Apocalisse. Vivere la catastrofe, immaginare il futuro

Durante la fase più acuta dell’epidemia da Covid-19, gli studiosi dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico (Ispf) del Consiglio Nazionale delle ricerche ha riunito nello Speciale “Pandemia. Osservatorio filosofico” una serie di contributi di natura umanistica sul tema. Qui il ricercatore Roberto Evangelista ripercorre l’approccio al tema della crisi nella storia.

Nel corso della sua storia l’umanità ha sempre attraversato crisi enormi. Ricostruire la memoria della civiltà umana vuol dire probabilmente ricostruire il filo delle soluzioni trovate, di volta in volta, per risolvere la possibilità della fine.

Una umanità senza strumenti, chiusa in mondi piccoli e spesso autosufficienti (ma meglio sarebbe dire, autistici) si scontrava facilmente con momenti critici. Difficile, per esempio, era immaginare che il grano falciato ricrescesse; difficile era immaginare la certezza di una discendenza; complicato era gestire la demografia. E se complessa poteva essere la tenuta dei costumi morali di una comunità, impossibile doveva sembrare gestire catastrofi naturali o sconosciute malattie. Non dobbiamo andare troppo lontano, per immaginare cosa può aver significato per le popolazioni precolombiane l’incontro con virus e batteri sconosciuti e portati dai conquistatori.

Spinoza, all’inizio del suo Trattato teologico-politico ci ricorda che se l’uomo potesse con certezza governare gli eventi e gli sconvolgimenti della natura, non sarebbe soggetto ad alcuna superstizione. Questo è vero, ma non significa che la razionalità e la conoscenza della natura sono gli unici strumenti che possono metterci in uno stato di sicurezza. Certo, conoscere la natura aiuta a prevenirne le insidie, ma nel frattempo che la nostra conoscenza aumenta e aumentando si scontra con nuovi e inimmaginabili dubbi, l’umanità ha dovuto, per non abbandonarsi al delirio della superstizione, trovare strategie di reazione che compensassero quella mancanza di conoscenza. Se a questo aggiungiamo, poi, che la conoscenza e il completo governo della natura non li raggiungeremo mai, ecco che evidentemente alcune strategie, diciamo superstiziose, continuano a mantenersi attive e a compensare la nostra conoscenza parziale delle cose.

L’umanità ha trovato una strada per reagire alle crisi: raccontarsi storie. Non bugie, proprio storie, miti, favole. Storie di riscatto, oppure di sconfitta, storie nelle quali si prefiguravano i problemi e le soluzioni di una crisi. Storie nelle quali potevano essere proposte le diverse possibilità, i diversi destini umani, per provarsi a scegliere, a immaginare e magari a costruire un futuro. A questi racconti venivano spesso accompagnate ritualità di diverso genere: rappresentazioni o feste collettive, che rendevano quel racconto operativo, ovvero funzionale a stringere la comunità e interiorizzare un certo tipo di messaggio.

La funzione più importante dei miti non veniva assolta dal contenuto della storia che veniva raccontata. La funzione più importante del mito era il racconto stesso, e la sua condivisione. Italo Calvino, nella sua introduzione a Fiabe italiane, ci ricorda che le fiabe sono vere, perché contengono tutto il catalogo dei destini umani e delle possibilità. Percorrere insieme questo catalogo, però, non voleva dire avere semplicemente una maggiore cognizione di quello che poteva accadere, e prepararsi al peggio. Non importa quanto le favole venissero credute vere, o quanto ci fosse di “materialmente” vero nel loro contenuto; ciò che importava, era rafforzare e confermare il legame sociale, perché questa era l’unica risposta che si poteva dare in assenza di altri mezzi. E non era una risposta banale, né semplice, né tantomeno inefficace. È probabilmente questo tipo di risorsa che in un certo momento ci ha garantito la sopravvivenza: la facoltà di immaginare un futuro anche nei momenti più difficili.

Reagire a una crisi che mette in discussione la nostra presenza come genere umano, ci ha permesso di costruire edifici culturali che hanno fondato le comunità e le società umane. E questo, probabilmente, fa la differenza tra la nostra specie e le altre.

Ma da un certo momento in poi, cambiano molte cose: entrano nuove abitudini, e altre vengono svuotate di significato. D’altra parte, La nascita della famiglia, della società civile e dello Stato di Engels ci ha già permesso di riflettere su quanto il passaggio da una società comunitaria a una società divisa in classi abbia reso l’edificio culturale uno strumento di dominazione: il passaggio da una società matriarcale e comunitaria, a una società patriarcale e suddivisa in dominanti e dominati ha imposto una strutturazione dello Stato, con regole ferree a garanzia delle quali venivano posti sacerdoti o magistrati che amministravano la giustizia divina e umana, funzionale soprattutto a mantenere uno status quo non del tutto naturale.

Rimanendo, però, più ancorati al nostro tempo, ritroviamo, nei lavori principali di Ernesto De Martino (al quale queste righe sono fortemente debitrici) una inoppugnabile ricostruzione della resistenza di istituti culturali propri del mondo popolare e contadino, e del loro essere rivelatori di una posizione di subalternità di chi si trovava ai margini del “miracolo economico”. A fondamento di questo riferimento, c’è l’introduzione di un modo diverso di produzione che ha sconvolto i rapporti sociali. La fine della civiltà feudale e l’alba del mondo borghese ha significato la possibilità di una produzione su larga scala di beni essenziali che precedentemente venivano reperiti e fabbricati con molta difficoltà, e ha anche permesso la liberazione da alcune forme culturali che erano diventate una pesante zavorra, non solo per il nostro spirito.

La diversa organizzazione del lavoro produttivo ha significato un avanzamento scientifico, e questo ci ha permesso di prendere in considerazione l’ipotesi che le forze numinose che guidavano l’umanità produttrice di miti non ci avrebbero più salvato, perché questa incombenza spettava a noi (bisogna riconoscere, senza poter approfondire, che anche il cristianesimo ha avuto un ruolo in questo passaggio). La natura è diventata a mano a mano governabile, e allo stesso tempo gli dei e gli eroi dei miti sono caduti, si sono rivelati per essere solo proiezioni dell’essere umano. Si è avanzata la sottile percezione (non sempre, anzi quasi mai seguita da un atteggiamento coerente) che il peso del nostro destino fosse solo sulle nostre spalle. Ma questa consapevolezza, invece di arricchirci, ci ha in qualche modo impoverito. La distruzione delle vecchie certezze non ci ha permesso di crearne di nuove, e ci siamo trovati di fronte a due vicoli ciechi: ripercorrere le vecchie strade, oppure affidarci a una scienza anonima e senza volto.

