giovane Werther

Il brano antologizzato è tratto dall’ultima pagina de I Dolori del Giovane Werther. Werther non sopporta più la propria esistenza a causa anche di un’importante delusione d’amore. Le righe che riportiamo sono dotate di una precisione anatomica notevole: il suicidio non è cosi semplice come si possa immaginare; Werther non riesce infatti ad uccidersi.

Un vicino vide il lampo e udì il colpo; ma poiché, dopo, tutto rimase tranquillo, non vi badò oltre.

La mattina alle sei entrò il servitore col lume. Vide il suo padrone per terra, le pistole, il sangue. Lo chiamò, lo scosse: nessuna risposta, solo un rantolo. Corse dal medico, da Alberto. Carlotta udì suonare il campanello e un tremito le corse per tutte le membra. Svegliò il marito, si alzarono, e il servitore, balbettando e piangendo, diede loro la notizia. Carlotta cadde svenuta ai piedi di Alberto.

Quando il medico giunse presso l’infelice, lo trovò che non c’era più niente da fare; il polso batteva, le membra erano del tutto paralizzate. S’era sparato alla testa, sopra l’occhio destro, il cervello gli era saltato. Per precauzione gli fu praticato un salasso; il sangue uscì, respirava ancora.

Dal sangue che era sulla spalliera della seggiola, si poté arguire che si era colpito mentre sedeva alla scrivania; poi era caduto e si era rotolato convulsamente intorno alla seggiola. Giaceva supino presso la finestra, immobile; era completamente vestito, con gli stivali, la giacca e il panciotto giallo.

La casa, il vicinato, la città erano in subbuglio. Giunse Alberto. Werther era stato trasportato sul letto, con la fronte fasciata; il viso era mortalmente pallido, non faceva alcun movimento. Il rantolo era orribile a udirsi, ora debole, ora più forte; si attendeva la fine.

Non aveva bevuto che un bicchiere di vino. Sulla sua scrivania stava aperto il dramma Emilia Galotti. La costernazione di Alberto, il dolore di Carlotta erano indicibili.

Il vecchio borgomastro accorse a briglia sciolta alla notizia, e baciò il morente versando lacrime cocenti. I suoi figli più grandi lo raggiunsero presto, si gettarono accanto al letto, esternando il loro acerbo dolore, gli baciarono le mani e la bocca e il maggiore, che era stato sempre il suo prediletto, non si staccò dalle sue labbra fino all’ultimo respiro, e bisognò strapparlo via con la forza. Werther morì verso mezzogiorno. La presenza del borgomastro e le misure da lui prese valsero ad arginare lo scandalo. Verso le undici di sera lo fece seppellire nel luogo da lui designato. Il vecchio seguì il feretro coi suoi figli; Alberto non ne ebbe la forza; si temeva per la vita di Carlotta. Alcuni artigiani lo trasportarono, e nessun prete lo accompagnò.

Johann Wolfgang von Goethe

fonte: goethe_werther

Ippolito

L’Ippolito del tragediografo greco Euripide fu rappresentato nel 428 a.C ad Atene. La tragedia narra la storia dell’amore proibito tra Fedra e il suo figliastro Ippolito. Fedra è sconvolta nella sua intera persona dalla potenza dell’amore. Il brano antologizzato è tratto dalla prima apparizione del coro: è preoccupato dal male che affligge Fedra e ne descrive i sintomi.

CORO
str. a
C’è una roccia, raccontano, che stilla
acqua d’oceano: dalle rupi
erompe una sorgiva,
vi attingono con brocche.
Là c’era una mia amica,
lavava nella corrente vesti purpuree
le distendeva sopra
una calda, assolata pietra.
Le prime voci sulla mia padrona
mi giunsero di là.

ant. a
Giace in casa, stremata,
sul suo letto di inferma,
veli leggeri le ombrano
il biondo capo.
Da due giorni, mi dicono,
rifiuta di nutrirsi,
tiene puro il suo corpo
del cibo di Cerere: vuole
approdare al termine funesto di morte
spinta da un male segreto.

str. b
† Forse, † figlia, sei in potere
di Pan, oppure di Ecate o
dei venerandi Coribanti
o della Madre dei monti.
O ti tormenti per qualche tua colpa
contro Dictinna, la dea della caccia:
l’hai offesa con libagioni non offerte?
Oltre i laghi essa incede,
oltre la terra, sui vortici d’acque
del salso mare.

ant. b
O il tuo consorte, il capo
degli Eretteidi, nobile di stirpe,
lo signoreggia un amore segreto,
lo sottrae al tuo letto, nel palazzo?
o un navigante salpato da Creta
è giunto al nostro
porto ospitale
con notizie per la regina:
e l’anima è inchiodata al letto
per il dolore e l’angoscia?

ep.
Convive, di solito, con la difficile natura
delle donne una triste infelice debolezza
di travagli e vaneggiamenti.
Ha attraversato anche me, il mio grembo
questa tempesta. E invocavo
Artemide celeste, signora dell’arco, protettrice
dei parti; io la venero, tanto,
ed essa, grazie a Dio, accorre da me, sempre.
Ma guarda lì davanti alla porta la vecchia nutrice: sta accompagnando fuori dal palazzo la padrona. Che volto tetro,
rannuvolato ha la regina. E io desidero sapere, con tutta l’anima, che cosa l’abbia distrutta, perché sia così pallida.

