Un cancro chiamato Cameo

La storia di un uomo nel suo percorso di rievocazione e autoanalisi di fronte al cancro che lo ha colpito: un destino che lo porta inevitabilmente a ripercorrere la propria esistenza.

“Cameo” di Raffaele Crovi è un’opera di mestiere, godibilissima alla lettura, ma priva di una forza narrativa autentica, perennemente indecisa e oscillante tra la contemplazione descrittiva e il malcelato intento autobiografico.

Protagonista ne è Nando Mortara: ebreo, convertito per opportunità (nel 1939: i genitori sarebbero stati deportati e uccisi) e poi tornato alla fede originaria per ‘protesta’, di formazione psichiatra ma senza essere mai riuscito ad affrontare l’impegno di una attività terapeutica ospedaliera.

Un ‘non personaggio’, tipico di molta narrativa minimalista, che non a caso nel corso del libro sembra pigramente, rassegnatamente lasciare il posto al cancro che lo ha colpito: un destino, più che una disgrazia, davanti al quale ripercorrere la propria esistenza è inevitabile, quasi scontato.

Marco Ferrazzoli

Raffaele Crovi, “Cameo” (Mondadori, 2006)

La scheda sul sito dell’editore

Pozzuoli ai tempi del colera

Il romanzo storico di Rosario Zanni ci porta a Pozzuoli alla fine del XIX secolo, quando il colera causò centinaia di vittime.

La presenza delle epidemie nella letteratura è imponente: scenario e deus ex machina narrativo, esse consentono spesso agli autori di rinforzare emotivamente il racconto, oppure di creare le location ideali per far emergere caratteri e storie private dei loro personaggi. Solo immaginare “I promessi sposi” e il “Decamerone” boccaccesco senza la peste, oppure Verga senza la malaria e il colera, sarebbe impossibile.

Ora, Stampa Alternativa propone nella sua Collana Eretica “Mal’aria”, un romanzo storico su ‘Colerosi, affamati e ribelli di fine ‘800’ scritto da Rosario Zanni. Ci troviamo a Pozzuoli, a fine XIX secolo, quando il colera causò centinaia di vittime. La famiglia Pollio deve però combattere, oltre che con l’epidemia, con le rapine ai casotti del dazio, il movimento anarchico, gli stupri, l’emigrazione e il carcere. Difficile non pensare ai vinti verghiani, almeno per contrappasso, visto che la vicenda è segnata da un’ambizione incomprimibile di rivolta e riscatto.

La scrittura di Zanni è molto efficace, classica nel periodare, grazie anche alle frequenti incursioni semidialettali e al sapiente uso dell’anacoluto. Ne fanno fede già le prime righe del libro. “I negozi venivano chiusi, le strade erano deserte, la contrada Ospizio completamente abbandonata, infelicissime condizioni igieniche della parete inferiore del quartiere Castello e del quartiere Teatro, non da meno i quartieri del Largo a mare e dei vichi Torre, bisognosi di una portentosa basalatura e di lavori di condutture in ferro per la canalizzazione. I bambini scalzi e nudi, alcuni più grandi coperti di piccoli cenci che fungevano da mutande, rotolavano lungo le strade ricoperte di acque immonde di latrina e di rifiuti domestici con aria meno baldanzosa del consueto”.

Marco Ferrazzoli

Rosario Zanni, “Mal’aria” (Stampa Alternativa, 2008)

Nel paese dei ciechi

In una comunità delle Ande ecuadoriane abitata solo da persone non vedenti, è il protagonista a diventare ‘minorato’: oltre a essere molto meno abile nell’uso di altre facoltà quali tatto e udito, non riesce a spiegare in cosa consista la facoltà della vista, che solo lui possiede.

Racconto ostentatamente, forse eccessivamente, allegorico, ‘Nel Paese dei Ciechi’ racconta la breve avventura di un vedente che, vagando per le Ande ecuadoriane, capita in una vallata abitata solo da persone che non vedono e che hanno costruito la loro comunità sull’uso degli altri sensi, nei quali sono diventati tanto abili da poter condurre tutte le normali attività sociali.