Ma la scienza, da sola, non basta. Certo, la nostra vita è migliorata sotto molti aspetti. Ma questo miglioramento nella maggior parte dei casi è solo potenziale. L’uso che facciamo della scienza e della nostra capacità di governare gli eventi è del tutto sottostimato, tanto più che l’accesso al benessere che molte conquiste scientifiche rappresenterebbero è ben lontano dall’essere comune e condiviso. Questa “preclusione al progresso” ci getta in una condizione di miseria culturale, nella quale abbiamo abbandonato il vecchio modo di descrivere la realtà e di risolvere i conflitti comuni, ma non ne abbiamo trovato uno altrettanto efficace, o adeguato alle sfide che sono diventate probabilmente più complesse.

Lo capiamo meglio, se guardiamo a come abbiamo reagito alla pandemia da Coronavirus. Bisogna, per descrivere la nostra reazione, guardare alle immagini giuste. L’eccezionalità dell’evento che in poco tempo ci ha fatto precipitare in una condizione impensabile, ha prodotto un sovraccarico di significazione, per cui qualsiasi episodio, passaggio, parola, ha assunto o sembra assumere il valore di un simbolo. Proverò a fare una selezione di alcune immagini che ho trovato particolarmente significative.

La prima: gli scaffali dei supermercati pieni, a dispetto dei primi “assalti” alle provviste. La merce non manca, anzi per ora (tranne le mascherine e i disinfettanti per le mani) non sono spariti dal mercato i beni di prima necessità. Il problema, ma questa è storia vecchia, è che di merce ce n’è troppa rispetto a quella che si consuma, tanto che ogni giorno assistiamo alla distruzione di merci invendute. La nostra apocalisse si rappresenta così: l’impossibilità di consumare, o almeno di farlo ai ritmi precedenti. Il mercato online non ci soddisfa allo stesso modo, ma soprattutto abbiamo imparato a consumare in casa, in solitudine, togliendo alla valorizzazione della merce l’ultimo aspetto umano. La seconda: i senzatetto di Las Vegas, “parcheggiati” (letteralmente) negli spazi destinati ad automobili che invece si trovano al sicuro e al riparo dentro un garage. La terza (più che un’immagine, un racconto): una minuta domestica di Rio de Janeiro, che affronta un lungo viaggio per raggiungere il suo posto di lavoro. La famiglia presso la quale presta servizio, vuole che riprenda subito a lavorare nonostante loro siano tornati da un viaggio in Italia proprio nei giorni in cui sono emersi i primi casi di infezione da coronavirus. I suoi datori di lavoro hanno contratto il covid ma – potendo accedere a cure migliori – guariranno facilmente; la domestica, invece, ne morirà. La quarta: una donna ucraina che, per affermare la sua esistenza, inizia a urlare e si stende in strada. Abita a Napoli in zona “Fontanelle”, un quartiere molto popolare del centro storico, e da qualche giorno il marito lamenta i sintomi di una infezione da covid e aspetta invano che qualcuno venga a dare assistenza e a somministrare il tampone per determinare la positività al coronavirus. Questa immagine la trovo particolarmente significativa, perché ricorda le reazioni scomposte di fronte alle quali si trova Ernesto De Martino nei suoi viaggi nel meridione italiano, quando vede un mondo popolare letteralmente prigioniero di forme culturali del tutto fuori tempo, che provengono da un passato preindustriale, ma che non servono più a risolvere le crisi ricorrenti (lutti, magri raccolti, espropri e pignoramenti, epidemie di malaria etc.) di un mondo che evidentemente non aveva accesso ai “normali” standard di benessere. La ritualità arcaica che De Martino trova nelle comunità lucane e salentine, nella maggior parte dei casi, è priva di veri e propri riferimenti culturali e, più che una soluzione adottata da una comunità per ristabilire un legame sociale, assomiglia a un delirio privato o collettivo che riflette un disagio destinato a rimanere inespresso, perché si ritrova svuotata dei miti che ne accompagnano la ritualità.

Oggi, di fronte alla crisi, abbiamo pochi strumenti di riscatto, perché anche quelli della scienza risultano molto inefficaci. Se da una parte, non abbiamo strumenti culturali potenti (anche la religione in questo frangente sembra essere arretrata a uno strumento privato, e non ha invaso la sfera civile, come invece avvenuto in altri momenti storici), se siamo disposti a considerare più che plausibile l’inesistenza di forze divine a cui appellarci, se la scienza si è spesso sostituita al mito – assumendone alcune funzioni narrative, certamente -, dall’altra non siamo stati in grado di compensare questa “perdita”.

La realtà è che siamo arrivati a questa emergenza privi degli strumenti adeguati per risolverla, e questo basta a gettarci in una condizione di miseria culturale. Un terremoto, a prescindere dalla sua violenza, fa più danni se trova un territorio preparato alla catastrofe. Allo stesso modo, un virus che non ha una impressionante letalità, diventa una catastrofe generalizzata, perché trova una comunità che ha messo in secondo piano la solidarietà, l’investimento a fondo perduto nei servizi sanitari, e che ha creato tutte le condizioni materiali per soccombere a una disgrazia che di per sé non sarebbe stata catastrofica. Ma oltre a questo, l’avanzamento del progresso scientifico non si è accompagnato a una riorganizzazione dei rapporti sociali in senso stretto, anzi al contrario: è prevalsa l’illusione che l’automazione e il progresso potessero permettere a ciascuno “di fare da sé”. Abbiamo accettato (ma non poteva essere diversamente) di trasportare nella nostra vita quotidiana la condizione di individui assoluti, sciolti da ogni vincolo morale e sentimentale, che la civiltà borghese ha contribuito a spazzare via. Lo abbiamo accettato come società, ma questo non significa che lo abbiamo accettato tutti allo stesso modo (tentativi di controtendenza esistono, ma su questo diremo nelle conclusioni). Perdere il nostro legame sociale ha avuto un ruolo importante nel farci accettare le misure di confinamento come un provvedimento inevitabile (queste misure non nascono come necessarie, lo diventano sulla base di una situazione pregressa). Inoltre, lo sfilacciamento del legame sociale è la causa della nostra insicurezza ed è anche la ragione per la quale ci limitiamo ad affidarci a dati di dubbio valore: le curve epidemiche, i numeri dei morti, i guariti e i nuovi contagi, ci accompagnano ogni giorno e ci illudono di descrivere la realtà in maniera impeccabile, offrendoci la percezione di poter predire il futuro, un futuro che deve apparire vicino, e nel quale tutto tornerà come prima. Un futuro, insomma, davvero troppo vicino al nostro presente.

