“Leonardo, Einstein, Lennon probabilmente erano DISLESSICI”

Forse la dislessia è più comune di quanto si pensi, ma non ha impedito ai grandi pensatori, artisti, scienziati e artisti di fare la storia

«Da bambino non andai mai particolarmente bene o male a scuola. Il mio principale punto debole era una memoria povera, soprattutto per quanto riguarda le parole e i testi; non affollavo la mia memoria con i fatti che avrei potuto trovare facilmente in una enciclopedia…»

Lo racconta Alberi Einstein e questa testimonianza, insieme a molti altri indizi, fanno presumere che l’uomo che ha rivoluzionato la nostra percezione dell’universo fosse dislessico.
Naturalmente all’epoca non si facevano test per verificarla, sono solo supposizioni, così come quelle che tendono ad annoverare tra i gli affetti da DSA Leonardo Da Vinci, Ludwig van Beethoven, Hans Christian Andersen, Emile Zola o Winston Churchill (anche Adolf Hitler). Solo a partire dagli anni Settanta del Novecento il problema è stato messo a fuoco e si sono moltiplicati gli studi.


“Vittime di pace, all’ombra del passato”

In un remoto ospedale di confine, due medici, entrambi bianchi, impersonano il conflitto tra utopistica volontà di cambiamento e apatica rassegnazione: Il buon dottore, riedito da e/o, sarà presentato da Damon Galgut, giovedì, a Mantova

Nella seconda metà degli anni Novanta in Sudafrica, all’ottimismo e all’euforia che salutarono la fine dell’apartheid e la vittoria di Nelson Mandela nelle elezioni del 1994, fece seguito un periodo segnato dalle ambiguità morali e politiche di un regime mutato radicalmente in maniera troppo repentina. Mentre gli scrittori che cercavano di raccontare il nuovo Sudafrica, pur sottolineando le incongruenze del presente, guardavano comunque al futuro con qualche fiducia (lo stesso Coetzee offre uno spiraglio di speranza sul finale del suo sconsolato Vergogna), nel paese veniva opponendosi all’idealismo dei giorni della lotta un razionale pragmatismo.

“Libri e malattia: i classici della letteratura da recuperare”

I testi imprescindibili della letteratura che ruotano intorno al tema della malattia. Da recuperare durante questo periodo di “clausura”

Nel saggio, che ha avuto circolazione autonoma e ha subito diverse revisioni nel passaggio da un’edizione all’altra (le piu importanti: la prima del 1926 e quella definitiva del 1930), Virginia Woolf lamenta che la letteratura non abbia rivolto alla malattia fisica altrettanta attenzione che alle attività della mente. «A impedire la descrizione della malattia in letteratura ci si mette anche la povertà del linguaggio. L’inglese, che può esprimere i pensieri di Amleto e la tragedia di re Lear non ha parole per i brividi e il mal di testa».

Fonte: Corriere della Sera

Favole

Fedro racconta in questa favola una situazione ricorrente dell’arte medica occidentale: un medico che costruisce la sua fortuna sulla stoltezza di una massa che approva le sue false conoscenze.

Un cattivo calzolaio, ridotto in miseria, si mise a esercitare la medicina in un paese dove non era conosciuto, e continuando a spacciare un antidoto, falso di nome e di fatto, si procurò con le sue abili chiacchiere una certa fama. Ora avvenne che il re della città fosse costretto a letto, sfinito da una grave malattia; questi, per metterlo alla prova, chiese un bicchiere, vi versò dell’acqua, fingendo di mescolare del veleno con l’antidoto e gli comandò di berlo fino in fondo, dopo avergli promesso un premio. Per paura di morire, lui allora confessò di essere diventato famoso come medico non già per una qualche competenza di quest’arte, ma per la stupidità della gente. Il re convocò quindi il popolo e pronunciò queste parole: «Che pazzia è la vostra? Riuscite a capirlo voi che non esitate ad affidare la vostra testa a uno cui nessuno ha mai consegnato i piedi da calzare?».
Direi che questo racconto riguarda coloro la cui stoltezza è occasione di guadagno per gli imbroglioni.

Fedro

Non c’è Oscar senza handicap

Il cinema ha svolto un ruolo essenziale nel rendere la disabilità visibile al grande pubblico. Spesso, tuttavia, lo ha fatto sfruttando gli stessi stereotipi che avrebbe dovuto sovvertire. Il tema è oggetto di un capitolo del volume “Il Superdisabile. Analisi di un stereotipo”.

