La pelle

La peste dell’anima induce l’essere a compiere scelleratezze di ogni tipo. Sia l’uomo che la donna perdono la dignità e umiliano sé stessi.

Era, quella, una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa. Lo straordinario carattere di tal nuovissimo morbo era questo: che non corrompeva il corpo, ma l’anima. Le membra rimanevano in apparenza intatte, ma dentro l’involucro della carne sana l’anima si guastava, si disfaceva. Era una specie di peste morale, contro la quale non pareva vi fosse difesa alcuna. Le prime ad essere contagiate furon le donne, che, presso ogni nazione, sono il riparo più debole contro il vizio, e la porta aperta ad ogni male. (…)

Molti, è vero, che la disperazione faceva ingiusti, quasi scusavano la peste: insinuando che le donne prendevano pretesto dal morbo per prostituirsi, che cercavano nella peste la giustificazione della loro vergogna.

Ma una più profonda conoscenza del morbo rivelò in seguito che un tale sospetto era maligno. Poiché le prime a disperarsi della loro sorte eran le donne e molte ne ho udite io stesso piangere, e maledire quella crudelissima peste che le spingeva con invincibile violenza, contro la quale nulla poteva la loro debole virtù, a prostituirsi come cagne. (…)

Non meno pietosa e orribile era la sorte degli uomini. Non appena contagiati, essi perdevano ogni rispetto di se medesimi: si davano ai più ignobili commerci, commettevano le più sudice viltà, si trascinavano carpone nel fango baciando le scarpe dei loro “liberatori” (disgustati di tanta, e on richiesta obiezione), non solo per essere perdonati delle sofferenze e delle umiliazioni sofferte negli anni della schiavitù e della guerra, ma per aver l’onore d’essere calpestati dai nuovi padroni; spuntavano sulle bandiere della propria patria, vendevano pubblicamente la propria moglie, le proprie figlie, la propria madre. Tutto ciò, dicevano, per salvare la patria. E pur quelli che, all’aspetto, sembravano immuni dal morbo, si ammalavano di una naueseante malattia, che li spingeva ad arrossire di essere italiani, e perfino di appartenere al genere umano. (…)

Il sospetto, divenuto poi certezza, che la peste fosse stata portata in Europa dagli stessi liberatori, aveva suscitato nel popolo un profondo e sincero dolore. Sebbene sia antica tradizione dei vinti odiare i vincitori, il popolo napoletano non odiava gli alleati. Li aveva attesi con ansia, li aveva accolti con gioia.

Curzio Malaparte

Enciclopedia Treccani Online

Curzio Malaparte, “La pelle” (1949)

Malaria

Nella novella di Verga si assiste ad una vera e propria guerra tra poveri ignoranti a causa della malaria.

E’ vi par di toccarla colle mani […] stagnante nella pianura, a guisa dell’afa pesante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e l’estate arsa, e vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell’autunno, e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto.

Però dov’è la malaria è terra benedetta da Dio. In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c’entra il vomero in novembre. Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perché il signore ha detto: « Il pane che si mangia bisogna sudarlo»

Quelli del baraccone stavano a cena cuocere quattro fave, a ridosso del muricciolo, seduti sulle calcagna, per covar la pentola cogli occhi, tutta la famiglia. A un tratto udirono gridare: —Dàlli! dàlli! –e videro la folla inferocita che correva per sbranarli. –Signori miei! siamo poveri diavoli, poveri commedianti che andiamo intorno per buscarci il pane! -Il vecchio annaspava colle mani, per fare intendere le sue ragioni; la donna copriva i fìgliuoletti colle ali, come una chioccia; la giovinetta colle braccia in aria. Arrivò una prima sassata, che fece colare il sangue. Poi un parapiglia, la gente in mucchio accapigliandosi, gli strilli delle vittime, che si udivano più forte. -No! no! non li’ ammazzate “…ancora! Vediamo prima se “sono innocenti! Vediamo prima se portano il colera! -C’erano pure delle anime buone in quella ressa. ‘Ma gli altri non volevano intender ragioni: Jeli di comare Barbara, che gli sanguinava il cuore dall’angoscia, Scaricalasino che aveva visto coi suoi occhi Zanghì stecchito sotto il lenzuolo, massaro Lio che si sentiva già i dolori di ventre addosso. In un attimo la baracca in tutta sottosopra: i burattini, gli scenari, i cenci, la poca paglia sudicia dei sacconi. Poi, dopo che non ebbero più ridire frugare, fecero un mucchio d’ogni cosa, e vi appiccarono il fuoco. -Bravo! E adesso come farete a scoprire se portavano il colera? —-gridarono alcuni. Ma il povero capocomico non sentiva e non badava più a nulla, né le grida di morte, né le falci, né le scuri; pallido e stravolto, col sangue giù per la faccia, i capelli irti, gli occhi fuori della testa, voleva buttarsi sul fuoco per spegnerlo colle sue mani, urlando che lo rovinavano, che gli” toglievano il suo pane, strappandosi i capelli dalla disperazione, in mezzo alla famigliuola tutta pesta e malconcia, scampata per miracolo alla strage. —-Meglio, meglio che ci avessero uccisi tutti! —-Neppure il colera li aveva voluti, da per tutto dove l’avevano incontrato, stanchi ed affamati.