La mancanza della vista li ha però indotti a un sovvertimento del ritmo giorno-notte, che per loro consiste in caldo-freddo, inducendoli a preferire il secondo per il lavoro, e alla totale amputazione, dal loro orizzonte concettuale, delle stesse idee per noi legate alla percezione e alla rappresentazione visiva.

Per questo, il contatto con lo straniero vedente si trasforma in un paradossale capovolgimento: è lui il ‘minorato’, non solo perché è molto meno abile nell’uso del tatto o dell’udito, ma anche perché i tentativi del protagonista di spiegare in cosa consista questa facoltà che solo lui possiede vengono interpretate come stravaganze oniriche, fantasie di un disturbato mentale, psicosi fuorvianti.

Persino nel confronto fisico, Nuñez fatica a imporre il vantaggio fornitogli dalla sua particolarità. L’unica abitante del Paese dei Ciechi ad apprezzare la sua originalità è Medina-saroté, non a caso considerata dai suoi concittadini una ‘svantaggiata’, poiché ancora conserva tracce dei bulbi oculari che, nella loro curiosa ‘evoluzione’, gli altri abitanti ormai non possiedono più e che, proprio per questo, è considerata da Nuñez l’unica ragazza apprezzabile.

La breve favola triste di Wells termina nella stessa cupezza che ne connota tutto lo sviluppo e il significato. In essa, come nelle altre sue più celebri opere, su tutte ‘La guerra dei mondi’, lo scienziato e narratore inglese trasferisce le proprie competenze naturalistiche in una visione surreale, onirica, inquietante.

Marco Ferrazzoli

Herbert George Wells, Il Paese dei ciechi (Adelphi, 2008 – quinta edizione)

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Wedekind, educatore tragico e ‘osceno’

Considerato il capolavoro drammaturgico di Wedekind, “Risveglio di primavera” pone l’accento sulla scoperta, da parte degli adolescenti, del mondo degli adulti.

“Risveglio di primavera” è una delle più note opere drammaturgiche di Frank Wedekind, che Bertolt Brecht considerava, insieme con Tolstoj e Strindberg, ‘uno dei grandi educatori dell’Europa nuova’.

Scritto nel 1890, fu rappresentato però solo nel 1906 a Berlino, in versione riveduta e censurata a causa del suo contenuto ritenuto ‘osceno’. In effetti, il dramma pone l’accento sulla scoperta, da parte degli adolescenti, del mondo degli adulti: il titolo sta a indicare proprio l’affacciarsi delle nuove generazioni su una cultura dominante che viene però loro meramente imposta nella sua ipocrita stupidità.

“Frühlings Erwachen” affronta dunque il tema dei diritti della giovinezza che occupano impetuosi anche altre opere teatrali di Wedekind, “Lulù” tra tutte, con l’obiettivo di combattere i valori borghesi ottocenteschi, mitteleuropei in particolare. Il conflitto tra eros e morale descritto dall’autore fece sobbalzare la società guglielmina, anche per il linguaggio tagliente e per le situazioni grottesche nelle quali sono collocati i personaggi, destinati alla tragedia.

Moritz morirà suicida per i sensi di colpa nei confronti dei propri genitori, Wendla per un aborto praticato furtivamente, mentre Melchior è condannato al riformatorio e al bivio tra la reintegrazione e la fuga dalla socialità convenuta.

Ufficio stampa Cnr

Frank Wedekind, “Risveglio di primavera” (Il Melangolo, 2007)

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Il laico Soldati va a Lourdes

Appena ventottenne, Mario Soldati intraprende un viaggio a Lourdes per un’inchiesta giornalistica: il risultato è un reportage disincantato e, a tratti, spietato.

Nel 1934 Mario Soldati intraprese un viaggio a Lourdes: non per devozione, ma per un’inchiesta giornalistica.

