Un bestseller americano di Jodi Picoult racconta una storia fiction che forse non si discosta tanto dalla nostra realtà degli anni della pandemia
La vita di Diana O’Toole scorre su binari sicuri: si sposerà entro i trent’anni, avrà figli entro i trentacinque e dalla caotica New York si trasferirà in una tranquilla villetta nei sobborghi, il tutto facendo carriera nello spietato mondo delle aste d’arte. È sicura che il suo fidanzato Finn, specializzando in Chirurgia, le farà la proposta di matrimonio durante la fuga romantica alle Galápagos che hanno organizzato, pochi giorni prima del suo trentesimo compleanno. Giusto in tempo. Ma un virus che sembrava lontanissimo compare all’improvviso in città e, alla vigilia della partenza, Finn le dà una brutta notizia: non può assentarsi dall’ospedale. Così, a malincuore, Diana decide di partire senza di lui: chi rinuncerebbe alla prospettiva di una spiaggia assolata su un’isola esotica? Ben presto, però, si ritrova in completa solitudine in un luogo remoto, e quella che doveva essere una vacanza da sogno si trasforma in un incubo. Ma a volte c’è bisogno che vada tutto storto perché alla fine tutto si risolva nel migliore dei modi… Dall’autrice bestseller Jodi Picoult un nuovo, appassionante romanzo che ha dominato le classifiche di vendita americane. Presto un film Netflix, Vorrei che fossi qui ci fa riflettere su quanto le nostre priorità possano cambiare e su come anche le certezze più salde possano essere stravolte.
Per certi viaggi non si parte mai quando si parte. Si parte prima. A volte molto prima. Sono bastate poche parole: “Suo figlio probabilmente è autistico”
Il verdetto di un medico ha ribaltato il mondo. La malattia di Andrea è un uragano, sette tifoni. L’autismo l’ha fatto prigioniero e Franco è diventato un cavaliere che combatte per suo figlio. Un cavaliere che non si arrende e continua a sognare. Per anni hanno viaggiato inseguendo terapie: tradizionali, sperimentali, spirituali. Adesso partono per un viaggio diverso, senza bussola e senza meta. Insieme, padre e figlio, uniti nel tempo sospeso della strada. Tagliano l’America in moto, si perdono nelle foreste del Guatemala. Per tre mesi la normalità è abolita, e non si sa più chi è diverso. Per tre mesi è Andrea a insegnare a suo padre ad abbandonarsi alla vita. Andrea che accarezza coccodrilli, abbraccia cameriere e sciamani. E semina pezzetti di carta lungo il tragitto, tenero pollicino che prepara il ritorno mentre suo padre vorrebbe rimanere in viaggio per sempre. Se ti abbraccio non aver paura è la storia di un’avventura grandiosa, difficile, imprevedibile. Come Andrea. Una storia vera. Da questo romanzo Gabriele Salvatores ha tratto il suo ultimo film.
LA STORIA DI FRANCO E ANDREA Un mattino senza scuola, Fulvio Ervas guarda scorrere il mondo dal tavolino di un bar. “Ehi, tu scrittore” lo apostrofa un tipo con occhi da Richard Gere “ho una storia per te. Sei uno scrittore, vero? Mi han detto che sei uno scrittore, e di quelli bravi”. “Sì” risponde Fulvio incerto “scrivo storie di fantasia”. “Allora ascoltami” dice l’uomo, che nel frattempo ha detto di chiamarsi Franco e ha ordinato uno spritz, “perché la storia che voglio raccontarti ha la forza della vita vera e la bellezza di un sogno”. Comincia così un dialogo durato un anno intero, sotto la pergola dell’uva fragola, sul divano di casa Ervas. Franco racconta di Andrea, della loro avventura attraverso le Americhe. Fulvio è incantato dalla sua energia, dal coraggio di quel padre che ama disperatamente suo figlio e vuole regalargli a ogni costo tutta la vita che può, tutta la bellezza che può: in barba a quell’autismo maledetto. Un giorno anche Andrea entra in giardino, con i suoi delicati saltelli sulle punte, con la sua smania di abbracciarti, di toccarti la pancia, di dirti ‘bella’, ‘bello’. E la sua mano percepisce in un istante come stai veramente. La mente di Fulvio parte, elabora immagini, corre con quell’Harley Davidson su strade a perdita d’occhio. Segue la danza di Andrea, che sembra sempre sul punto di spiccare il volo. Trasforma il racconto di Franco in un romanzo che affonda nel cuore e fa decollare le emozioni. “Io e Andrea attraverseremo tutte le Americhe possibili e immaginabili: due o tre, quelle che incontreremo. Ce ne andremo a zonzo, come esploratori.” Il nuovo romanzo di Fulvio Ervas affronta un tema di grande impatto: la vita con un figlio ‘diverso’. Lo fa con slancio e umorismo. “Credo che il viaggio che vorrei fare con Andrea sia una sfida nella sfida, siamo in movimento, non aspettiamo che la vita ci scarichi a una fermata.” Narrando l’avventura di Franco e Andrea tra deserti, foreste e città, Se ti abbraccio non aver paura parla di alchimie amorose, trappole nascoste dietro uno sguardo, sogni degni di una vita intera. Della forza dirompente dell’abbraccio di Andrea.