Ma pur senza gli antichi miti, pur senza l’antica ritualità, anche la nostra epoca si figura la sua fine, e lo fa in un modo del tutto peculiare: l’incapacità di consumare, la rinuncia alla qualità della vita sociale cui eravamo abituati, la fine della scuola, l’impossibilità di avere un sistema di cura sanitaria adeguato, il confinamento nelle case e la possibilità di uscire solo per lavorare e per produrre valore, sono gli spiragli attraverso cui guardiamo il collasso della nostra società. Possiamo benissimo immaginare di muoverci verso un mondo nel quale la didattica a distanza diventerà una normalità, nel quale il diritto all’apprendimento verrà negato a grosse fette di popolazione, nel quale saremo sempre più isolati nelle nostre abitazioni, e chi avrà il “privilegio” di uscire lo farà solo per andare in fabbrica; una versione grigia e oscura del capitalismo che assomiglia all’altra faccia della medaglia di cui abbiamo spesso parlato durante la nostra frenetica vita sociale; una versione “oscura” – oppure, chissà, quella più chiara e reale – del capitalismo che spesso si è affacciata ai nostri occhi di consumatori appassionati, ma che adesso sembra incombere sulla nostra testa come annuncio di un futuro probabile.  

Questo scenario appare tanto più possibile, se ricordiamo, insieme a Marx, che il capitale ha un lato anarchico con cui disperde la sua mania di controllo e permette alle necessità e alle aspirazioni degli individui di svilupparsi, sebbene le lasci insoddisfatte. Infatti, se è capace di “produrre” tempo libero rendendo più alta la produttività del lavoro, deve lasciare che sia la classe dei proprietari a fruire di questa nuova libertà, a scapito di un’altra che invece assiste alla trasformazione del suo tempo di vita in tempo di lavoro[1].Si materializza un’apocalisse che non è la fine della nostra civiltà, ma ne è la fase suprema, la sua “iperrealizzazione”. Non sappiamo se questo avverrà per certo, ma lo vediamo e, anzi, l’impressione è che stiamo rimanendo fermi a contemplarlo. Non riusciamo a pensare un’alternativa, nemmeno come epilogo della nostra civiltà.

È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, scriveva Mark Fisher dieci anni fa. L’impossibilità di immaginare una fine a questo stato di cose, a rapporti sociali e produttivi così congeniati, è la vera e propria cifra ideologica della nostra epoca. Infine, il mito non è morto, e anche la nostra civiltà, anche il capitalismo, ha la sua mitologia, che non interpella nessun dio, ma descrive la perpetuazione di se stesso, il suo continuo perfezionamento, fino a sconvolgere gli stessi equilibri naturali pur di uscirne vittorioso, anche a scapito della stessa vita umana. Abbiamo decretato la morte delle ideologie, e con essa ci siamo condannati a una eterna ripetizione della nostra epoca. Nella visione dell’apocalisse che stiamo vivendo in questi giorni, non arriverà nessuno a salvarci, ma vivremo solo l’esasperazione delle contraddizioni di uno stato di cose che consciamente o inconsciamente ci siamo abituati a pensare come eterno o inevitabile. Il futuro che immaginiamo è davvero troppo vicino al nostro presente, non solo perché la logica dell’utilità impone di non andare troppo avanti nel tempo con l’immaginazione, ma anche perché difettiamo di quella fantasia che ci permettere di dipingere un affresco dei nostri possibili destini.

Naturalmente, questa percezione delle cose potrebbe risolversi in una di quelle “profezie autoavveranti”: con il nostro atteggiamento potremmo, cioè, favorire la trasformazione delle nostre vite in una certa direzione. Ma non possiamo ancora dire cosa succederà. Per fortuna.

La speculazione e la filosofia non ci aiutano a predire il futuro. E nemmeno i modelli matematici (casomai, le loro interpretazioni). Tuttavia capiamo facilmente che mai come adesso non possiamo rifugiarci nel There is no alternative, non possiamo adagiarci all’idea che tutto sarà come prima. Dobbiamo raccontarci una storia diversa. Abbiamo specificato, qualche riga sopra, che non tutti hanno accettato di allentare, di perdere una certa connessione sociale. Spesso le nostre scelte confliggono e resistono a un messaggio dominante che pure ci condiziona, ma che riusciamo a non accettare del tutto. Se così non fosse, non saremmo affezionati alla nostra sopravvivenza, non saremmo in grado di partecipare a iniziative e di mettere in campo azioni collettive che vanno in una direzione diversa.

Non dovrà tornare tutto come prima. Chiedere una sanità pubblica ed efficiente, pretendere anche in una condizione di questo tipo che i parchi restino aperti e che le fabbriche rimangano chiuse senza deroghe, spostare la centralità della nostra vita dal lavoro agli affetti, costruire reti di assistenza territoriali e pretenderne la regolarizzazione, relazionarsi agli altri Paesi in termini di comune e mutua solidarietà, e non in competizione (Cuba e Venezuela hanno mandato squadre di medici in Europa, mentre le nazioni occidentali cercavano di rastrellare le ultime scorte di mascherine rimaste sul mercato[2]), costruire una scuola che potenzi la sua funzione primaria, ovvero garantire il diritto all’apprendimento attraverso il contatto umano e attraverso l’educazione alle relazioni, sembrano cose piccole rispetto alle storie epiche di dei ed eroi; sono queste, però, le immagini reali e umane che prefigurano un futuro diverso, nel quale non saranno solo i ricchi a salvarsi, ma saremo ancora costretti a salvarci tutti insieme, nel quale la vita possa scorrere serena anche di fronte alle difficoltà, per come può farlo una vita a misura di un essere limitato e parziale come l’uomo, che nonostante tutto ancora non merita l’estinzione.

Roberto Evangelista, Cnr-Ispf

[1] «Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro la parte della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata alla libera attività culturale e sociale degli individui sarà tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente tra tutti i membri della società capaci di lavorare e quanto meno uno strato della società potrà allontanare da sé la necessità di natura del lavoro e addossarla ad un altro strato. Il limite assoluto della riduzione della giornata lavorativa è sotto questo aspetto l’obbligo generale del lavoro. Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe trasformando in tempo di lavoro l’intera vita delle masse». K. Marx, Il Capitale, Roma, 1970, libro I, sezione V, capitolo XV.

[2] Non sono state le uniche iniziative internazionali di solidarietà, ma sono state quelle più importanti e significative, soprattutto considerando la campagna diffamatoria che colpisce questi Paesi.