Il cinema ha svolto un ruolo essenziale nel rendere la disabilità visibile al grande pubblico, ancorché spesso lo abbia fatto sfruttando gli stessi stereotipi che avrebbe dovuto sovvertire.

Freaks è in qualche modo l’opera che nel 1932 apre questa strada: ambientato nel mondo del circo, è interpretato da attori con disabilità reali, a partire dalla coppia di nani protagonista del film di Tod Browning. Hans è fidanzato con Frieda ma si invaghisce della trapezista Cleopatra che, d’accordo con l’“uomo forzuto” Ercole, tenta di ingannare e derubare lo spasimante. In realtà il nanismo non viene legato a una particolare connotazione morale nella pellicola, che diventa anzi l’occasione per mostrare come i mondi dei “normodotati” e delle persone disabili non siano così distanti, come entrambi provino sentimenti e compiano azioni simili, nel bene e nel male. Il film ha però un esito travagliato: la crudezza e il realismo provocano turbamenti e malori ad alcuni spettatori e la Metro Goldwyn Mayerche lo aveva prodott o, pensandolo come un horror di facile incasso, sottopone la pellicola a 26 minuti di tagli, eliminando tra l’altro la scena in cui Ercole viene evirato e il finale dove si esibisce cantando in falsetto. Il film è comunque rimasto un cult delle proiezioni underground e nei primi anni ‘60 è stato ripresentato al Festival di Venezia. Un’altra pellicola del1953 esplicitamente ispirata al circo Barnum, Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille, vince l’Oscar raccogliendo diversi altri riconoscimenti e nomination.

Il cinema del secondo dopoguerra racconta ovviamente anche la menomazione dovuta al conflitto, inserendosi nel filone cinematografico che narra storie di disabilità acquisite in cui i protagonisti sono principalmente di sesso maschile. Basti pensare a I migliori anni della nostra vita, vincitore nel 1947 di ben sette Oscar, in cui no degli attori, Harold Russel che interpreta il reduce Homer Parrish, è veramente privo di entrambe le mani.

Altro capolavoro sulle mutilazioni di guerra è Tornando a casa, diretto da Hal Ashby nel 1978 e interpretato da Jane Fonda e Jon Voight, entrambi premiati con l’Oscar, cui si aggiunge quello per la sceneggiatura. Nel 1989 è la volta di Nato il quattro luglio diretto da Oliver Stone, Oscar per la regia, il cui protagonista è un ex marine in carrozzina che da eroe di guerra si trasforma in militante pacifista. Pellicole in cui corrono in parallelo l’elemento psico-fisico, relativo all’identità mutata e mutilata del personaggio che deve rinunciare alla propria indipendenza e accettare la nuova condizione, e quello sociale, relativo dalla difficoltà del reduce di reinserirsi nel proprio ambiente di vita e nelle relazioni con gli altri.

Tra i moltissimi, un film spartiacque è poi Anna dei miracoli, del 1962, che racconta la sorprendente rieducazione della piccola Helen Keller, cieca e sordomuta dall’età di sei mesi, da parte dell’educatrice Annie Sullivan. Nel 1981 riceve ben otto candidature agli Academy Award The Elephant Man. La storia, che ha un tale successo da approdare anche a Broadway, con David Bowie nei panni del protagonista, ripercorre la vita di Joseph Merrick: nato con la sindrome di Proteo che comporta deformazioni sul corpo e in viso, al punto da andare in giro con un sacco in testa per non spaventare i passanti, mostra una tale sensibilità che la regina Vittoria apre un fondo per pagargli le cure.

Dal 1976, su 269 candidati e 44 vincitori all’Oscar come Miglior film dell’anno, rispettivamente 51 e 14 riguardano storie di disabilità. Ma se allarghiamo l’inquadratura ad altre patologie e categorie premiate le cifre sono ancora più significative. Basti pensare a Tom Hanks malato di AIDS in Philadelphia, migliore attore protagonista; Julianne Moore che racconta l’Alzheimer in Still Alice, migliore attrice protagonista; Al Pacino che conquista l’Academy Award solo all’ottava nomination per l’interpretazione del militare cieco in Scent of a Woman, remake dell’italiano Profumo di donna, dove a vestire la divisa era Vittorio Gassman.

Solo nel 2021 sono stati candidati tre film – The Father, Minari e Sound Of Metal – accomunati dalla disabilità del protagonista o di un personaggio principale. Secondo Rosalba Perrotta, docente di Sociologia presso l’Università di Catania, «l’handicap, al cinema, o diventa celebrazione della differenza, opponendosi agli stereotipi, oppure si fa tramite di una diversa coniugazione delle ideologie dominanti, consolidando i pregiudizi condivisi».