Giovanni Verga

Treccani Enciclopedia Online

Novelle rusticane

Giovanni Verga, “Novelle Rusticane” (1885)

La peste in Manzoni

Manzoni, ne “I promessi sposi”, non nasconde il terrore davanti all’avanzare dell’epidemia di peste.

E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.

E mentre,- dice il Ripamonti,- i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città come un solo mortorio c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! La mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio.

Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile prendere in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.

[…] si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero: stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera […]

Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo.

L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzaretto.

Alessandro Manzoni

Treccani Enciclopedia Online

Alessandro Manzoni, “I promessi sposi” (Einaudi, Torino pag. 521)

Pazzi

Achille Campanile ragiona su chi sia davvero il pazzo, sul significato di pazzia e di saviezza. Finché simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio.

Io certe volte sospetto di essere pazzo. E certe volte ne ho l’assoluta certezza e allora vorrei abbandonare ogni finzione di saviezza. Come è riposante non simulare più!

La cosiddetta saggezza non è assenza di pazzia, perché tutti abbiamo la stoffa dei pazzi. È soltanto la possibilità di simulare e possesso maggiore di alcuni freni. 

Il bello è, poi, che quando mi convinco di essere pazzo e decido di gettar la maschera della saggezza, mi sento in un certo senso rinsavito. Finchè simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio. Andate a spiegare una cosa simile.

La maggior percentuale di sofferenze e di dolori- morali, s’intende- che ci procuriamo deriva dal fatto che, salvo alcune fortunate eccezioni, noi siamo dei pazzi costretti a fingerci savi e a regolarci come tali. Le fortunate eccezioni non si riferiscono a persone che non sono pazze, ma a quelle che, essendolo, non sono costrette alla simulazione.

Il male consiste nel fatto che il mondo riconosce ma non accetta la pazzia e perciò obbliga alla simulazione. Intanto, però, ognuno la riconosce soltanto negli altri. Spesso da quello di cui dice: <<è pazzo>>, il mondo pretende atti da savio.

Ora io non voglio dire che la saviezza sia infelicità e sofferenza. Lo è in quanto simulata. E questa apparente saviezza è la peggior froma di pazzia, la più sinistra, la più dolorosa. 

Invece la saviezza dovrebbe consistere nel capire quello che si è, ed esserlo veramente. Un pazzo sarà savio se si considererà pazzo e se si regolerà e ragionerà da pazzo. Sarà due volte pazzo se cercherà di regolarsi e di ragionare da savio. Beninteso, un savio sarà savio se si regolerà e ragionerà da savio.

[…] Basta afflitto, come dicevo, dal dubbio di essere pazzo, volli consigliarmi con un medico circa l’oppurtunità di sottopormi a un esame psichiatrico.

<<ma sei pazzo?>> mi disse quegli. <<perché vuoi farlo? Sarebbe una pazzia andare a mettersi in bocca al lupo>>

<<Naturalmente>> dissi << se sono pazzo, niente di strado che commetta delle pazzie>>

[…] Malrgado il parere del medico, mi presentai al manicomio e chiesi d’essere messo in osservazione.

<<che sintomi avete?>> mi domandò il direttore.