Giuseppe Berto: scrittore, drammaturgo e sceneggiatore. Una notevole vita tra onorificenze, opere letterarie e molto altro
Noto soprattutto per “Il male oscuro”, che su queste pagine abbiamo definito come il più importante romanzo italiano sulla psicanalisi insieme con “La coscienza di Zeno”, Giuseppe Berto fu anche un prolifico autore di racconti, che raccolti a suo tempo dallo scrittore stesso e ora nuovamente usciti in volume con la Bur. Al tema del male di vivere, qui, si accompagnano molti altri spunti, in particolare i ricordi militari dell’autore che formano in titoli quali: “La colonna Feletti”, “Avvenimento a Hereford”, “Sosta a Cassino”, “La vita militare”. La scrittura tracima spesso nell’autobiografia vera e propria. Né vi è alcuna distinzione, in fondo nella narrativa bertiana, tra questi due aspetti, l’introspezione e la memoria. Tutte le scelte compiute dall’autore furono infatti improntate a una continua ‘uccisione del padre’: la scelta di arruolarsi, di combattere, di vestire la divisa fascista e rifiutarsi di collaborare con gli alleati, e poi quelle di ingaggiare contro la consorteria intellettuale a lui coeva una guerra polemica inesausta e dagli accenti talvolta eccessivamente acrimoniosi. Lo scrittore di Mogliano Veneto, pure, ebbe ammiratori del calibro di Hemingway, ottenne un notevole riscontro anche all’estero e agguantò tra l’altro con ‘Il male oscuro’, nel 1964, una straordinaria doppietta: premio Viareggio e Campiello. Ma nemmeno il successo poté lenire un’insoddisfazione esistenziale che affondava in un rapporto così intimo e compromesso, che ebbe il suo climax con l’agonia paterna.
Giuseppe Berto fu “ostracizzato con livore oppure trascurato con simulata indifferenza quando era in vita” ed “è tuttora celato dalla cortina della rimozione letteraria”. L’affermazione di Paola Culicelli può essere difficilmente smentita. “Per qualche motivo sull’autore grava una damnatio memoriae”, prosegue l’autrice del saggio “La coscienza di Berto” sullo scrittore di Mogliano Veneto che, pure, ebbe ammiratori del calibro di Hemingway, ottenne un notevole riscontro anche all’estero e agguantò tra l’altro con ‘Il male oscuro’, nel 1964, una straordinaria doppietta: premio Viareggio e Campiello. Proprio il successo, anzi, fu probabilmente una delle ragioni dell’ostilità dell’establishment culturale, insieme con un ‘eccesso’ di fascino che lo scrittore non mancò di usare con le donne, e con la scorrettezza politica: “Dando alle stampe prima Il Brigante e poi Guerra in camicia nera“, ricorda l’autrice, egli “si inimicò” sia gli anticomunisti sia gli antifascisti. Un attacco effettivamente malmostoso a Dacia Maraini, poi, non migliorò certo i rapporti di Berto con i colleghi. Dopo il pregevole lavoro di Dario Biagi di qualche anno fa, arriva adesso a recuperare almeno parte della distrazione dei critici questo volume che però non si configura tanto come una biografia quanto come un saggio mirato all’aspetto centrale dell’opera più famosa dell’autore, assunta quale segnavia di tutta la sua produzione. In effetti, dopo ‘La coscienza di Zeno’, come la crasi del titolo del saggio di Cucinelli vuol far intendere, ‘Il male oscuro’ rimane il più importante romanzo italiano dedicato alla psicanalisi. “Aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Eppure sono convinto che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una malattia”, scrive Berto, il cui senso di colpa gli viene trasmesso, secondo la diagnosi piuttosto classica della studiosa, dal padre, che in effetti fu sul piano storico un tipico Super-Io, perennemente insoddisfatto del figlio, per il quale ebbe solo espressioni denigratorie e sfiduciate. Un rapporto che conobbe il suo momento topico proprio “nel frangente estremo dell’agonia paterna” e che lo scrittore tentò di risolvere con tre anni di terapia, incapaci però di liberarlo del tutto da imprinting, fobie e cicatrici caratteriali quali l’ipocondria (“la fissazione maniacale di essere ormai segnato, condannato a essere ghermito dal cancro”), le dimostrazioni di coraggio come quella esibita con l’arruolamento volontario e soprattutto uno stato depressivo cronico, a quei tempi si parlava di “esaurimento” che lo portarono a una continua “spola da un medico all’altro”, alternata alle più varie auto-prescrizioni.
Il romanzo storico di Dacia Maraini è stato pubblicato nel 1990; nello stesso anno, l’opera vinse il Premio Campiello. “Marianna Ucrìa” è invece il titolo del film del 1997, diretto da Roberto Faenza, tratto dal romanzo. Assieme alla scheda del libro, vi proponiamo alcuni contributi utili ad approfondirne la genesi e la trama
Protagonista è Marianna, la figlia sordomuta di una grande famiglia palermitana della prima metà del Settecento. Marianna comunica per mezzo di bigliettini con il mondo ed in parte è guidata dagli altri sensi, che ha sviluppato notevolmente; fra lei e il padre, il duca Signoretto Ucrìa di Fontanasalsa, sembra esserci una tenera complicità, mentre con la madre il rapporto è improntato a una reciproca diffidenza.