[…]

Il tema della patologia, della disabilità, della malattia, è stato affrontato sul grande schermo nei generi più vari: dal dramma di Million Dollar Baby alla ricostruzione storica de Il paziente inglese; dalle autobiografie,
come La teoria del tutto o Il discorso del re, che narrano rispettivamente le vite dello scienziato Stephen Hawking e del balbuziente re Giorgio VI, alla comicità di Perdiamoci di vista di Carlo Verdone, che con Asia Argento in sedia a rotelle vincerà un David di Donatello; dal premiatissimo horror Il silenzio degli innocenti alla fantascienza con La forma dell’acqua. In quest’ultimo genere la disabilità ha trovato ampio spazio: gli handicap dei supereroi spesso fanno da contrappasso ai loro poteri, come con la cecità
di Daredevil che in qualche modo richiama la figura di Tiresia, profeta e indovino della tragedia greca.

Caso davvero particolare è quello di Christopher Reeve, Superman degli anni ‘80 che, paralizzato dal collo in giù per una caduta da cavallo, ha recitato in carrozzina nel remake del thriller di Alfred Hitchcock La Finestra sul Cortile. Il titolo della sua autobiografia Still Me è un gioco di parole: still significa infatti sia “ancora” che “immobile”. Un altro film costruito sulla reale disabilità dell’interprete è Figli di un Dio minore con cui Marlee Matlin, sorda anche nella realtà, ha vinto la statuetta quale migliore protagonista.

Nella maggioranza dei casi, però, a coprire il ruolo del personaggio disabile viene chiamato un attore “normodotato”, modificandone l’aspetto con allenamenti e diete, oltre che con make up ed effetti speciali. Eddie Redmayne, per interpretare Stephen Hawking, ha perso circa 15 kg e incontrato decine di malati di SLA per osservarne i movimenti. Scelte che causano polemiche inevitabili, espresse dal motto Nothing about us without us: niente che ci riguardi senza di noi.

Katy Sullivan, attrice e campionessa paralimpica priva degli arti inferiori, dopo la scelta di Dwayne Johnson di interpretare il ruolo di un supereroe disabile in Skyscraper ha rivolto un appello alle star hollywoodiane: Sembra esserci una mancanza di sdegno sociale per gli attori normodotati che interpretano personaggi disabili. In effetti, sono spesso celebrati, dai Golden Globes agli Oscar, per aver assunto questo “materiale difficile”. È questa mancanza di autenticità che continua a rendere i disabili
invisibili, me inclusa. […] E i dirigenti e i produttori non sembrano fare nulla per cambiare le cose velocemente, per questo mi rivolgo a te. […] la prossima volta che ti verrà presentata l’opportunità di ritrarre un personaggio la cui esperienza di vita include una sorta di disabilità, per favore considera di dire “No”.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni

Il fascino ambiguo del “mostro”

“Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. Al tema è dedicato un capitolo del volume “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo”.

Quando un individuo diventa “anormale” per la società? “Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. La categoria del “mostruoso” tassonomicamente nasce per contrapposizione, accogliendo il diverso, lo sconosciuto, l’anomalo, l’anormale. Ed esercita un’ambigua fascinazione che spesso diventa atteggiamento giudicante, stigma, allarme.

Nella letteratura i richiami alle disabilità e alle deformità sono frequenti, sin dagli esordi: nell’Olimpo Efesto, dio del fuoco e marito di Afrodite, è descritto come “storpio” e oggetto di burle: «questo ci ricorda che gli zoppi erano originariamente visti come personaggi buffi», avverte Leslie Fiedler, evidenziando la differenza con l’atteggiamento invalso nei secoli seguenti, quando il “diverso” sarà spesso associato a malvagità e timore. Visioni rappresentate, ad esempio, dallo “storpio” e machiavellico sovrano Riccardo III di Shakespeare; da Quilp, il “nano mostruoso” in agguato contro Little Nell nella Bottega dell’antiquario di Charles Dickens; dall’animo inaridito del capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville, con una gamba sola; dal suo omologo assassino Long John Silver, nell’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson.

E ancora, il “deforme” e spietato Roger Chillingworth nella Lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, il
Capitano Uncino ritratto da James Barrie nel Peter Pan, il “gobbo” di Notre Dame de Paris di Victor Hugo. Il campionario negativo delle persone menomate e con deformità è ricco quanto quello compassionevole, presente soprattutto nella letteratura infantile. Si pensi alla sopravvivenza finale del piccolo Tim nella Favola di Natale di Dickens, intenzionata a convincerci che il disagio della disabilità può sempre essere alleviato o risolto dalla filantropia.