<<ecco, io mi considero pazzo>>

<<non basta. Bisogna assodare se lo siete davvero.>>

<<Perché? Nel caso che io fossi pazzo, lei mi considererebbe pazzo?>>

<<evidentemente>>

<<e sbaglierebbe. Se io fossi realmente pazzo, non sarei pazzo a considerarmi pazzo. Mentre, se non lo fossi, è chiaro che lo sarei per il fatto di ritenermi tale.>>

<<ma in che consisterebbe allora la vostra pazzia?>>

<<nel credermi pazzo senza esserlo.>>

<<ma allora non sareste pazzo, se non lo siete>>

<<Lo sarei in quanto, senza esserlo, mi ritengo tale. Se mi ritenessi pazzo essendolo realmente, questo mio credermi pazzo non sarebbe pazzia; mentre lo è se non lo sono.>>

Il direttore del manicomio si passò una mano sulla fronte. 

<<voi mi fate diventare pazzo>> mormorò.

Si volse l’assistente:

<<cosicchè, dovremmo metterlo al manicomio se non è pazzo?>>

<<Precisamente >> fece l’assistente. <<Perché, non essendolo, ritiene di esserlo. Questa è la sua forma di pazzia>>

<< ma con questo ragionamento>> obbiettò il direttore << se fosse pazzo non lo metteremmo al manicomio>>

<<Beninteso. È pazzo se non è pazzo>>

<<ma siete pazzo voi>>

<< Sarei pazzo se non ritenessi pazzo uno che non essendo pazzo si considera pazzo e che non sarebbe pazzo a considerarsi pazzo, se fosse realmente pazzo.>>

A tagliar corto il direttore mi sottopose a una minuziosa visita, sperimentò le mie reazioni, mi interrogò e alla fine mi batté affettuosamente la mano sulla spalla e disse congedandomi:

<<Andata, andate tranquillo; questo vostro ritenervi pazzo non è sintomo di pazzia, inquantoché siete realmente pazzo>>.

Me ne andai tranquillizzato, sereno, ormai, essendomi tolto un gran peso dallo stomaco: dunque non sono pazzo, visto che sono pazzo.

Achille Campanile

Treccani Enciclopedia Online

Achille Campanile, “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima” (1974)

Alla ricerca del tempo perduto

Nell’opera di Marcel Proust non vi è traccia del medico ciarlatano e irriverente nei confronti del paziente.

Voi, signora, vi credevate malata – gravemente malata, forse. Dio sa di quale affezione credevate di scoprirvi i sintomi. E non vi sbagliavate, li avevate davvero. Il nervosismo è un imitatore geniale. Non c’è malattia che non sappia contraffare a meraviglia. Riproduce perfettamente la dilatazione dei dispeptici, le nausee della gravidanza, l’aritmia del cardiopatico, lo stato febbrile del tubercoloso. Se cade nel tranello il medico, come potrebbe non caderci il malato? Ah! Non pensate ch’io sorrida dei vostri mali, non mi prenderei la responsabilità di curarli se non li comprendessi. Del resto, non c’è buona confessione che non sia reciproca. Ecco qua: vi ho detto che senza malattia nervosa non c’è grande artista; ebbene (e alzò gravemente l’indice), non c’è nemmeno grande scienziato. Aggiungerò che, se non si è affetti a propria volta da qualche malattia nervosa, non si può essere, non fatemi dire un buon medico, ma semplicemente un accettabile medico di malattia nervose.

[…] le manifestazioni di cui soffrite svaniranno alle mie parole. E poi, accanto a voi c’è qualcuno che è dotato d’un gran potere e che io, ormai, ho trasformato nel vostro medico è il vostro stesso male, la vostra iperattività nervosa. Sapessi come guarirvene, mi guarderei bene dal farlo. Mi basta impartirgli degli ordini. Vedo sul vostro tavolo un libro di Bergotte. Guarita dal vostro nervosismo, non l’amereste più. Ebbene, come potrei arrogarmi il diritto di scambiare le gioie che vi procura Bergotte con un’integrità nervosa assolutamente inadeguata a darvene di uguali?

Marcel Proust

Enciclopedia Treccani Online

Marcel Proust, “Alla ricerca del tempo perduto” (1913)

Memoriale di un folle

Passato e presente, vita e morte, moglie e madre: binomi di una mente disturbata.