Euripide

Da Euripide, Ippolito, ed. digitale a cura di Patrizio Sanasi. Liberamente disponibile presso il sito web https://spazioinwind.libero.it/latinovivo/Testintegrali/Ippolito.htm

Gustave Flaubert – Tre racconti

 

Tre racconti è l’ultima produzione narrativa compiuta di Gustave Flaubert. Un cuore semplice, La leggenda di San Giuliano Ospitaliere e Erodiade, costituiscono questa piccola antologia che ben riassume le sfumature e le capacità dell’autore francese. Infatti, nonostante le tre storie differiscono l’una dall’altra per ambientazione geografica e storica, riescono ad esprimere a pieno lo stile dello scrittore francese, capace di descrivere e dar vita a realtà e personaggi tra loro così lontani.

 

Era la prima volta della loro vita, la signora Aubain non aveva una natura espansiva. Felicita gliene fu riconoscente come di un favore, e da allora in poi la amò con una devozione animale e una venerazione religiosa.

La bontà del suo cuore si espanse.

Quando udiva nella strada i tamburi di un reggimento in marcia, si metteva sulla porta con una brocca di sidro, e offriva da bere ai soldati. Curò alcuni colerosi. Proteggeva i polacchi; e ce ne fu perfino uno che dichiarava di volerla sposare. Ma litigarono; perché una mattina, di ritorno dall’angelus, lo trovò in cucina, dove si era introdotto, e servito una salsa che stava tranquillamente mangiando.

Dopo i polacchi, fu la volta del vecchio Colmiche, di cui si diceva che avesse commesso delle atrocità nell’83. Viveva sulla riva del fiume, nei ruderi di un porcile. I ragazzini lo guardavano attraverso le fessure del muro, e gli gettavano i sassi che cadevano sul pagliericcio, dove se ne stava coricato, continuamente scosso dal catarro, con i capelli lunghissimi, le palpebre infiammate, e su un braccio un tumore più grosso della testa. Lei gli procurò un po’ di biancheria, cercò di pulirgli il tugurio, sperava di sistemarlo nello stanzino del forno, senza che desse fastidio alla signora. Quando il cancro scoppiò lei glielo medicò tutti i giorni, ogni tanto gli portava un po’ di focaccia, lo sistemava al sole su un fascio di paglia; e il povero vecchio, sbavando e tremando, la ringraziava con voce spenta, temeva di non vederla più, tendeva le mani appena la vedeva allontanarsi. Morì; lei fece dire una messa per la pace della sua anima. In quello stesso giorno, le capitò una grande felicita: all’ora di cena, il negro della signora di Larsonniere si presento, portando il pappagallo, con il trespolo, la catenella e il lucchetto. Un biglietto della baronessa annunziava alla signora Aubain che, siccome suo marito era stato promosso prefetto, partivano la sera stessa; e la pregava di accettare quell’uccello, come un ricordo, e in segno della sua deferenza.

 

Gustave Flaubert

 

http://www.writingshome.com/ebook_files/10.pdf

 

Gustave Flaubert, Tre racconti (1877)

I bambini rachitici di De Amicis

Una pagina di Cuore mostra le condizioni di salute degli scolari di fine Ottocento in Italia. Il medico, a scuola, visita i bambini e ne osserva le carenze e le deformità che ne determinano l’emarginazione sociale.

Erano una sessantina, tra bambini e bambine… povere ossa torturate! Povere mani, poveri piedini rattrappiti e scontorti! Poveri corpicini contraffatti! […] Alcuni, visti da davanti, son belli, e paion senza difetti; ma si voltano… e vi danno una stretta all’anima. C’era il medico che li visitava. Li metteva ritti sui banchi e alzava i vestitini per toccare i ventri enfiati e le giunture grosse; ma non si vergognavano punto, povere creature; si vedeva che erano bimbi assuefatti a essere svestiti, esaminati, rivoltati per tutti i versi.[…] Ma chi può dire quello che soffrirono durante il primo deformarsi del corpo, quando col crescere della loro infermità, vedevano diminuire l’affetto intorno a sé, poveri bambini, lasciati soli per ore ed ore nell’angolo di una stanza o d’un cortile, mal nutriti, e a volte anche scherniti, o tormentati per mesi. […] Parecchi non potevano alzarsi dal banco, e rimanevan lì, col capo ripiegato sul braccio, accarezzando le stampelle con la mano.