Ma, ammonisce Fiedler, «altri racconti incentrati su guarigioni quasi miracolose (come Heidi e il Giardino Segreto) rivelano similitudini impressionanti con le storie basate sulla paura: è il desiderio che non esistano handicappati e che finalmente spariscano tutti».

Lorenzo Montemagno Ciseri, analizzando figure reali, mitologiche e letterarie identifica la dimensione come uno degli elementi determinanti del mostruoso: si pensi solo agli esseri giganteschi e minuscoli in cui si imbatte Gulliver. Tante soprattutto «le figure di giganti che caratterizzano il Medioevo occidentale, a cominciare da quella del mostruoso Grendel nemico dell’umanità e protagonista diabolico del Beowulf» per arrivare alla Commedia di Dante, che cristallizza più di ogni altra opera «nel nostro immaginario le figure dei mostri infernali».

Analoga morbosità, curiosità e interesse letterario si legano alle persone più piccole, come i Pigmei citati già in Omero, mentre Aristotele nei Problemi si interroga sul motivo che porta alla nascita di uomini nani
e, più in generale, di creature più grandi e più piccole, rispondendo che due sono i possibili motivi: lo spazio in cui si sviluppa l’embrione o il suo nutrimento. La poesia “Judge Selah Lively” tratta dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, nella trasposizione di Fabrizio De Andrè del 1971, descrive un nano con una famosa strofa che è forse la più feroce e fedele espressione dello stigma: «una carogna, di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo».

In altri casi l’atteggiamento è quanto meno formalmente diverso. Il reality show “Our Little Family”, in onda anche in Italia con il titolo di “Una famiglia extra small”, vede protagonista Michelle Hamill con i suoi
tre figli, tutti con nanismo. Sempre su Real Time ha avuto un notevole successo, tanto da aver già inanellato nove stagioni, “Questo piccolo grande amore”, serie che racconta la storia di Bill Klein e di Jennifer Arnold, una coppia di persone nane. E rimane nella memoria di tutti gli amanti del jazz il pianista Michel Antoine Petrucciani (1962-1999), con una osteogenesi imperfetta, patologia ereditaria nota come “sindrome delle ossa di cristallo”, spesso definito per contrappasso come un “gigante”.

Da osservare a margine come, con la pandemia di Covid-19, il mondo sia stato sconvolto dall’aggressività di microrganismi, mentre la letteratura distopica e fantascientifica preferisce immaginare nemici macroscopici, in genere più grandi e forti degli esseri umani.

Michel Foucault stabilisce un nesso tra il pregiudizio socio-culturale e le categorie etico-giuridiche:
Il mostro è una violazione delle leggi e della natura che fa cadere il modello di essere umano, la legge si trova davanti all’impossibilità di concettualizzare secondo natura ciò che egli è […] è un essere che non rientra nelle categorie morali e questo stravolge, allarma il diritto che non riesce a funzionare. L’ausilio arriva dal sapere medico che differenzia ciò che è mostruoso per natura, che è più giustificante, da ciò che è mostruoso per la condotta.

Ma anche l’approccio scientifico non risolve la questione, secondo Focault, poiché con le perizie psichiatriche «si seleziona una mostruosità morale e da qui parte la storia di questo concetto che ne porterà un altro: quello della perversione»


Su una tavoletta d’argilla babilonese risalente al 2800 a.C. si distingue tra mostri: per eccesso, ad esempio con sei dita; per difetto, cioè mancanti di un organo; doppi, come i gemelli siamesi. Non meno antiche sono le prime immagini del genere: la Venere di Willendorf, raffigura una donna steatopigia, cioè con una spiccata lordosi lombare.

Secondo Fiedler rappresentazioni simili sono frutto dell’osservazione di esseri umani con anomalie fisiche e per questo eretti a divinità: la famosa statuetta paleolitica simbolo di fertilità, risalente al 23.000-19.000 a.C., «ritrae con precisione quasi clinica» una donna obesa «diencefaloendocrina con ipertonia parasintomatica, sterilità e riduzione della libido», mentre «altri mostri, ritenuti per molto tempo puramente fantastici, possono essere stati dei tentativi di rappresentare anomalie riscontrabili soltanto nei feti abortiti».