Il contributo sulle pagine “Pan/démia Osservatorio Filosofico” del Cnr-Ispf

Il piacere della lettura, tra lockdown e bella stagione

La lettura è uno dei grandi piaceri della vita, che il lockdown ci ha in qualche modo indotto a riscoprire. Ma anche la bella stagione ha sempre agevolato questa pratica, ahinoi così poco diffusa in Italia. Ecco perché le abbiamo voluto dedicare il Focus monografico del secondo Almanacco della Scienza di maggio 2020. Per realizzare questo Focus sulla lettura abbiamo chiesto ai direttori dei sette Dipartimenti del Consiglio nazionale delle di consigliarci un libro della loro macroarea


La lettura è un piacere, uno dei grandi piaceri della vita, che il lockdown ci ha in qualche modo indotto a riscoprire. Ma anche la bella stagione alle porte, a prescindere da pandemia e ripartenza, ha sempre agevolato questa pratica, ahinoi così poco diffusa in Italia. Ecco perché abbiamo voluto dedicare il Focus monografico del secondo Almanacco della Scienza di maggio a questo tema. Chiariamo subito che con “lettura” non intendiamo riferirci a una tipologia di supporto, che non vogliamo entrare nella rovente e un po’ stantia polemica tra cartaceo e digitale, libro tradizionale ed e-book, tra testi complessi, articoli e sms, whatsapp, chat, post social. Non perché non ci siano differenze: il medium e il messaggio si condizionano a vicenda, insegnava Marshall McLuhan, e la sua lezione è oggi ancora più valida. Ma l’unica possibile strada che abbiamo davanti è una composizione equilibrata tra le diverse forme di scrittura e lettura. Il tomo realizzato mediante stampa a caratteri mobili nato con Johann Gutenberg conserva intatto il suo primato culturale (lo dicono anche i dati della produzione e della fruizione), ma l’incessante avanzamento delle tecnologie della comunicazione è ineludibile, così come la relativa rivoluzione concettuale e cerebrale (riduzione del testo, mescolanza tra lettere e altri segni grafici, accelerazione dell’interazione tra messaggi).

Per realizzare questo Focus sulla lettura abbiamo adottato una chiave inconsueta. Il Consiglio nazionale delle ricerche è il maggiore Ente pubblico di ricerca per dimensioni umane, estensione territoriale ma soprattutto per la multidisciplinarietà che i sette Dipartimenti rappresentano, racchiudendo poi ciascuno di loro un mondo amplissimo di competenze. Abbiamo quindi chiesto ai direttori dei Dipartimenti di consigliarci un libro della loro macroarea, che fosse però adatto al grande pubblico dei non specialisti, scrivendone o facendone scrivere la recensione: il nostro suggerimento è semplicemente quello di seguire i loro suggerimenti, di fidarsi, inanellando una collana di letture che vi terrà compagnia per questo prossimo futuro di auspicato ritorno alla normalità.

Una sola condizione abbiamo posto ai direttori che cortesemente ci hanno risposto: nessun libro che parli di Covid-19, epidemie, pandemie, contagi… Non perché ne manchino ma, al contrario, perché la letteratura scientifica e narrativa sul tema è sterminata e qualche spunto da questa ricca miniera ci permettiamo di suggerirvelo noi. Date intanto un’occhiata alla prima “stanza” della mostra “Racconti e ritratti di medicina e malattia”. Vi ricorda nulla il: “Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei […] Irato al Sire, destò quel Dio nel campo un feral morbo”? L’incipit dell’“Iliade”, opera che in qualche modo possiamo assumere come punto di partenza della nostra narrativa, ha quale soggetto proprio le epidemie: interpretate come un segno dell’ira delle divinità, certo, ma nella stessa epoca in cui altri autori come Tucidide e Lucrezio forniscono descrizioni sintomatologiche ed epidemiologiche dei contagi che non esiteremmo a definire “proto-scientifiche”.

Da allora a oggi, la lista di autori e opere, spesso capolavori immortali rimasti nel nostro immaginario, va dal “Decamerone” di Giovanni Boccaccio ai “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni, per citare i due classici più celebri, dalla “Peste” di Albert Camus a “La pelle” di Curzio Malaparte, per restare al solo ‘900. E poi, citando randomicamente: Giuseppe Belli raccontò in romanesco “Er collera moribbus”, “Allegro ma non troppo” di Carlo Maria Cipolla, “La peste di Londra” di Daniel Defoe, la canzone “La peste” di Giorgio Gaber, “Morte a Venezia” di Thomas Mann, “Cecità” di Josè Saramago, “Inferno” di Dan Brown, sempre di Manzoni la “Storia della colonna infame”, i già citati Tucidide con la “Guerra del Peloponneso” e Lucrezio per il “De rerum natura”, Edgard Allan Poe e “La maschera della morte rossa”, “Nemesi” di Philip Roth, Jack London e “La peste scarlatta”, Gesualdo Bufalino con “Diceria dell’untore”, Gabriel García Màrquez con “L’amore ai tempi del colera”.

Ci fermiamo qui per non togliere spazio ai sette libri consigliati nel Focus, dai quali vi consigliamo di cominciare. Oppure mescolate a vostro piacere. Se il Coronavirus, tra tanti immensi danni e vittime, ci avesse davvero riportato al piacere della lettura facciamo di tutto per non smarrirlo.

Marco Ferrazzoli


Fonte: Almanacco CNR – Editoriale

Almanacco CNR – Consigli di lettura


Discutibile, disgustosa, inammissibile pedofilia

Dal sito dell’Associazione Culturale Clara Maffei la recensione di un pamphlet intitolato “Vanessavirus”, dedicato alla vicenda di Gabriel Matzneff. Lo scrittore francese, molti anni dopo i fatti, è stato accusato di pedofilia da Vanessa Springora, all’epoca quattordicenne, con la quale aveva intrattenuto una relazione nonostante i circa 40 anni di differenza di età. Lo scrittore, braccato dalla polizia francese, si è rifugiato in Italia, dove ha dato alle stampe la propria versione della vicenda, il pamphlet è stato tradotto da Giuliano Ferrara e pubblicato da Liberilibri. Un’operazione che viene definita “quantomeno discutibile”. Quello che ci interessa qui è però l’uso del suffisso “virus” per attualizzare la vicenda ai tempi della pandemia e ricalcare il frequente uso del riferimento morale, sociale o cultural ai contagi


La frequente considerazione secondo la quale i nostri atteggiamenti istintivi andrebbero subordinati al ragionamento incontra nella pedofilia una delle contraddizioni più pesanti. Sul tema del rapporto sessuale con bambini, infatti, sembra conveniente far prevalere il pregiudizio culturale del divieto assoluto anziché imbarcarsi in disquisizioni teoriche che rischiano di aprire derive permissive pericolosissime. Detto ciò, è altrettanto evidente che qualunque condanna senza appello e, in qualche modo, senza neppure processo rischia anch’essa di dare il “la” a pericolose tentazioni colpevoliste e forcaiole, contraddicendo i fondamentali del nostro stato di diritto.