All’età di sette anni, la bambina è portata dal padre ad assistere all’esecuzione di un condannato a morte, nella speranza che una forte emozione possa guarirla dalla menomazione che sarebbe stata causata da un forte spavento (altrove la madre aveva scritto a Marianna che la figlia era nata sordomuta), il che non dà alcun risultato. I cinque fratelli le vivono accanto senza troppa confidenza: Signoretto, il più grande, freddo e formale, vuole somigliare al padre, di cui imita i modi e dal quale dovrà ereditare tutte le proprietà; dell’atteggiamento di Agata che è già promessa sposa, e della meno bella Fiammetta che è destinata al convento, nulla si dice; Carlo e Geraldo, tanto simili da sembrare gemelli, entreranno uno in convento, l’altro nell’esercito e il primo è il più garbato dei fratelli verso Marianna.
A tredici anni Marianna, che tenta invano di opporsi, viene sposata allo zio, Pietro Ucrìa di Campo Spagnolo, fratello della madre. Dopo quattro anni di matrimonio, ha già tre figlie (Felice, Giuseppa e Manina), ma il marito aspetta con trepidazione quel figlio maschio che, quando finalmente arriverà, ai diciannove anni della sposa, sarà chiamato Mariano. Marianna si ritira per sua volontà nella villa di Bagheria, da cui non esce quasi mai, passando giornate intere a leggere e a scrivere, nonostante il marito preferisca Palermo e non ami i segni di desiderio di libertà che la moglie-nipote fa emergere; in particolare egli guarda male la passione di lei per la lettura, considerato che i libri diffondono le nuove correnti filosofiche fra cui l’Illuminismo e le teorie di David Hume che intaccano la concezione della superiorità dei nobili e della ragione, che deve dominare ad ogni costo le passioni ed i desideri. Muore la madre e, poco dopo, anche il padre, le cui disposizioni testamentarie suscitano un forte sdegno nei figli maschi perché la maggior parte dei beni viene destinata alle figlie. I fratelli, nel frattempo, hanno seguito le volontà dei genitori e pure non mostrano molta confidenza: Agata sposata e madre di numerosi figli fino allo sfinimento, indifferente ai tradimenti del marito Diego, Fiammetta monaca ma forse con una dedizione inaspettata, Signoretto aspirante alla carica di senatore, Carlo che in convento si dedica alla traduzione della letteratura, Geraldo che, ora ufficiale, muore in un alterco per strada.
Marianna trascorre le sue giornate in compagnia dei libri, ma non è felice essendo comunque moglie di un uomo che ella non ama davvero. Dopo aver sorpreso la serva Fila in intimità con il giovane Saro, che si rivela il fratellino di lei, nuove inquietudini turbano la sua apparente tranquillità: lo stesso ragazzo inizia con lei un gioco di seduzione cui si sente attratta, divertita e impaurita. Intanto Giuseppa ottiene di sposare un ragazzo che ama, ma dal quale è delusa perché ella ama leggere e il marito odia le nuove idee filosofiche quanto il duca Pietro; Felice è mandata dal padre in convento in cui fa la suora con un comportamento non irreprensibile, amando lussi e pettegolezzi; Manina è data in moglie a 12 anni e come la zia Agata trascorre la vita in casa sottomessa al marito. Muore anche il marito Pietro e la donna, durante una passeggiata per la campagna, soccorre Saro che finge una caduta da cavallo per poter ricevere un suo bacio. Successivamente, Marianna si ammala di pleurite e, durante la convalescenza, comincia a interrogarsi sull’inerzia della propria vita che l’ha portata a negarsi a un vero amore. Decide di ammogliare Saro per sentirlo distante, e durante un colloquio con il fratello Carlo, cui chiede di trovare una moglie da dare a Saro, lo interroga sull’origine del proprio mutismo. La reticenza di Carlo le fa affiorare il ricordo di quando, a sei anni, lo zio Pietro l’aveva violentata, e dallo shock era derivata la perdita di udito e parola: per mettere a tacere la cosa (che certamente il padre sapeva, per le donne della famiglia non è chiaro quanto sapessero del fattaccio) la famiglia aveva aspettato il momento buono di combinare un matrimonio riparatore proprio fra la bambina e lo zio orco, che avrebbe anche portato una ricca contraddote ai genitori di Marianna.
Dal matrimonio di Saro con la moglie Peppinedda nasce un figlio, ma Fila, in un impeto di gelosia, cerca di uccidere Peppinedda mentre dorme con Saro e il bambino. Durante l’aggressione Saro viene gravemente ferito e il bambino muore schiacciato dai genitori che cercavano di reagire. Peppinedda lascia la casa e Fila è portata in Vicaria, a Palermo, per essere giustiziata, ma Marianna intercede per lei presso il pretore della città, Don Giacomo Camalèo, per cui la cameriera verrà rinchiusa in manicomio per un certo tempo. Assistendo Saro, che sta lentamente guarendo dalle ferite, fa l’amore con lui e, per la prima volta, si abbandona a un rapporto dolce e coinvolgente. Tuttavia, al ritorno della moglie di Saro, ormai anche lei guarita, Marianna decide di troncare la relazione. Parte per Napoli, recando con sé Fila che è riuscita a fare uscire dal manicomio.