La teoria è insomma che «l’osservazione delle malformazioni umane precedette la creazione dei mostri mitici». Nella maggior parte dei casi, però, le nascite di bambini con deformità venivano interpretate come presagio di malaugurio e portavano all’infanticidio. La stessa parola “mostro” porta con sé questa duplicità: il latino monstrum, cioè “segno degli dèi”, rimanda alla stessa radice di monstrare e di monere, ammonire, mettere in guardia.

Con l’Illuminismo la connotazione magico-religiosa del corpo mostruoso comincia a cedere all’analisi scientifica. In particolare Cesare Taruffi, professore di Anatomia patologica nell’Università di Bologna dal
1859 al 1894 e autore della prima “Storia della Teratologia” (dal greco τέρας, “mostro”), inaugura gli studi delle patologie legate a somatizzazioni corporee anomale. E proprio in questo periodo nasce anche il freak show, come se lo spettacolo facesse da versione popolare della speculazione scientifica.

Comunque anche nei secoli successivi e persino oggi, in una società scientificamente molto più avanzata, non di rado si scivola nello stesso ambiguo obiettivo di suscitare attrazione. Varie forme di spettacolarizzazione della diversità sono presenti nel cinema, nella televisione, nei nuovi media,
magari con l’intento di sensibilizzare i pubblici sul tema delle disabilità.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni


Vecchio a chi?

La giovanilistica società di oggi influenza il nostro modo di percepire la “terza età”: da fase esistenziale della saggezza e dell’agognato riposo, conquistato dopo anni di lavoro, è talvolta temuta come momento di decadimento fisico, solitudine, disagio per la mancanza di autonomia. Anche a causa dell’aumento della longevità e dell’età media. Tuttavia, i progressi della medicina dovrebbero farci affrontare questo periodo con più serenità rispetto al passato


“A Peppì nun me coprì quelle rughe che c’ho messo tanto tempo a falle!”. Anna Magnani, emblema del cinema neorealistico, sul set così si rivolse a un truccatore, confermando il suo personale modo di intendere l’arte come vita, oltre a un carattere schietto, capace di guardare in faccia la realtà. Tale reazione oggi suona come una beffa al dilagare dei rimedi per contrastare i segni dello scorrere del tempo sul nostro corpo e in particolare sul viso: dagli interventi chirurgici all’uso di prodotti dermatologici, alle ore dedicate all’esercizio fisico. “La paura di invecchiare è drammaticamente doversi confrontare con l’immagine che ci siamo costruiti di noi stessi e che gradualmente cambia. Questa lettura la facciamo soprattutto sul territorio di confine mondo esterno-interno che è la pelle con i suoi annessi cutanei: capelli, peli, unghie, ghiandole sudoripare, sebacee”, spiega Gennaro Spera già dermatologo del Consiglio nazionale delle ricerche. “Pensiamo ad esempio al primo segnale di invecchiamento che è l’incanutimento o in altri casi, soprattutto maschili, alla calvizie. E poi l’attenzione si accentua sulle rughe”.

Tale paura, al di là di un fatto estetico, può celare ansie più profonde come quella di essere abbandonati, di perdere l’autonomia o la gradevolezza agli occhi degli altri, finendo per essere emarginati. Tali problematiche sono racchiuse nel termine gerascofobia che interessa una popolazione sempre più ampia, anche a causa  del calo demografico e dell’aumento della popolazione nella “terza età”. In contrapposizione a questo trend, la società contemporanea esalta l’efficientismo, la carriera, il giovanilismo e il corpo fino al parossismo, mettendo in crisi anche  quella fase della vita in cui “la frenesia della vita giovanile si zittisce in riflessioni sul senso delle cose, in un riflettere che riassume una lunga esperienza e che forse arriva a rispondere alle tante domande che si suole fare in gioventù”, afferma lo scrittore Michel Houellebecq, che mette in luce la crisi di valori dell’Occidente  nel romanzo “La possibilità di un’isola” (2005 Bompiani), dove ha indagato  la relazione tra gioventù e terza età, bellezza e decadenza fisica.

Fino all’epoca preindustriale la vecchiaia era l’equivalente di saggezza, ponderatezza esperienza da elargire alle nuove generazioni, valori testimoniati ad esempio nei celebri film “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi e in “Novecento” di Bernardo Bertolucci. Andando indietro nel tempo, in epoca romana la dignità della figura dell’anziano era un valore condiviso nella società, soprattutto in età repubblicana dove la sua parola aveva un grande peso nelle scelte. Cicerone nel “De Senectute”, trattato scritto nel 44 a.C., si serve della figura di Catone il Vecchio per difendere le virtù della senilità, opponendosi ai luoghi comuni che la definiscono come periodo di decadenza. A partire dall’età imperiale, i poeti elegiaci guardano il tempo che passa inesorabilmente sottraendoci i piaceri e la bellezza, e la satira, come quella di Marziale, diventa caustica nei confronti di coloro che non si rassegnano alle conseguenze dell’età e si crogiolano in atteggiamenti esuberanti.