Quanto la questione sia complessa lo hanno attestato di recente due operazioni culturali. La prima è la docu-fiction di Amazon “Veleno”, che ha riportato alla luce una vicenda giudiziaria svoltasi a fine millennio scorso nella bassa modenese e che giornalisticamente prese il titolo di “diavoli”, termine attribuito ai genitori e agli adulti accusati presunti abusi su bambini. Le condanne e le conseguenze furono pesantissime: 16 figli furono allontanati dai loro genitori; il sacerdote considerato il vertice della squallida cupola di pervertiti morì di infarto mentre si trovava nello studio del suo legale, dopo avere assistito alla requisitoria con la quale lo si accusava di vomitevoli nefandezze; una delle mamme accusate si tolse la vita, dichiarando nell’ultimo messaggio la propria innocenza. Le vite di tutte le persone coinvolte sono state distrutte per sempre.

Alcuni anni dopo un giornalista, Pablo Trincia, decise di dedicare a questa vicenda un’attenzione fuori dal comune che produsse un reportage audio nel quale tutta la conduzione della vicenda da parte della magistratura e degli assistenti sociali fu illuminata nelle sue non poche zone d’ombra, tanto che l’esito finale del lavoro del cronista è tendenzialmente innocentista. Ora il lavoro di Trincia, già pubblicato in podcast da Repubblica, è stato trasformato da Amazon in una docu-fiction seriale di grande efficacia, come sempre nei prodotti di questo broadcaster. La percezione che tutto il castello costruito sui “diavoli della bassa modenese” poggiasse su fondamenta fragilissime si è ulteriormente rafforzata, grazie anche alle ampie e approfondite testimonianze rese dai genitori e dagli adulti le cui vite sono state sconvolte dalle testimonianze di alcuni bambini. 

Uno di questi ex bambini, dalle cui accuse si montò la terribile vicenda, di recente ha confessato di essersi inventato tutto, dicendo di essere stato plagiato da inquirenti e assistenti sociali che gli rivolgevano le domande. La vicenda resterà probabilmente in sospeso, ma resta anche l’ammonimento a osservare la massima cautela nel momento in cui si mettono sotto inchiesta delle persone per questo terribile reato. Molto diversa invece la vicenda di Gabriel Matzneff, uno scrittore francese accusato molti anni dopo i fatti da Vanessa Springora, la donna all’epoca quattordicenne con la quale lo scrittore intrattenne una relazione nonostante i circa 40 anni di differenza di età. Lo scrittore è braccato dalla polizia francese e si è rifugiato in Italia, dove ha dato alle stampe la propria versione della vicenda con un pamphlet intitolato “Vanessavirus”, tradotto da Giuliano Ferrara e pubblicato da Liberilibri. Questa operazione, che segue la pubblicazione francese avvenuta a spese dello stesso Marzneff in duecento copie vendute anche a 600 euro ciascuna, è quantomeno discutibile. La linea decisamente liberale dell’editore e del fondatore del Foglio sono state senz’altro meritorie, in più occasioni nelle quali il conformismo culturale e il mainstream mediatico lasciavano ben poco spazio alle voci controcorrente. 

In questo caso, però, la solidarietà concessa mediante il diritto di parola a un uomo che è reo confesso di avere praticato e predicato la libertà di amore e di sesso anche con minorenni appare una sorta di mossa elitaria, un po’ come quella che ha a lungo coperto – perlomeno mediante l’omertà, la mancanza di condanna aperta – i registi Roman Polanski e Woody Allen quando sono stati toccati da accuse di comportamenti riprovevoli. Ricordiamo un precedente, quello di Marcello Baraghini che con la sua Stampa Alternativa pubblicò a suo tempo il “Diario di un pedofilo” scritto da William Andraghetti: anche in quel caso la motivazione liberal-radicale fu che a tutti va concesso il diritto di parola e di difendersi.

Il terreno è infido, il rischio di una caccia all’untore sempre dietro l’angolo. Ma la cautela non può in alcun modo diventare giustificazione di una presunta libertà che si traduce in un abuso traumatizzante che le vittime portano come una ferita non più rimarginabile per tutto il resto della loro vita. In questi tempi di pandemia il tema di come debbano essere interpretate le libertà è tornato di un’attualità imprevedibile, non è più soltanto oggetto di un dibattito intellettuale ma una questione molto pratica e concreta. Proprio perché le siamo fedeli in modo appassionato, pensiamo che la bandiera della Libertà debba essere sì sempre sventolata, ma anche protetta da possibili strappi quando il vento soffia troppo forte.

Lorenzo Stella


Fonte: Associazione Clara Maffei


“Veleno”, docu-fiction di Amazon

Cosa ci insegna la solitudine (dei numeri primi)

Una ricercatrice del Dipartimento di scienze biomediche (Dsb) del Cnr, alla richiesta di identificare un romanzo in risonanza con la sua materia di studio, indica “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano. “Rileggendo qualche passaggio di questa bellissima storia che lessi anni fa, mi sono resa conto di come sia anche perfettamente in simbiosi con il momento particolarmente difficile e sofferente che stiamo vivendo a causa del Covid-19”