I familiari cominciano a rimproverarle i presunti “scandali” che la vedono coinvolta: per esempio, quello di vedersi spesso con Camalèo, uomo ricco e influente ma, per loro, di dubbia reputazione in quanto un tempo in relazioni con i francesi (la famiglia di Marianna invece è filo-spagnola), che peraltro le fa la corte anche se Marianna lo considera solo un amico. Le rimproverano inoltre di avere smesso il lutto soltanto un anno dopo la morte del marito e, soprattutto, di circondarsi di persone non del suo ceto, Fila e Saro. Frattanto il rapporto di Giuseppa con il marito peggiora e la ragazza lo tradisce con Olivo il figlio di Signoretto, Saro e Mariano fanno una vita da signori, Felice si atteggia a monaca più devota interessandosi alla medicina e riscuotendo successo, Manina continua a fare la moglie. Nel viaggio verso Napoli, il brigantino su cui le due donne sono imbarcate fa naufragio. Da Napoli esse si dirigeranno a Roma. Fila, infine, grazie anche alla dote procuratale da Marianna, sposa il padrone di una locanda e insieme alla duchessa rimane ancora a Roma.
Dal sito dell’Associazione Culturale Clara Maffei la recensione di un pamphlet intitolato “Vanessavirus”, dedicato alla vicenda di Gabriel Matzneff. Lo scrittore francese, molti anni dopo i fatti, è stato accusato di pedofilia da Vanessa Springora, all’epoca quattordicenne, con la quale aveva intrattenuto una relazione nonostante i circa 40 anni di differenza di età. Lo scrittore, braccato dalla polizia francese, si è rifugiato in Italia, dove ha dato alle stampe la propria versione della vicenda, il pamphlet è stato tradotto da Giuliano Ferrara e pubblicato da Liberilibri. Un’operazione che viene definita “quantomeno discutibile”. Quello che ci interessa qui è però l’uso del suffisso “virus” per attualizzare la vicenda ai tempi della pandemia e ricalcare il frequente uso del riferimento morale, sociale o cultural ai contagi
La frequente considerazione secondo la quale i nostri atteggiamenti istintivi andrebbero subordinati al ragionamento incontra nella pedofilia una delle contraddizioni più pesanti. Sul tema del rapporto sessuale con bambini, infatti, sembra conveniente far prevalere il pregiudizio culturale del divieto assoluto anziché imbarcarsi in disquisizioni teoriche che rischiano di aprire derive permissive pericolosissime. Detto ciò, è altrettanto evidente che qualunque condanna senza appello e, in qualche modo, senza neppure processo rischia anch’essa di dare il “la” a pericolose tentazioni colpevoliste e forcaiole, contraddicendo i fondamentali del nostro stato di diritto.
Quanto la questione sia complessa lo hanno attestato di recente due operazioni culturali. La prima è la docu-fiction di Amazon “Veleno”, che ha riportato alla luce una vicenda giudiziaria svoltasi a fine millennio scorso nella bassa modenese e che giornalisticamente prese il titolo di “diavoli”, termine attribuito ai genitori e agli adulti accusati presunti abusi su bambini. Le condanne e le conseguenze furono pesantissime: 16 figli furono allontanati dai loro genitori; il sacerdote considerato il vertice della squallida cupola di pervertiti morì di infarto mentre si trovava nello studio del suo legale, dopo avere assistito alla requisitoria con la quale lo si accusava di vomitevoli nefandezze; una delle mamme accusate si tolse la vita, dichiarando nell’ultimo messaggio la propria innocenza. Le vite di tutte le persone coinvolte sono state distrutte per sempre.
Alcuni anni dopo un giornalista, Pablo Trincia, decise di dedicare a questa vicenda un’attenzione fuori dal comune che produsse un reportage audio nel quale tutta la conduzione della vicenda da parte della magistratura e degli assistenti sociali fu illuminata nelle sue non poche zone d’ombra, tanto che l’esito finale del lavoro del cronista è tendenzialmente innocentista. Ora il lavoro di Trincia, già pubblicato in podcast da Repubblica, è stato trasformato da Amazon in una docu-fiction seriale di grande efficacia, come sempre nei prodotti di questo broadcaster. La percezione che tutto il castello costruito sui “diavoli della bassa modenese” poggiasse su fondamenta fragilissime si è ulteriormente rafforzata, grazie anche alle ampie e approfondite testimonianze rese dai genitori e dagli adulti le cui vite sono state sconvolte dalle testimonianze di alcuni bambini.
Uno di questi ex bambini, dalle cui accuse si montò la terribile vicenda, di recente ha confessato di essersi inventato tutto, dicendo di essere stato plagiato da inquirenti e assistenti sociali che gli rivolgevano le domande. La vicenda resterà probabilmente in sospeso, ma resta anche l’ammonimento a osservare la massima cautela nel momento in cui si mettono sotto inchiesta delle persone per questo terribile reato. Molto diversa invece la vicenda di Gabriel Matzneff, uno scrittore francese accusato molti anni dopo i fatti da Vanessa Springora, la donna all’epoca quattordicenne con la quale lo scrittore intrattenne una relazione nonostante i circa 40 anni di differenza di età. Lo scrittore è braccato dalla polizia francese e si è rifugiato in Italia, dove ha dato alle stampe la propria versione della vicenda con un pamphlet intitolato “Vanessavirus”, tradotto da Giuliano Ferrara e pubblicato da Liberilibri. Questa operazione, che segue la pubblicazione francese avvenuta a spese dello stesso Marzneff in duecento copie vendute anche a 600 euro ciascuna, è quantomeno discutibile. La linea decisamente liberale dell’editore e del fondatore del Foglio sono state senz’altro meritorie, in più occasioni nelle quali il conformismo culturale e il mainstream mediatico lasciavano ben poco spazio alle voci controcorrente.