L’iconografia artistica ha sempre celebrato la bellezza, la grazia, l’armonia del corpo. Nelle scene che ritraggono la Visitazione, come quella dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni o nel gruppo Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino dipinto da Leonardo da Vinci (Museo del Louvre, 1510-1513), Marta e Anna, entrambe avanti negli anni, hanno sempre un aspetto nobile che delicatamente suggerisce un età più matura. Donatello rompe questa consuetudine proponendo una Maddalena (Museo dell’Opera del Duomo, 1453-55) emaciata, consunta dall’età e dalla povertà: ossuta e sdentata  comunica il senso del riscatto cristiano nella sofferenza. Allude invece alla vanità “La vecchia” di Giorgione (Gallerie dell’Accademia a Venezia,1506), figura che regge un cartiglio con il motto “Col tempo”, e, passando per il realismo rivoluzionario di Caravaggio, notiamo come  il  pittore olandese Rembrandt van Rijn, tra i molti autoritratti che eseguì ebbe il coraggio di rappresentarsi anche nella fase meno esaltante della sua vita (Autoritratto del 1669 nel museo Mauritshuis, L’Aja), appesantito dalle rughe e incorniciato dalla canizie. La pittura del Novecento enfatizza il senso di disagio, la solitudine, il declino fisico: ne “Le tre età della donna” di Gustav Klimt (Galleria nazionale d’srte moderna di Roma,1905) l’anziana si copre gli occhi con la mano in un gesto di vergogna; Angelo Morbelli (1853-1919) offre una tematizzazione della senilità con un ciclo di opere ritraendo persone dentro ospizi. Passando ai ritratti di Lucian Freud (1922-2011), osserviamo che la forza espressionistica dell’artista indugia anche sulla crudezza di particolari di volti non più giovani.

Oggi la cura del corpo è diventata una voce attiva del marketing. “L’industria cosmetica in Italia ha un fatturato di circa 10.000 milioni di euro, di cui le sole tinture dei capelli 300”, commenta Spera. “La psicosomatica dermatologica ha da sempre sottolineato come la pelle è il territorio dove avviene la ‘superficializzazione’ di situazioni conflittuali nascoste. Sulle rughe cosiddette di espressione si cerca di agire con la tossina che ‘paralizza’ e toglie una parte della nostra mimica; altro presidio sono i filler ‘riempitivi’ che ‘spianano’ gli antiestetici solchi nel volto. C’è poi l’intervento più invasivo che è il lifting, che nella mente dell’individuo spesso viene considerato come rimedio che fissa per sempre la propria immagine. Bisogna però ricordare che la nostra fisicità è data non solo dalle fattezze morfologiche, ma anche dal complesso della mimica, della gestualità e di molte altre componenti. Pertanto ogni intervento di contrasto all’invecchiamento deve essere attuato cercando di preservare al massimo la propria identità”.

Se non è possibile ostacolare il processo naturale, possiamo affrontare con più serenità la terza età grazie ai progressi della medicina e al miglioramento dello stile di vita. “Nel 1970, l’aspettativa di vita era di 69 anni per l’uomo e di 75 per la donna. Nel 2019, prima della pandemia, eravamo arrivati rispettivamente a 81 e a 85,5; questo traguardo si deve a vari fattori, quali la netta riduzione dei fumatori, l’aumento delle persone che praticano attività fisica, la capacità di diagnosi strumentali sempre più esatte e precoci, farmaci a nostra disposizione, tecniche chirurgiche che hanno reso fattibili e più sicuri interventi che apparivano complessi o, addirittura, non praticabili”, spiega Roberto Volpe dell’Unità prevenzione e protezione del Cnr. “Certo, purtroppo, la maggiore longevità non si accompagna sempre ad anni in salute fisica e/o mentale e, anzi, facilmente si assiste a un decadimento cerebrale, come  la demenza legata a fattori di rischio, combattendo i quali possiamo provare a prevenirla. A tal riguardo, va ricordato come la Dieta mediterranea, apportando vitamine e polifenoli ad azione antiossidante, appare in grado di contrastare i danni dei radicali liberi causa di un invecchiamento patologico e, presentando un buon contenuto in acidi grassi monoinsaturi (presenti nell’olio di oliva) e in grassi omega-3 (pesce, noci), concorre al mantenimento della struttura delle membrane delle cellule nervose. Ma anche l’attività fisica è fondamentale nella terza età: anche un esercizio fisico moderato come il camminare o fare la cyclette può stimolare l’ippocampo, la struttura del cervello deputata alla memoria, e migliorarla. Pertanto, una longevità di qualità è possibile”.