Quando mi è stato chiesto di identificare un testo che fosse in risonanza con la materia del Dipartimento di scienze biomediche (Dsb) del Cnr mi è venuto in mente il libro “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori) di Paolo Giordano e, rileggendo qualche passaggio di questa bellissima storia che lessi anni fa, mi sono resa conto di come sia anche perfettamente in simbiosi con il momento particolarmente difficile e sofferente che stiamo vivendo a causa del Covid-19.
Il libro, pubblicato nel 2008 dall’esordiente Paolo Giordano, ha ricevuto numerosi premi, tra cui lo Strega e il Campiello opera prima. La trama, orchestrata sui due fili paralleli delle vite dei due protagonisti, che con un primo colpo di scena si intrecciano quando Alice e Mattia incrociano i propri sguardi ancora al liceo, descrive l’esistenza dei due giovani torinesi, accompagnandoli dall’infanzia all’età matura. Alice è una bambina obbligata dal padre a frequentare la scuola di sci. E una mattina di nebbia fitta, persa nella nebbia, staccata dai compagni, se la fa addosso. Umiliata, cerca di scendere, ma finisce fuori pista spezzandosi una gamba. Rimane sulla neve credendo che morirà assiderata. Invece si salva, ma resterà zoppa e segnata per sempre.
Mattia è un bambino molto intelligente, ma ha una gemella, Michela, ritardata. La presenza di Michela umilia Mattia di fronte ai suoi compagni e, per questo, la prima volta che un compagno di classe li invita entrambi alla sua festa, Mattia abbandona Michela nel parco, con la promessa che lei lo aspetterà. Mattia non ritroverà più Michela. In quel parco, Michela si perde per sempre. Le vite di Alice e di Mattia, due esistenze segnate, si incroceranno. Diventeranno, Alice e Mattia, adolescenti, giovani, adulti. Continueranno a perdersi e ritrovarsi per finire con un’ennesima separazione, senza che riescano veramente a trovarsi e abbiano il coraggio di restare insieme.
La trama si dirama in un’alternanza esclusiva tra le storie dei due personaggi principali, parafrasi del rapporto fra Mattia e Alice, due “numeri primi” – a loro fa riferimento il titolo – per la loro unicità rispetto a tutti gli altri, ma anche “numeri primi gemelli”, che, come due numeri primi vicini ma divisi da un solo numero intero che si frappone tra loro, sono sostanzialmente simili ma non arrivano mai a toccarsi. Pertanto, in senso metaforico, i numeri primi rimandano alla solitudine, lo spazio tra l’io e il nulla è lo spazio della solitudine, quello che occupano i protagonisti di questo romanzo.
Sono due personaggi che non riescono a incontrarsi, due anime gemelle che si amano ma che non riescono a stare insieme. Questo romanzo tocca in questo modo tematiche molto importanti, come la solitudine insormontabile e le problematiche legate alla socialità, ma anche le difficoltà dei giovani moderni, dalla fuga all’estero per trovare lavoro all’anoressia e alla depressione. Il romanzo riflette in modo amaro sul mondo contemporaneo del benessere, in cui i giovani hanno tutto ciò che è materiale ma sono abbandonati alla loro solitudine.
I protagonisti, segnati da traumi che non riescono a superare, si rifugiano in sé stessi, autoescludendosi dal mondo. La solitudine è allora ciò che li accomuna ma che, per definizione, li allontana anche l’uno dall’altra.
È una lettura che segna il cuore, che riesce a trasportare nel baratro del silenzio e del dolore insieme ai protagonisti, che fa percepire l’oscurità della solitudine e del male di vivere. Un romanzo d’esordio estremamente maturo per la compiutezza del contenuto e per l’alta tensione emotiva sviluppata; un crescendo di sensazioni avviluppante l’anima del lettore, tra momenti di tenerezza, di tristezza e di speranza.
Il tema principale del romanzo riflette la tanta solitudine comparsa durante il confinamento da Covid-19: solitudini latenti ed emerse, solitudini dell’animo nonostante l’interconnessione virtuale con il mondo, solitudini degli anziani senza connessioni, solitudini delle città che rimbombano in un silenzio assordante, solitudine dei morenti… solitudine di chi non si è mai guardato dentro e non ha mai speso il proprio tempo immerso nella gioia della lettura. Ci si può augurare che questo tempo sia stato proficuo per far scoprire la lettura a chi non l’aveva mai considerata, rivelando che la libertà, le emozioni, le sensazioni, i colori, i viaggi, i profumi sono solo una piccola parte di quanto possa procurare la propria immaginazione durante la lettura di un bel libro, trasportando il lettore fuori di casa.

Elsa Fortuna


Libro: Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi”, Mondadori (2008)


Fonte: Almanacco CNR – Focus, consigli di lettura

Un dialogo a più voci sulla pandemia da Covid 19

Marco Annoni, ricercatore presso l’Istituto di tecnologie biomediche (Itb), nel libro “Etica dei vaccini” (Donzelli), riflette con altri scienziati sulla campagna vaccinale in corso contro il virus SarsCoV2. Chiama così a dialogare tra loro voci provenienti da diversi ambiti scientifici