Caddi stroncato da un accesso di febbre. Da quindici anni non avevo più avuto una malattia seria, e mi stupivo di questo incidente capitatomi così inopportuno: non che temessi di morire (…) questa fine precipitosa non poteva rallegrarmi. (…)  Roso dalla febbre che mi squassava come un materasso di piume, mi afferrava alla gola per strangolarmi, mi schiacciava il petto con un ginocchio, mi bruciava al punto di farmi uscire gli occhi dalle orbite, restavo nella mia soffitta solo con la morte, che certamente mi era scivolata di soppiatto in camera e ora si gettava su di me!

<No, non lo voglio vedere il medico><Perché?> <Perché non lo voglio vedere>

I nostri occhi si scambiarono tutta una serie di sottintesi >Voglio morire> dissi per finirla. <La vita mi nausea, il passato mi torna alla mente come una matassa aggrovigliata che non ho la forza di dipanare. Che i miei occhi si riempiano di berio e si tirino le tende!>

Davanti ai miei nobili e coraggiosi sfoghi, ella restava insensibile.

<I tuoi vecchi sospetti…sempre?> disse

<Sì, sempre. Fa’ sparire il fantasma! Solo tu sei riuscita a scacciarlo via finora!>

Con un gesto abituale, posò sulla mia fronte la sua dolce mano, e, con finta aria di mammina, come un tempo, disse: 

<Va bene così?>

<Sì, così va bene!>

Ed era vero. Il semplice contatto di quella manina leggera, piombata così pesante nel mio destino, aveva la facoltà di scacciare le visioni nere, respingendo le inquietudini furtive.

Presto la febbre mi riprese, e più forte. Mia moglie si alzò per prepararmi una tisana di sambuco.

Essendo manifesta la maternità di Maria non mi reputo più tenuto in amore, a certe precauzioni; e siccome non c’è più motivo di rifiutarsi, inventa scuse per infastidirmi e quando vede la mia soddisfazione dopo i nostri liberi amplessi, mi serba rancore per l’innocente gioia che mi è venuta da lei.

E’ fin troppa felicità per me, visto che i miei disturbi nervosi vengono proprio dalla continenza! Intanto la mia affezione gastrica si aggrava al punto che non posso inghiottir altro che brodo e la notte mi sveglio con terribili crampi allo stomaco e bruciori insopportabili, che cerco di calmare bevendo latte freddo.

August Johan Strindberg

Enciclopedia Treccani Online

August Johan Strindberg, “Memoriale di un folle” (Armando Curcio ed. 1978)

Si incontrano vecchi medici di manicomio

Non esiste vero psichiatra che non sia in amicizia con la pietà.

<Torniamo alla modestia del nostro tema, ai matti abbandonati.>

<Agli ordini ! come si diceva una volta.> 

I novatori hanno affermato che la follia non esiste, quelli che erano ricoverati in manicomio erano vittime del potere. I giornali, i rotocalchi quando è uscita la legge 180 hanno brindato allo smantellamento, alla liberazione.>

<I ricoverati si devono inserire, tornare in famiglia, in società.>

<La società li ha ammalati, la società se li riprenda. Si devono inserire.>

<Sì, gli piacciono certe parole. Mancano le strutture e non: manca l’assistenza, la protezione, un giaciglio, un tetto.>

<Ne ho visto brancolare per le strade eppure molti mantenevano nel viso un sorriso senza rimprovero. Avevano fame e sete e conservavano un loro incantamento.>

<Evvia devi riconoscerlo, i novatori con la loro malinconia, la malinconia endogena, hanno avuto una bella vittoria.>

<Sì un trionfo>

<Tanti ne hanno uccisi>  (…)

<Ci infamino, ma si propaghi lo splendore della nuova scienza. I matti tornino nelle famiglie dove sono nati>

<E vi rimangano>

<Non importa se vi sono giovani, ragazze, bambini, vecchi>

<E meglio di tutto se la loro abitazione è in uno di quei grossi edifici delle città moderne, umani alveari, un bel appartamento di famiglia operaia>

<Qui il giovane schizofrenico avrà più contatti e più in fretta si inserirà>

<Il padre durante la notte stia in allarme, sa che il figlio può compiere oscenità e picchiare anche qualcuno dei familiari, ma che felicità per lui quando la mattina si alzerà dal letto e andrà verso la sua fabbrica, alla sua catena di montaggio, che è anch’essa certamente una letizia per la fantasia umana>   (…)