In questo caso, però, la solidarietà concessa mediante il diritto di parola a un uomo che è reo confesso di avere praticato e predicato la libertà di amore e di sesso anche con minorenni appare una sorta di mossa elitaria, un po’ come quella che ha a lungo coperto – perlomeno mediante l’omertà, la mancanza di condanna aperta – i registi Roman Polanski e Woody Allen quando sono stati toccati da accuse di comportamenti riprovevoli. Ricordiamo un precedente, quello di Marcello Baraghini che con la sua Stampa Alternativa pubblicò a suo tempo il “Diario di un pedofilo” scritto da William Andraghetti: anche in quel caso la motivazione liberal-radicale fu che a tutti va concesso il diritto di parola e di difendersi.
Il terreno è infido, il rischio di una caccia all’untore sempre dietro l’angolo. Ma la cautela non può in alcun modo diventare giustificazione di una presunta libertà che si traduce in un abuso traumatizzante che le vittime portano come una ferita non più rimarginabile per tutto il resto della loro vita. In questi tempi di pandemia il tema di come debbano essere interpretate le libertà è tornato di un’attualità imprevedibile, non è più soltanto oggetto di un dibattito intellettuale ma una questione molto pratica e concreta. Proprio perché le siamo fedeli in modo appassionato, pensiamo che la bandiera della Libertà debba essere sì sempre sventolata, ma anche protetta da possibili strappi quando il vento soffia troppo forte.
Vito Marangelli nei due romanzi di “Caffè Enigma” costruisce una saga di science fiction, prendendo per protagonisti i laboratori leccesi di nanotecnologia, una ricercatrice ucraina e altri personaggi del Paese martoriato dalla guerra. Una scelta avvenuta, però, molto prima che il conflitto scoppiasse
Vito Marangelli è un medico pugliese, per la precisione un cardiologo esperto di imaging, che soltanto nei giorni scorsi ha visitato per la prima volta i laboratori Nanotec di Lecce, nonostante li avesse scelti come location del suo primo romanzo “Caffè Enigma”. Ancor più sorprendente è che abbia descritto la vita, professionale e non, di un paio di ricercatori dell’Istituto del Cnr basandosi solo su dati pubblici, con una fedeltà tale che i diretti interessati, incontrati successivamente, hanno dichiarato di riconoscersi perfettamente nei loro alter ego letterari. Sono i misteri affascinanti della narrativa. D’altronde il successivo romanzo di Marangelli, “Caffè Enigma Leopoli”, è stato ambientato nella città ucraina senza che l’autore l’avesse mai visitata ma con una precisione assoluta, basata sempre sulla consultazione delle informazioni disponibili on-line. Ai misteri dell’invenzione narrativa si aggiungono poi quelli del caso, talvolta drammatico: queste due opere di science fiction, techno thriller o spy story vedono per protagonisti una ricercatrice e altri personaggi del Paese martoriato dalla guerra per una scelta avvenuta molto prima che il conflitto scoppiasse. L’autore annuncia anzi che, nel probabile terzo e ultimo volume della serie, si potrebbe distaccare dall’Ucraina proprio per non entrare nel merito della tragica attualità.
Non riveliamo comunque troppi particolari, per non bruciare il piacere della sorpresa della lettura, limitandoci ad accennare ai molti elementi che si intrecciano nel plot narrativo: dalla droga alla musica classica, dai marchi industriali ai più innovativi dispositivi di bio-monitoraggio, dagli scacchi fino alle ricette leccesi come ciceri e tria o pasticciotti. Tra le varie figure che popolano le due storie troviamo agenti segreti, gestori di locali, giornalisti e due brillanti commissari, anche se l’autore assicura di non voler creare una saga alla Montalbano, dichiarando di preferire a Camilleri come modello letterario, Crichton e Asimov.
L’elemento portante di “Caffè Enigma”, nella prima come nella seconda puntata, è però un aspetto scientifico di fantasia eppure strettamente legato alla ricerca che si conduce realmente nei laboratori di Nanotec e agli interessi professionali di Marangelli: la speranza di poter curare mediante le nanotecnologie uno dei problemi cardiocircolatori fondamentali, l’aterosclerosi, cioè la formazione delle placche, causa di molti problemi e di una mortalità ancora pesantissima. Mentre su altri aspetti dei romanzi ci auguriamo ovviamente che l’invenzione letteraria resti tale, su questo la speranza è che un giorno si possa davvero tramutare in realtà.