[…] – Vieni,- ripetè l’infermiere entrando. Il ragazzo si fece animo e lo seguito, gettando sguardi paurosi a destra e a sinistra, sui visi bianchi e smunti dei malati, alcuni dei quali avevano gli occhi chiusi e parevano morti, altri gurdavan per aria con gli occhi grandi e fissi, come spaventati. Parecchi gemevano come bambini. Il camerone era oscuro, l’aria impregnata d’un odore acuto di medicinali. Due suore di carità andavano attorno con delle boccette in mano.

Arrivato in fondo al camerone, l’infermiere si fermò al capezzale d’un letto, aperse le tendine e disse: – ecco tuo padre.

Il ragazzo diede in uno scoppio di pianto, e lasciato cadere l’involto, abbandonò la testa sulla spalla del malato, afferandogli con una mano il braccio che teneva disteso immobile sopra la coperta, il malato non si scosse.

Edmondo De Amicis

Testo completo

Edmondo De Amicis, Cuore (1886)

Il piccolo malato di Cronin

Il destino di Yu era segnato: sotto lo sguardo di tre medici barbuti, lo attendevano dolore e ferite. L’estratto dell’opera “Le chiavi del regno” di Archibald Joseph Cronin evidenziano la missione della cura del malato.

[…] La camera del piccolo malato era immersa nella penombra. Cià Yu era coricato sopra una Kang riscaldato, sotto gli sguardi di tre medici barbuti avvolti in lunghi roboni, e seduti su stuoie di vimini. Di quando in quando uno dei medici si piegava sul busto e lasciava cadere un pezzo di carbone nel kang scatoliforme. A un angolo della stanza un prete taoista avvolto in una veste color lavagna borbottava preghiere ed esorcismi, con accompagnamento di flauti dietro la tramezza di bambù.

Yu era un grazioso bambino di sei anni, dalla carnagione morbida e giallina e occhi d’antracite. Allevato secondo le più strette tradizioni del rispetto filiale, era adorato, ma non viziato. Adesso, consumato da una febbre divorante e dalla terribile novità del dolore, giaceva sul dorso con le ossa che sembravano dovergli bucare la pelle. Il braccio destro, livido, mostruosamente enfiato e tumefatto, era incasellato in un orribile plastico di sporcizia mista a frammenti di carta.

[…] Curvo sul bambino privo ormai di conoscenza, Francesco valutò nel suo giusto valore quella marmorea immobilità sacerdotale. I suoi guai attuali sarebbero stati meno che niente, a petto della persecuzione che sarebbe seguita se il suo intervento falliva. Ma le disperate condizioni del ragazzo, e quell’insolente pretesa di cura agirono ugualmente su di lui come una frustata, con gesti rapidi e delicati tolse dal braccio infetto lo Hao kao, il lurido bendaggio che aveva così spesso visto nei poveri che accorrevano al suo dispensario; poi, liberato il braccio, lo lavò in acqua calda. Nella bacinella l’arto quasi galleggiava, vescica gonfia di pus che dava alla pelle un colore verdognolo. A Francesco il cuore faceva ora un gran battere, ma senza esitare cavò dalla tasca l’astuccio di cuoio ricevuto dall’amico Tulloch, e ne trasse un bisturi. Non si illudeva sulle sue capacità, ma sapeva anche che se non incideva profondamente nel braccio del bambino giù moribondo, il destino del poveretto era segnato.

[…] Un gran fiotto di materia putrida sgorgò dalla ferita e colò denso nel vaso di coccio pronto a riceverlo. Un puzzo orribile riempì l’aria. Mai tuttavia Francesco aveva sentito odore con maggiore letizia.

Archibald Joseph Cronin

Adattamento radiofonico in cinque puntate del romanzo “Le Chiavi del Regno” di Archibald Joseph Cronin 

Archibald Joseph Cronin, “Le chiavi del regno” (1941, Bompiani)

Lirici Greci

La poesia antologizzata è stata composta dalla poetessa lesbia del VI secolo a.C. Saffo. Attraverso uno stile per nulla astratto, ma concreto, corporeo descrive la propria reazione alla visione della ragazza amata con un uomo: costui, per la beatitudine della bellezza e dell’amore della ragazza sarà “simile ad un dio”. La malattia dell’amore viene qui descritta in modo quasi scientifico, analizzando ogni reazione del proprio corpo al potente sentimento.

Simile a un dio mi sembra quell’uomo
che siede davanti a te, e da vicino
ti ascolta mentre tu parli
con dolcezza
e con incanto sorridi. E questo
fa sobbalzare il mio cuore nel petto.
Se appena ti vedo, sùbito non posso
più parlare:
la lingua si spezza: un fuoco
leggero sotto la pelle mi corre:
nulla vedo con gli occhi e le orecchie
mi rombano:
un sudore freddo mi pervade: un tremore
tutta mi scuote: sono più verde
dell’erba; e poco lontana mi sento
dall’essere morta.
Ma tutto si può sopportare…

Fonte: francesco sisti_lirici greci