Insomma, se si sopportano bene gli acciacchi dell’età, “vecchio è chi ci si sente”, per dirla con la regina di Inghilterra che a 95 anni ha rifiutato un premio per gli anziani dalla rivista britannica “The Oldie”.

Sandra Fiore

Fonte: Almanacco CNR-Focus-Vecchio a chi?

Attraverso l’arte e le discipline umanistiche è possibile conoscere lo sviluppo dei metodi di cura e i ruoli degli operatori sanitari nel corso dei secoli. Tale bagaglio è un prezioso patrimonio per la professione medico e sanitaria, perché crea empatia e una corretta relazione con il paziente. Il volume di Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma, illustra la storia di questa complessa materia e le sue applicazioni


Le Medical humanities cosa sono e a cosa servono? Lo spiega il volume “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria” (Aracne editore), scritto da Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma e pioniera nell’insegnamento di questa disciplina che è una “sinergia” di materie di studio assai differenti. “La definizione, utilizzata in un campo interdisciplinare della medicina e in generale della cura, include la letteratura, filosofia, storia e religione, le scienze sociali (antropologia, psicologia e sociologia), le arti (letteratura, teatro, film e arti visive) e la loro applicazione sia nell’educazione medica che nella pratica clinica”, spiega l’autrice. Già nel 1994, in un articolo scientifico apparso negli Stati Uniti, veniva sottolineato che l’assistenza infermieristica non può svilupparsi da un background basato esclusivamente sulle scienze fisiche e sociali. Il personale sanitario, grazie a questi studi, può ridurre il gap nel rapporto con i pazienti e “umanizzare” la cura, superando una visione esclusivamente biomedica della professione. Dal 2014 è stata istituito presso l’Università di Roma un gruppo di ricerca per applicare il metodo nell’ambito della Medical education, cui è dedicato un laboratorio diretto dalla stessa Ferrara; è stata attivata una sperimentazione nei corsi di laurea in Medicina, Scienze infermieristiche e nella formazione specifica in Medicina generale.

Nello scorrere le pagine del libro sorprende rilevare quanto resti archeologici, sculture, dipinti, possano testimoniare lo sviluppo della scienza medica e l’affinarsi dello sguardo dell’artista nel ritrarre anche le imperfezioni del corpo umano, elementi che consentono di comprendere la diffusione di alcune patologie nel passato, campo di indagine dell’icodiagnostica. Basta andare nell’antica Grecia, dove gli anatomisti chiedevano aiuto agli artisti, “la dissezione era praticata sui corpi degli animali, mentre era vietato esplorare l’anatomia umana per motivi sociali e religiosi… Solo due medici ellenistici, che hanno operato ad Alessandria d’Egitto circa tra il 330 e il 240 a.C., sono noti non solo per l’uso della dissezione sistematica dei cadaveri, ma anche per la pratica della vivisezione sperimentale condotta sui condannati a morte: Erofilo ed Erasistrato”.

Nel Discobolo (copia del secolo II d.C. da originale greco del V secolo a.C.), conservato al Museo nazionale romano in Palazzo Massimo, ammiriamo i gruppi muscolari dell’atleta ritratti nell’atto di partecipare al movimento. Nei corso dei secoli, molti pittori – da Leonardo da Vinci a Michelangelo a Raffaello – hanno approfondito l’esame delle parti del corpo. Nel XVI secolo Bartolomeo Passarotti realizzò il dipinto “Lezione di anatomia per artisti” (Galleria Borghese, Roma) e Rembrandt nel 1632 raffigurò il dottor Tulp mentre mostra l’anatomia del braccio di un condannato a morte (Mauritshuis, L’Aia). L’autrice cita altri esempi di legame tra arte e medicina, che si traducono nelle modalità di riprodurre e conservare i corpi, quali la ceroplastica anatomica e la recente plastinazione, messa a punto da Gunther von Hagens. La rappresentazione della cura nell’arte, conclude Ferrara, è stimolante anche per lo sviluppo dell’empatia e della relazione tra personale di cura e paziente.