“Gomitoli di memoria” è un viaggio “fra realtà e fantasie” che Maria Paola Graziani, alias Airamp Lever, sceglie per la sua protagonista. In queste pagine, soprattutto in quelle dedicate a bulimia ed anoressia, si coglie direttamente l’esperienza professionale dell’autrice, psicologa e già ricercatrice dell’Istituto di scienza dell’alimentazione del Cnr
“Quando si ritrova il bandolo e lo si riesce a districare dagli ingarbugliati nodi, la vita si presenta come una vera avventura al pari di una sceneggiatura piena di colpi di scena, di colori e di ombre che, pur fra realtà e fantasie, appare comprensibile”. Questo è il viaggio “fra realtà e fantasie” che Maria Paola Graziani, alias Airamp Lever, sceglie per la protagonista dei suoi ‘Gomitoli di memoria’. Il racconto è un intreccio tra la storia personale di Lei e i luoghi fisici custodi della sua memoria su cui, tra tutti, spicca una Roma lontana, piegata sia fisicamente che moralmente dalla guerra. La ricostruzione storica e la riflessione scientifica sono le due sponde che accompagnano questo viaggio nella memoria. Un cammino lungo dieci momenti dell’esistenza senza un apparente rapporto di consequenzialità, in cui trovano spazio l’incontro prematuro con la morte, l’amore, la solitudine, la lotta, le madri di gioia e gli amici dell’infanzia. Tutto, dai luoghi agli oggetti, perfino gli odori, ha un ordine interno, quasi a scandire il tempo delle scelte, delle nuove curiosità, della vita. Così la riflessione si avvicenda alla narrazione ed è con Jo, amico d’infanzia e interlocutore muto che la accompagna nelle sue elaborazioni più intime, che Lei riflette sul significato di simboli e modelli culturali, dal dopoguerra fino alla ‘società liquida’. E, ancora, la magia dell’incontro con lo Zahir che, “impadronitosi dell’altro, detta le regole del gioco e l’importanza delle ricompense e delle delusioni, il limite e la barriera”; la sua “memoria intellettuale”, il dolore della separazione e, infine, il tempo dell’accettazione. Pensieri che generano nuovi pensieri e nuove domande, in un salto continuo dal passato al presente. Il dolore è sullo sfondo, come “il grande tema che gira intorno al nostro universo”. Il dolore del distacco dai propri cari e la sofferenza per “le domande senza risposta” che restano, ma che non impedisce di risalire verso una ritrovata consapevolezza di sé fino alla rinnovata capacità di progettare il domani. Ed è in queste pagine, come in quelle dedicate a bulimia ed anoressia, che più direttamente si coglie l’esperienza professionale dell’autrice, psicologa e già ricercatrice dell’Istituto di scienza dell’alimentazione del Cnr. Voltarsi indietro per comprendere e non per abbandonarsi al dolore o alla gioia di momenti ormai andati. Voltarsi e riconoscersi negli eventi passati, perché “noi siamo i nostri ricordi” e “… narrare forse, resta uno dei pochi percorsi che allentano il dolore e danno suono ai silenzi della memoria”.
Monica Di Fiore
Airamp Lever, “Gomitoli di memoria”, Nuova Cultura (2014)
La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in “Sarà bella la vita”. A scriverlo è Monica Mondo, una giornalista che definisce il libro un “romanzo”, anche se vi racconta in prima persona la propria esperienza di rifiuto del cibo, con le sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare
La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in un libro breve, ‘Sarà bella la vita’ di Monica Mondo, che l’autrice e l’editore Marietti 1820 definisce come “romanzo” ma che sarebbe invece più appropriato chiamare ‘testimonianza’. A scriverlo è infatti una giornalista che racconta in prima persona il rifiuto del cibo, dalle sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali forse trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare, fino alla completa uscita dal tunnel grazie, di nuovo, a un concerto di stimoli positivi. La cornice è rappresentata da una serie di citazioni, letterarie e musicali, che attestano la provenienza dell’autrice da una famiglia in cui libri e giornali costituivano un oggetto di lavoro quotidiano e che rappresentano gli spunti per inquadrare ricordi di persone e fatti. Si inanella così una trama esile ma estremamente intensa e significativa, soprattutto la generazione che ha vissuto, o almeno visto, in prima persona gli anni plumbei dell’odio ideologico. Essere scampata al terrorismo, come pure alla droga, avere trovato accoglienza da parte di un prete sensibile, avere provato l’inevitabile sentimento di amore-odio per i terapeuti sono solo alcuni dei passaggi attraverso i quali Mondo riesce a vincere l’anoressia. Oggi, adulta e madre nonostante le pessimistiche previsioni di sterilità dei medici, può guardare a quei ricordi di bambina e ragazza con una maturità tranquilla che le consente di trasformarli in racconto.