Il libro “Etica dei vaccini” (Donzelli) curato da  Marco Annoni, ricercatore presso l’Istituto di tecnologie biomediche (Itb-Cnr), propone una serie di approfondimenti e riflessioni di diversi autori sulla campagna di vaccinazione contro il Covid-19.
“Le malattie infettive sono parte integrante della storia dell’umanità e le continue interazioni dell’uomo con i diversi microrganismi hanno modellato, in un processo di co-evoluzione e di selezione naturale, sia il genoma degli esseri umani sia quello dei patogeni” afferma Angela Santoni, professoressa ordinaria di immunologia e immunopatologia all’Università di Roma La Sapienza. Grazie a vaccini e antibiotici, nel corso degli anni 60-70 del’900, viene dichiarata vinta la battaglia contro le malattie infettive però le illusioni vengono presto rese vane dalla comparsa di altre patologie collegate a virus infettivi, come quelle provocate dall’Hiv fino alle recenti Sars e Mers: “Un fattore determinante per la comparsa e persistenza delle malattie infettive soprattutto virali, essendo i virus incapaci di vita autonoma, è la capacità dei microrganismi di mutare velocemente il loro genoma per sopravvivere in ambienti cellulari nuovi e diversi (nicchie ecologiche) ed eludere le difese immunitarie dell’ospite”.
La vaccinazione tramite inoculazione, un’arma importantissima in questa lotta, è stata introdotta in Europa “nel 1721 da Lady Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, dopo aver osservato tale pratica in Turchia e con straordinaria lungimiranza fatto inoculare suo figlio”. I brillanti risultati ottenuti con le vaccinazioni hanno bloccato quella che è stata definita “esitazione vaccinale”, le cui prime avvisagli affondano le radici nella seconda metà dell’800, quando venne dichiarata obbligatoria entro i tre mesi di vita la vaccinazione contro il vaiolo. Questo fenomeno di “esitazione vaccinale”, così definito dal gruppo di esperti Sage (Strategic Advisory Group of Experts on immunization) nominato nel 2012 dall’Oms, si è osservato soprattutto in Occidente. In particolare in Italia, ha determinato una forte riduzione delle vaccinazioni obbligatorie, facendo precipitare il nostro Paese nel 2013 ben al di sotto dell’asticella di sicurezza del 95% raccomandata dall’Oms. Questo non ha in alcun modo fermato l’azione salva vita dei vaccini: “Si è calcolato che i vaccini salvano circa due milioni e mezzo di vite umane ogni anno, circa cinque vite al minuto, e mai nella storia come in questo momento di pandemia da Covid-19 il destino della salute e dell’economia del nostro pianeta è stato (e presumibilmente sarà) così dipendente dai vaccini”.
Quando il virus SarsCoV2, a fine dicembre 2019, fa la sua comparsa in Cina, l’umanità sembra del tutto impreparata di fronte a questa nuova realtà. Convinto che i virus pandemici fossero eventi confinati nella storia passata, il mondo si è ritrovato completamente impreparato, obbligato a ripensare le tradizionali modalità di incontro e di lavoro, con le strutture sanitarie sul punto di collassare e con le persone confinate in una sorta di isolamento sociale. Rispetto ad altre pandemie del passato, come quella dell’influenza spagnola che provocò circa 50 milioni di morti e oltre 500.000 casi di contagio, le cose sono andate molto diversamente. In brevissimo tempo, la comunità scientifica ha saputo isolare e sequenziare il virus, mettere a punto cure diverse e produrre vaccini efficaci. Tuttavia i risultati ottenuti non hanno posto fine alla crisi del SarsCoV2. Negli Stati Uniti e nel resto del mondo, quando “il 12 aprile del 1955 fu pubblicamente dichiarato che il vaccino Salk per la poliomielite si era dimostrato sicuro, efficace e potente” ci fu un tripudio di gioia collettiva. Mentre il 9 novembre 2020, “quando fu annunciato che il vaccino a mRna Pfizer-BionTech si era dimostrato efficace e sicuro, le reazioni sono state positive ma decisamente meno eclatanti”. A causa di una comunicazione scientifica spesso caotica e disordinata, dell’aggravarsi della crisi e della sfida rappresentata dalla distribuzione del siero vaccinale in tutte le parti del mondo, la notizia non è stata accolta come una liberazione.
Coinvolgendo voci provenienti da ambiti diversi tra loro  (immunologia, biologia, etica pubblica, diritto, filosofia della scienza, bioetica), il contributo di Evandro Agazzi, Marco Annoni, Enrico M. Bucci, Carlo Casonato, Lorenzo d’Avack, Alberto Giubilini, Manuela Monti, Telmo Pievani, Carlo Alberto Redi, Angela Santoni, Marta Tomasi, cerca di rispondere a una serie di domande: quali ragioni permettono di giustificare o contrastare l’imposizione di un obbligo vaccinale a tutta la popolazione? Come dovremmo ripensare la nostra coesistenza con altre forme di vita biologica e con gli ecosistemi per ridurre il rischio di nuove pandemie? È giusto permettere agli operatori sanitari di non vaccinarsi o ciò rientra, invece, tra i loro obblighi morali, deontologici e professionali? Quale mondo dovremmo immaginare, progettare e costruire una volta che lattuale emergenza sarà finalmente passata? Sono solo alcuni degli interrogativi a cui gli autori del volume hanno cercato di dare una risposta per “aiutarci a capire come dovremmo vivere e decidere in situazioni morali difficili e complesse”.

Gianmaria Carpino

Marco Annoni, “Etica dei vaccini”, Donzelli Editore (2021)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Un ictus che ricorda qualcosa…

È quasi scontato leggere il libro di Andrea Vianello condizionati dallo scenario del Covid-19. Ma la comparazione è giustificata: l’ischemia che colpisce il giornalista e conduttore Tv viene da lui vissuta come l’invasione di un male improvviso, misterioso e incomprensibile. Esattamente come sta capitando a tutti noi


In questi tempi è facile, fin troppo facile, quasi scontato, ma anche inevitabile, leggere qualunque vicenda – di malattia ma non solo – nello scenario, nell’ottica, nella chiave del Coronavirus. Il libro di Andrea Vianello però si presta a questa comparazione, pur distorsiva, in modo particolare. Il giornalista e conduttore televisivo si è deciso a raccontare la storia dell’ictus, per la precisione dell’ischemia cerebrale che ha colpito il lato sinistro del suo cervello, causata da una dissecazione della carotide.
Rispetto all’antico ma oggi particolarmente diffuso genere della medicina letteraria, dei diari di malattia, degli outing clinici e sanitari, in questa vicenda c’è infatti un aspetto più specifico: Vianello viene colpito in modo violento, rischia la vita, deve subire una fortunatamente riuscitissima operazione d’urgenza, segnata però da una complicanza non banale: la lesione della parola, che è il suo strumento di lavoro. Chi lo abbia visto di recente in una delle presentazioni del libro ha potuto constatare che il trauma è stato quasi completamente recuperato, non a caso un capitolo è dedicato alla struttura che l’ha curato e riabilitato, ma rimane intatto il senso di invasione da parte di un male improvviso e – almeno all’inizio – del tutto misterioso e quindi incomprensibile. Esattamente come è capitato a tutti noi con il Covid-19: siamo malati asintomatici, parenti, residenti in zone rosse e arancioni, cambia la misura, non lo sgomento.
Il merito di farci cogliere questa somiglianza, verrebbe da dire di affratellarci in questo comune destino, è ovviamente della impeccabile, lucidissima scrittura dell’autore. Basti citare il passo che giustamente è stato valorizzato dall’editore Mondadori nella bandella di – questo il titolo del diario – “Ogni parola che sapevo”. “Mia moglie arriva trafelata. Mi sembra un gigante sopra di me, un gigante buono che mi aiuterà, io sono inciampato in un buco nero del bosco ma lei mi tirerà fuori da lì. Ha gli occhi sgranati. ‘Che succede? Che succede?’ mi chiede. La mia risposta è chiara: ‘Megpdeiigrhiaa!’ le dico concitato, ‘mrlaiofoourhdka uhfe giumhu’. Non si capisce niente, lei non capisce niente, nemmeno io capisco niente, parlo una lingua nuova, eppure lo so cosa voglio dire, ma un demone si è intrufolato nella mia bocca. ‘Ceritturgra, mathra, titdiiiadotaio.’ Sono infuriato con me, sono infuriato con lei perché non capisce. ‘Stai calmo’ la sento dire, ma sono alle prese con questa follia, non riesco a dire una parola, maledizione, una vera parola, mi sento imprigionato, imbavagliato, sperduto, nel buco nero del bosco non ci sono parole, le mie amatissime parole, solo versi infantili, muggiti incomprensibili, rantoli disperati”.
La vulnerabilità fisica, l’insufficienza del nostro vocabolario, la necessità per se stessi e per gli altri di dare testimonianza della propria debolezza e anche della propria sofferenza, dei calvari personali e collettivi, la consapevolezza che possiamo passare in poche ore – o in qualche settimana, cambia poco – dalla vita “normale”, anche se non brillante come quella di chi vive illuminato dai riflettori di un studio tv, ai meandri inestricabili della sanità pubblica… Sì, le analogie tra la vicenda di Vianello e quella di noi tutti ci sono, e non sono poche.