Sandra Fiore



Vincenza Ferrara, “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria”, Aracne (2020)

Fonte Almanacco CNR-Recensioni-Le Humanities per la pratica medica

L’arte vista con occhio clinico



Prosegue il viaggio di Giorgio Weber, professore ordinario e direttore dell’Istituto di anatomia e istologia patologica nell’Università di Siena dal 1968 al 1993, nell’indagine dell’arte vista non con l’occhio del critico e dell’esteta, ma con quello dell’anatomopatologo


Dopo il primo volume del 2011, ‘Mal d’arte’ in cui aveva cominciato il suo percorso di contaminazione tra l’ambito scientifico e quello artistico, Weber torna con ‘Le voci della materia. Patologo tra gli artisti’ a porre ulteriori interrogativi e osservazioni, sottolineando come la malattia abbia un ruolo chiave nella resa emozionale delle opere.

L’attenzione si focalizza quindi sullo storpio dell’affresco inserito da Masaccio nella Cappella Brancacci, sul corpo del putto del Chiostro Verde in Santa Maria Novella a Firenze, sulle mani segnate dall’artrite nel ritratto con cui Pontormo omaggia Cosimo il Vecchio e sul pallore sinistramente cianotico che caratterizza il celebre volto della Venere di Botticelli.

L’analisi dell’anatomopatologo, oltre a coinvolgere artisti come Albrecht Dürer, Paolo Uccello, Lucien Freud e Francis Bacon, si concentra sulle produzione letterarie di autori come Ariosto, Omero e Petrarca. L’intento è quello di creare un ponte tra la raffigurazione estetica e l’evoluzione scientifica, in maniera provocatoria e coinvolgente.

Weber Giorgio, Le voci della materia. Patologo tra gli artisti, Mauro Pagliai Editore

Alla ricerca dell’arte perduta

Tate e Channel4, con l’appoggio dell’Arts & Humanities Research Council britannico, hanno deciso di dare vita a un nuovo progetto culturale: raccogliere, in un’esposizione virtuale, le opere dell’arte contemporanea non più visibili, per illustrare, attraverso il tema dell’oblio, della perdita, volontaria o involontaria, il rapporto dell’arte contemporanea con il tempo


Tate e Channel4, con l’appoggio dell’Arts & Humanities Research Council britannico, hanno deciso di dare vita a un nuovo progetto culturale: raccogliere, in un’esposizione virtuale, le opere dell’arte contemporanea non più visibili, per illustrare, attraverso il tema dell’oblio, della perdita, volontaria o involontaria, il rapporto dell’arte contemporanea con il tempo. Da questa idea è nato il sito web ‘Gallery of lost art‘, sviluppato in tecnologia Flash, elegante e artisticamente molto curato.

Gallery of lost art‘ si presenta con una landing page che rappresenta un grande open space, visto dall’alto, navigabile come una mappa di Google. Una serie di aree tracciate sul pavimento circoscrive alcuni piani di lavoro, attorno ai quali si aggirano figure umane. A terra e sui tavoli sono raggruppate le immagini delle opere d’arte in base alle cause di sparizione: distrutte, rifiutate, effimere, rubate, perdute, etc.

Cliccando sull’immagine di un’opera, si accede alla sua scheda informativa: immagini, testo e contenuti multimediali. Possiamo così informarci non solo sulla scomparsa di ‘Fountain’ di Duchamp, il famoso orinatoio proposto nel 1917 alla mostra inaugurale della Society of Independent Artists di New York, diventato pilastro e simbolo del dadaismo, ma anche sulla scomparsa di opere di Frida Kahlo e Lucian Freud, e sull’incredibile furto del colossale bronzo ‘Reclining Figure’ di Henry Moore, sottratto la notte dell’1 dicembre 2005 dai giardini dell’Henry Moore Foundation, valutato circa 3 milioni di sterline, fuso dai ladri per il mero valore del bronzo.

Gallery of lost art‘ è un sito in progressivo allestimento: intende aggiungere un nuovo pezzo a settimana. Terminato il suo periodo di vita, stabilito in 12 mesi, svanirà, replicando l’oblio proprio delle forme d’arte che ospita.

In questo secolo senza più assoluti, dominato da una sempre più vistosa precarietà esistenziale, l’arte e la sua concezione intellettuale cedono sempre più a quel sentimento di provvisorietà che tutto pervade. Se l’artista, per Michaux, era colui che resiste con tutte le sue forze alla pulsione fondamentale di non lasciare tracce, questa consapevolezza viene ormai meno, e l’arte, e chi ne ragiona, pare aver ormai deciso di non persistere oltre nella difesa della perennità.

Claudio Barchesi


Gallery of lost art, Multimediale, editore Tate e Channel4