<Tu l’avevi immaginata tanta abnegazione nelle madri degli alienati?>

<Ti confesso di no. All’uscita della legge 180 non l’avevo prevista (…)>

<Gli altri familiari presto si stancano, sbuffano, si adirano; arrivano ad odiare il congiunto colpito dalla follia>

<Le madri no, fedeli, accettano qualsiasi cosa dal loro figlio scacciato dal manicomio. (…) Esse sono state costrette a diventare psichiatre, e che potenza di linguaggio acquistano, capaci di incredibili sottigliezze (…)>

<(…) Che è successo in Italia? Ti ricordi la grande speranza che sorse alla scoperta degli psicofarmaci? Eravamo nel 1952>

<Si accese la speranza di salvarne tanti. Le violenze si oacarono, i deliri si appassivan, le allucinazioni ancora battevano in quelle teste ma non si traducevano più in assoluto comando, in terribili imposizioni, divenute invece pallide, un’eco lontana. E ogni giorno di più tra le mura manicomiali soffiava il vento dell’umana libertà>  (…)

<In poco tempo tutti i manicomi d’Italia… e se non ti piace questo nome mettiamone un altro che olezzi di verbena>

<Tutti gli ospedali psichiatrici avrebbero vissuto nella giusta misura, tramutati in umani domicili…>

<E invece piomba giù la moda, la demagogia, la psichiatria sociale>

<La 180. I malati per le strade>   (…)

<Non ti voglio parlare dei matti violenti contro se stessi o contro gli altri. Io vecchio medico di manicomio ho una speciale tenerezza per i deboli di mente, i frenastenici, quelli scarsamente capaci di misurarsi con le difficoltà della vita, di distinguere tra cielo sereno e aria di tempesta. Essi sono diventati preda, facile preda di chi esercita la malizia, chi gode al beffeggio, che si diletta dello zimbello. I frenastenici, gli scarsi di giudizio, sono buon pasto dei profittatori, dei prepotenti, dei cattivi che respirano al mondo>  (…)

<Lasciamo stare questa mia confessione, la verità è che dovremo difenderli tutti, frenastenici e no. E  per questo parlare franco e usare le parole più comuni, quelle che capiscono tutti>

<Scienza è godere del frutto del passato e beneficiare della scoperta moderna>

<Non esiste vero psichiatra che non sia in amicizia con la pietà>

<Se davvero vogliamo difendere, aiutare i malati di mente dobbiamo essere nemici di chi maneggia politica e sociologia e imbratta la psichiatria, la quale non è né democratica né aristocratica né borghese o plebea, è solo la psichiatria, colei che studia la pazzia, uno dei più profondi misteri umani>.

Mario Tobino

Treccani Enciclopedia Online

Mario Tobino, “Zita dei fiori” (Mondadori meridiani, 1986)

I pazzi salutano Clarisse

La tragica realtà di un reparto psichiatrico dove si intrecciano il lavoro del medico, di Clarisse, dei malati e di ciò che avviene nella loro mente.

Un “reparto tranquillo”, – spiegò il medico.

C’erano soltanto donne; avevano i capelli sciolti sulle spalle e i loro visi erano repulsivi, con lineamenti molli, enfiati, deformi.

Una di esser corse subito dal medico e gli consegnò una lettera.

E’ sempre la stessa storia, – disse Friedenthal e lesse forte:

-“Adolfo mio adorato! Quando vieni? Mi hai dimenticata?” –

La donna, più che sessantenne, ascoltava con aria ebete. – La spedirai subito, vero? – ella pregò – Certo! – promise il dotto Friedenthal e sotto i suoi occhi strappò la lettera ammiccando alla sorvegliante. Clarisse lo rimproverò: – Come può agire così? – esclamò con sdegno – I malati bisogna prenderli sul serio!

Venga via! – esortò Friedenthal. – Non mette conto di fermarsi qui. Se vuole le posso mostrare centinaia di lettere simili. Avrà osservato che la vecchia è rimasta indifferente quando ho strappato il suo biglietto.

Clarisse era allibita perché ciò che diceva il dottore era vero ma le sconvolgeva le idee.

(Cfr. Lechon, Il difficile problema del rispetto del paziente psichico)

sovente sono grandi artisti, molto moderni.

E ammalati? – dubitò Clarisse.

– Perché no? – sospirò Friedenthal pateticamente.

“Dunque anche un’arte rispettabile e rispettata come l’accademia ha una sorella rinnegata, defraudata e tuttavia quasi identica in manicomio?”