Marco Ferrazzoli
Monica Mondo, “Sarà bella la vita”, Editore Marietti-1820 (2012)
I Disturbi del comportamento alimentare (Dca) come anoressia e bulimia nervosa colpiscono, secondo dati Aidap (Associazione italiana disturbi dell’alimentazione edel peso), dai due ai tre milioni di italiani, di cui il 90% donne. « Il tema è presente anche in letteratura. Nel romanzo “Il cavaliere inesistente” di Italo Calvino, Agilulfo, il valoroso combattente del re Carlomagno, è infatti senza corpo », spiega Franco Bonaguidi dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa. « Quando un giorno il re passa in rassegna le truppe, Agilulfo tiene con la visiera dell’elmo abbassata senza mostrare il volto al re, spiegando: ‘Perché non esisto’. Agilulfo vive il suo corpo come inesistente mentre il suo spirito abita nell’imperatore. Questa scissione aiuta a comprendere quello che può accadere nell’adolescenza quando il disagio sfocia in una situazione patologica »
C’è chi controlla in modo ossessivo il proprio peso, sminuzzando il cibo in pezzi sempre più piccoli e rifiutando alimenti ipercalorici. E chi, invece, si abbandona ad abbuffate ‘compulsive’, solitamente in solitudine e di nascosto, ricorrendo poi a vomito autoindotto, uso di lassativi o diuretici, per non accumulare chili in più. Entrambi gli atteggiamenti sono annoverati tra i Disturbi del comportamento alimentare (Dca) come anoressia e bulimia nervosa. Queste patologie psichiatriche complesse colpiscono, secondo dati Aidap (Associazione italiana disturbi dell’alimentazione edel peso). dai due ai tre milioni di italiani, di cui il 90% donne, anche se negli ultimi anni sono sempre più frequenti i casi di maschi anoressici, sia adolescenti sia di mezz’età.
“La comparsa dei Disturbi del comportamento alimentare è legata a un distorto rapporto con il cibo e il proprio corpo: per il quale il pasto diventa un campo di battaglia tra desideri e conflitti e tra sensazioni contrastanti”, spiega Franco Bonaguidi dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa, che continua a fornire cifre fornite dall’Aidap. “Ad ammalarsi sono soprattutto giovani (il 5% sono donne tra i 13 e i 35 anni), bambini (il 21% delle femmine, il 15% dei maschi tra gli 11 e i 17 anni) e adulti (il 20% con più di 35 anni). E, cosa ancor più drammatica, un adolescente su dieci non ce la fa a uscirne”. L’anoressia è una malattia complessa in cui interagiscono fattori genetici, ambientali, sociali e psicologici, che si manifestano con l’ossessiva necessità di avere un corpo sempre più magro attraverso il digiuno. Un ideale di bellezza paradossale, che in realtà è una negazione del corpo e della sua autonomia. “In alcuni casi, nell’adolescente anoressico si riattualizza un disturbo che si radica nei conflitti con la figura materna, dove le fantasie narcisistiche della genitrice invadono la vita del bambino, passando attraverso il controllo del corpo” chiarisce Bonaguidi. L’adolescente tratta e controlla il proprio corpo allo stesso modo in cui la madre ha trattato il suo nel passato”.
Chi soffre di questa visione distorta del corpo (dismorfofobia) vede difetti inesistenti o accentuati, fino a ricorrere alla chirurgia plastica o, nei casi più gravi, all’isolamento e al suicidio. In altri casi, il disturbo non è così radicato, ma fa parte della costellazione depressiva. “Il tema è presente anche in letteratura. Nel romanzo ‘Il cavaliere inesistente’ di Italo Calvino, Agilulfo, il valoroso combattente del re Carlomagno, è infatti senza corpo”, continua lo psicologo del Cnr. “Quando un giorno il re passa in rassegna le truppe Agilulfo tiene con la visiera dell’elmo abbassata senza mostrare il volto al re, spiegando: ‘Perché non esisto’. Agilulfo vive il suo corpo come inesistente mentre il suo spirito abita nell’imperatore. Questa scissione aiuta a comprendere quello che può accadere nell’adolescenza quando il disagio sfocia in una situazione patologica: si avverte un sentimento di estraneità verso il fisico, frequente in questa età. L’adolescente, infatti, vive con conflitto i cambiamenti dell’organismo, la scoperta della sessualità, l’accesso all’età adulta, la privazione dell’onnipotenza infantile. Una trasformazione che può introdurre elementi di perdita e di angoscia”.
La malattia anoressica-bulimica esprime dunque un profondo malessere psichico che deve essere ascoltato e curato, fin dai suoi primi sintomi, in opportune sedi specialistiche. “In questa malattia la psiche sembra prendere la sua rivincita: l’immagine del corpo trasfigurato e negato della persona affetta da anoressia, diventa l’urlo di dolore, la raffigurazione del profondo e crescente disagio psicologico della nostra società”, conclude Bonaguidi.