Marco Ferrazzoli


Andrea Vianello, “Ogni parola che sapevo”, Mondadori (2020)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Quanto costa curare un anziano?

Da un medico di base con oltre trent’anni di pratica, una riflessione sull’esperienza del distacco e sul tema dei costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti.

Iona Heath è un medico di base con oltre trent’anni di pratica in uno dei quartieri più poveri di Londra.

Da questo suo libro sui “Modi di morire”, pertanto, ci si attenderebbe soprattutto il senso di un’esperienza ‘vissuta’ (per quanto quest’espressione possa apparire involontariamente ironica) rispetto all’evento finale e assoluto che, ogni anno, tocca 56 milioni di persone direttamente e indirettamente circa 300 milioni, cioè il 5 per cento della popolazione umana.

‘I costi del trattamento sanitario cui l’avevano appena sottoposta erano stati uno spreco inutile e penoso’, scrive ad esempio il dottor Heath dopo la scomparsa di una paziente novantenne. Ora, che dal dibattito sul diritto di decidere della propria sorte e di rifiutare ogni accanimento terapeutico, si passi a questionare sui costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti, appare una deriva di tipo salutistico e anagrafico piuttosto rischiosa.

E’ vero che la convinzione ‘di avere diritto a una salute perfetta’ è pericolosa, che anima ‘pretese eccessive’, tra le quali si possono annoverare anche le diffuse esagerazioni in merito all’utilità della ‘medicina preventiva’. Ma da qui a stabilire che gli anziani possano essere abbandonati senza cure, ce ne passa.

Marco Ferrazzoli

Iona Heath, “Modi di morire” (Bollati Boringhieri, 2008)

La scheda sul sito dell’editore

“Il quarto cavaliere”: breve storia di epidemie, pestilenze e virus

Un saggio storico sulla convivenza tra l’uomo e malattie infettive, una riflessione sul ruolo delle pestilenze negli equilibri tra le civiltà umane, reso ancor più attuale alla luce degli sconvolgimenti causati dalla recente pandemia.

Uno dei saggi giustamente rimasti più celebri nella recente esegesi storica è “Armi, acciaio e malattie” di Jared Diamond, nel quale, sin dal titolo, un ruolo fondamentale viene assegnato alle epidemie nella evoluzione storica delle civiltà che ci hanno preceduto. Su questo elemento, “Il quarto cavaliere”, facendo riferimento alla celebre metafora dell’Apocalisse, esce adesso negli Oscar Mondadori un saggio specifico di Andrew Nikiforuk che traccia proprio una “breve storia di epidemie, pestilenze e virus”. Si tratta in realtà di uno studio dei primi anni ’90, come chiarisce l’autore in una nota nella quale precisa l’intento etico della sua opera: “Spero di spingere i lettori a condurre una vita più sana e a combattere per comunità più verdi, liberandosi dalle illusioni tecnologiche”. Un motto programmatico piuttosto deciso ed estremo, come si vede, che il giornalista canadese ripete incessantemente nei vari capitoli, spingendosi ad assiomi francamente sconcertanti come quello di annoverare tra “le grandi menzogne del XX secolo” quella che “gli antibiotici, i medici e i vaccini ci abbiano salvato”. Da un lato, insomma, l’autore si schiera decisamente contro lo scientismo e il progresso tecnologico, dall’altro rivanga come epoca aurea quella in cui l’umanità affrontava una vita di mera, dura sopravvivenza: “Gli uomini del passato, raccoglitori di noci con la lancia sotto il braccio, erano esemplari magnifici”, mentre i loro successori coltivatori “relativamente sedentari, erano individui curvi e affamati. Mangiavano troppi carboidrati e i loro denti marcivano”. Tutto questo, dunque, molto prima che arrivassero i fast food…

Se si prescinde da questo tipo di considerazioni, però, il libro è davvero interessante per la messe di informazioni storiche che fornisce in ordine al ruolo che malattie ed epidemie hanno assunto nello squilibrare i rapporti di forza tra gli Stati, le culture e le civiltà umane. Per esempio, quella sorprendente per cui “la malaria ha ucciso la metà degli uomini, donne e bambini che sono deceduti sulla terra” fino all’ultima guerra mondiale. Ciò su cui Nikiforuk ha certamente ragione è che il caso e l’eterogenesi hanno sempre giocato un ruolo determinante nel progresso umano, ad esempio la lebbra è sempre stata condizionata da fattori igienici e dunque, indirettamente, dalla disponibilità di tessuti per potersi cambiare più frequentemente d’abito: fu dunque la peste, diminuendo in modo spaventoso il numero di persone e aumentando le pecore e la lana pro-capite ad aiutare la scomparsa della lebbra in Europa. Tranne quella del Nord, dove essa restò diffusa molto più a lungo, in Norvegia addirittura fino a fine ‘800.

Marco Ferrazzoli

Andrew Nikiforuk, “Il quarto cavaliere” (Mondadori, 2008)

https://www.mondadoristore.it/quarto-cavaliere-Breve-Andrew-Nikiforuk/eai978880457834/

Medico, parla come curi

La querelle sul ‘medichese’ non è certo nuova. La richiesta di un linguaggio più chiaro e comprensibile da parte dei professionisti della salute è anzi diffusa da tempo. A sostenerla, tra gli altri, il gastroenterologo e divulgatore Giorgio Dobrilla che in questo “Dottore… mi posso fidare?” stila un vero “manuale di medicina comprensibile”. Il problema è complesso e riguarda la necessità di stabilire tra chi fornisce e chi riceve la cura una comunicazione corretta ed efficace, che superi il linguaggio specialistico per stabilire un circolo virtuoso. Il libro è indirizzato al grande pubblico, a medici e studenti. Ma attenzione: non si tratta semplicemente di ‘parlare chiaro’, come se i dottori ‘se la tirassero’, cercando di darsi un tono tramite l’uso di termini esoterici (difetto che forse hanno, condividendolo con molte altre categorie). Come sostiene nella prefazione al volume Silvio Garattini, la medicina deve soprattutto “uscire dall’equivoco delle facili impressioni, per imboccare la difficile strada delle evidenze”, così come nel campo farmacologico “troppe ambiguità e troppi interessi tendono infatti a deformare la percezione dell’efficacia e della tossicità di un farmaco. Innanzitutto, la legislazione tende a privilegiare la visione dei farmaci come beni di consumo, anziché come strumento di salute”.

 

Marco Ferrazzoli

 

Giorgio Dobrilla, “Dottore…mi posso fidare?” (Avverbi, 2007)