Nei letti della nuova stanza eran seduti o buttati una serie di orrori. Tutto di quei corpi era storto, imbrattato, contraffatto o paralitico. Dentature guaste. Teste ciondolanti. Crani troppo grandi, troppo piccoli e tutti deformi. Mascelle cascanti, colanti di saliva, bocche macinanti a vuoto, animalescamente, senza cibo né parole. (…)

Le sale dei gravemente affetti da idiozia sono fra gli spettacoli più raccapriccianti che si possan trovare nelle brutture di un manicomio, e Clarisse si sentì sprofondare in una tenebra fitta e spaventosa dove non distingueva più nulla.

Il dottor Friedenthal la seguiva spiegando: – Idiozia familiare amaurotica – Sclerosi ipertrofica tuberosa. – Idiozia timica.

Il generale che s’era stufato di vedere ebeti e lo stesso supponeva di Ulrich, guardò l’orologio e disse: – Dov’eravamo rimasti? 

il dottor Friedenthal (…)

Era abituato a quel, trantran. Ordine come in una caserma o in ogni altra comunità, alleviamento delle principali sofferenze e incomodi, prevenzione dei peggioramenti evitabili, ogni tanto un miglioramento, una guarigione: questi erano gli elementi della sua attività quotidiana. (…)

Adesso entriamo in un reparto di agitati, – annunziò Friedenthal, e già s’avvicinavano a uno schiamazzo, a un grido, che pareva erompere da un’immensa gabbia d’uccelli. (…)

Tutti i pazzi roteavano gli occhi e le braccia, eccitati e urlanti (…)

Alcuni erano liberi, altri erano legati all’orlo dei letti con cinghie che lasciavano pochissimo gioco alle mani. (…)

Infine il pazzo disse lentamente: – E’ il settimo figlio dell’Imperatore.

Stumm von Bordwehr diede una gomitata a Ulrich.

– Non è vero, – contraddisse Friendenthal, e continuando il gioco si rivolse a Clarisse coll’invito: – Gli dica lei stessa che s’inganna.

– Non è vero, amico mio, – mormorò Clarisse, che per la commozione quasi non riusciva a parlare.

Robert Musil

Trecani Enciclopedia Online

Robert Musil, “L’uomo senza qualità” (1930-1942)

Una ‘pestifera’ novella

La Morte Nera del 1348 a Firenze ha un cronista d’eccezione: Giovanni Boccaccio, il quale, evidenzia come le relazioni cambiarono in peggio a causa dell’epidemia.

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella, non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascun infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate e in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente  cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare.

E non come in Oriente aveva fatto, dove morte; ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcune meno le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e venire, e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità e permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce, e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.

[…] E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento quasi tribulazione entrata n’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna e il suo marito; e , che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.

Boccaccio

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Giovanni Boccaccio, “Il Decamerone” (1349-1353)

La peste nell’Impero Romano

Tito Lucrezio Caro descrive con raccapricciante veridicità i sintomi e i segni della malattia.

Ora spiegherò quale sia la causa delle malattie e donde

la forza maligna possa sorgere d’un tratto e arrecare esiziale

strage alla stirpe degli uomini e alle torme degli animali

Anzitutto, sopra ho insegnato che esistono semi

di molte cose che per noi sono vitali,

e per contro è necessario che ne volino molti altri che causano

malattia e morte. Quand’essi per casuale incontro

si son raccolti e han perturbato il cielo, l’aria si fa malsana

Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore

e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi.

La gola, inoltre, nell’interno nera, sudava sangue,

e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava,

e l’interprete dell’animo, la lingua, stillava gocce di sangue,

infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.

Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia

aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto

dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.

Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,

simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.

Questo era più miserabile

E doloroso, che quando ciascuno vedeva se stesso

Avvinto dal male, da esserne votato alla fine, 

perdutosi d’animo, giaceva con cuore dolente, 

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

E benché sulla terra giacessero insepolti mucchi di corpi

su corpi, tuttavia gli uccelli e le fiere o fuggivano

balzando lontano, per evitare l’acre puzzo,

oppure, se li assaggiavano, languivano per morte imminente

E infatti ormai né la religione, né la maestà degli dèi

contavano molto: il dolore presente aveva il sopravvento.

Lucrezio

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Tito Lucrezio Caro, “De Rerum Natura”