“Il panico quotidiano” di Christian Frascella (Einaudi) si presenta come un vero e proprio diario di un malato, sin dall’incipit: “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”. Ne ‘La fabbrica del panico’ Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con semplicità, i suoi due spunti letterari, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. Tra i precedenti che vengono richiamati alla mente, Paolo Volponi
Si presenta come un vero e proprio diario di un malato più che come un romanzo, ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella (Einaudi). Sin dall’incipit, “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”, fino al finale, uno dei punti più sinceri e sorprendenti del libro. Nel mezzo, la narrazione lineare e cronologica di un’esistenza segnata da una ‘media’ ma profonda insoddisfazione: per le ambizioni di scrittore fino ad allora frustrate; per il lavoro alla catena di montaggio, in un settore industriale come l’indotto dell’auto piemontese, che nel corso degli anni descritti conosce una grave crisi; per una famiglia d’origine divisa da contrasti profondi quanto inespressi, soprattutto per una serie di relazioni amicali e per un rapporto d’amore che proprio le crisi di panico metteranno in luce nella loro superficialità. La parte più efficace del libro è quella che descrive – man mano che la malattia avanza – la sensazione di progressivo abbandono, la distanza che si crea con le persone più care, l’impossibilità di condividere un dolore tanto profondo, personale e particolare. Come nel confronto illuminante con l’amico del cuore: “Preoccupato? Io al momento non lo ero. Ma mi resi conto che lui si lo era. E capii che non era preoccupato per me. Era preoccupato per sé. Per se stesso, che ora doveva interagire con un tizio che non ci stava più di tanto con la testa. Fu la prima volta che ebbi a che fare con quella sensazione. Dopo di allora mi è capitato di continuo”. Del resto, l’ineffabilità delle crisi è reale e il libro stesso si limita, nel descriverle, a espressioni che non riescono a renderne nemmeno una pallida idea: “attacchi feroci, continui”, “non ci sono parole per raccontare agli altri”, “Oddio pensai. Non un’altra volta, non davanti a tutti. Oddio. E più pensavo così più la paura risaliva”. Analoghe incomprensioni e incertezze, peraltro, il protagonista le incontra tra affidamenti speranzosi, disillusioni e auto prescrizioni, anche a livello sanitario, sperimentando randomicamente, il medico di base, vari psicofarmaci, un Centro di salute mentale, fino a incontrare uno psichiatra ospedaliero che gli farà comprendere, ma ci vorranno anni, come il panico si possa controllare e ci si possa convivere, senza però l’illusione di “guarire”. Un aiuto importante, anche se sporadico, gli arriverà invece dal rapporto stretto con un anziano operaio malato, Tonino Mascia detto “Sissignuri”. A indebolire il testo è la sciatteria lambita sia nel plot sia soprattutto nello stile, infarcito di espressioni che paiono tratte dalle “emozioni adolescenziali” oggetto delle precedenti opere di Frascella. “Signore, pensai sui gradini della chiesa, non ci frequentiamo più molto ma ci conosciamo da tanto”, “con la passione dov’era andata a finire? Dove se ne va il desiderio quando poi se ne va?”, “Nasconderle le cose? E come avrei potuto fare altrimenti? Non facevamo che nascondercele le cose. Non parlavamo mai, almeno non di noi”. L’editore definisce però ‘Il panico quotidiano’ una prova di “maturità” dell’autore.
Ne “La fabbrica del panico” Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con una semplicità encomiabile, due spunti letterari che hanno dato seguito a filoni cospicui, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. I precedenti che vengono richiamati alla mente sono diversi, oltre a Paolo Volponi che viene esplicitamente richiamato nella nota editoriale: da ‘Acciaio’ di Silvia Avallone a ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella. Il protagonista racconta in modo asciutto, quasi cronachistico, lasciando ai fatti il compito di sgomentare il lettore, la realtà dei “morti d’amianto” attraverso la vicenda del padre operaio e pittore: “La pittura non esisteva senza la fabbrica, la fabbrica non esisteva senza la pittura. Se non fosse stato per la fabbrica non avrebbe avuto la necessità di evadere nella pittura. Se non fosse stato per la pittura, non avrebbe avuto la necessità di guadagnarsi da vivere in fabbrica. Invece di morire ogni giorno dentro quello stabilimento, sarebbe potuto tornare in montagna nei boschi a raccogliere funghi, a coltivare l’orto”. La morte arriva qualche giorno dopo l’inizio della chemioterapia e dopo anni di un lavoro con cui l’uomo “guadagnava appena il necessario a non morire di fame. Non di più, non di meno” e per il quale “faceva cose che non avrebbe mai fatto in vita sua. Obbediva a ordini a cui non avrebbe mai obbedito”. La fabbrica è, per l’operaio assunto quale simbolo, la causa di un malessere mortale, fatto di “crisi d’ansia… una colite ulcerosa… stanchezza e inappetenza”, che il cronometrista e il caposquadra catalogano “traducendolo in numeri”. Un Fantozzi davvero tragico, che ritiene legittimo perdere o non avere quella salute che non considera un proprio diritto. Tra il padre e il figlio, che ne eredita le crisi di panico, si interpone però la coscienza sindacale di Cesare, delle riunioni, del “Comitato”, delle manifestazioni, come quella in cui vengono lanciate “decine di palloncini colorati. Ogni palloncino porta il nome di un compagno di lavoro morto”. Nonostante l’ingenuità e la parzialità ideologica di questa coscienza, che si muove sulle note dell’Internazionale e di ‘Bandiera rossa’, non si può non rileggerne la storia con un moto di paradossale rimpianto, accentuato dalla constatazione che la conflittualità della fabbrica contro proprietà e dirigenza, la drammaticità delle sue storie di infortuni, mutilazioni volontarie, “movimenti uguali senza sosta” e tempi di lavoro insostenibili, appaiono quasi un lusso rispetto al nulla occupazionale e civile dello scenario odierno. In mezzo, tra ieri e oggi, c’è il solco inaccettabile dell’amianto omicida, anzi stragista, delle morti “a catena” – “Cento operai su cento soffrono di disturbi alle prime vie respiratorie… Sessanta operai su cento soffrono d’ansia… Ventidue operai su cento soffrono di silicosi” – della teoria terribile di diagnosi cliniche, dall’asbestosi al carcinoma bilaterale ai polmoni, delle vertenze e delle sentenze. Il romanzo, conclude l’autore, “deve essere pertanto inteso come un’opera di fantasia basata su fatti realmente accaduti”.