Uno scrittore laico e un luogo di fede e di miracoli, raccontati con rigidissimi parametri razionalistici che oggi farebbero inorridire gli ‘atei devoti’ o i ‘teo-con’. Soldati non nasconde i suoi pregiudizi, li rivendica, con un’onestà intellettuale che nella Torino del tempo costituisce un coraggioso atto di anticonformismo.

Gli preme di evidenziare il classismo che il pellegrinaggio non annulla certo. Alla partenza, in mezzo alla città che conta, sparge subito sarcasmo a piene mani: “Di colpo, irrimediabilmente, mi trovai in mezzo ai preti” e a “poveri speciali, sono poveri cattolici”. Mette in discussione la sussiegosa filantropia cittadina, erede di De Amicis (un laico socialista, per inciso) più che di Don Bosco, ma – come un investigatore del Cicap a un congresso di guaritori – osserva criticamente anche la fede popolare.

Il pellegrinaggio è sofferenza e sacrificio solo per pochi malati gravissimi e per tutti gli altri, infermi inclusi, è occasione di fare un viaggio, “di divertirsi senza far nulla di male, compiendo anzi un’opera santa, acquistando meriti del Paradiso” scrive, sottolineando una contaminazione tra devozione e svago che non si capisce dove sia contraddittoria.

A Lourdes, il ventottenne Soldati trova una città allegra e continua a scandalizzarsi: “Se Assisi porta l’impronta dello spirito, Lourdes porta quella dello spiritismo”. Ma davvero il mistero deve necessariamente incarnarsi sempre nella semplicità francescana? Mettendo a fuoco il misticismo con lo sguardo spietato e disincantato del reportage, l’autore non vede ciò che non può vedere. ‘Un viaggio a Lourdes’ è accompagnato, in questa nuova edizione, da tre documenti che lo completano e lo spiegano.

Di Soldati, nel centenario della nascita, si ricorda anche l’uscita del Meridiano Mondadori che raccoglie cinque romanzi, di due Oscar (‘Vino al vino’ e ‘Le due città’), di ‘Un sorso di Gattinara e altri racconti’ per Interlinea e, infine, di ‘Amori miei’, raccolta di contributi edita da La Stampa.

Un profluvio di testi, doveroso omaggio a un grande protagonista della cultura italiana del ‘900.

Marco Ferrazzoli

Mario Soldati, “Un viaggio a Lourdes” (a cura di Salvatore Silvano Nigro, Sellerio editore Palermo, 2006)

La scheda sul sito dell’editore

Queneau e il suo romanzo… con meteo

L’epopea della famiglia Nabonide in un’opera visionaria e avventurosa, scritta nell’arco di quindici anni.

L’uscita di “Tempi duri, Saint Glinglin!” è un’operazione di coraggiosa raffinatezza letteraria, e smentisce l’assioma editoriale classista che riduce la Newton a semplice ‘ristampatrice’ di classici in volumoni a prezzo stracciato, su carta scadente e in corpi tipografici illeggibili. Il romanzo di Raymond Queneau esce nella collana dei “Grandi tascabili economici” con introduzione del critico letterario Renato Minore, traduzione e postfazione di Francesco Bergamasco, che si è sobbarcato un lavoro non semplice.

L’autore francese è notoriamente bizzarro e irregimentabile nei canoni letterari tradizionali. Ma mentre la sua fantasia, in opere come il celeberrimo “Esercizi di stile”, può essere seguita con divertito alleggerimento, in “Saint Glinglin” la complessità dell’opera richiede al lettore un impegno notevole, essendo frutto di una gestazione durata ben 15 anni, dal 1933 al ’48, e di una ispirazione dichiaratamente joyciana: ‘Ho voluto imitare l’Ulisse, cioè un romanzo con una struttura, con una forma fissa’, scrive Queneau a una lettrice. A tanto, si aggiungano poi le eruzioni lessicali e stilistiche tipiche dello scrittore e alcuni problemi di traduzione, a cominciare da quello che rischia di far equivocare il titolo: Saint Glinglin, cui è dedicata la ricorrenza che scandisce il tempo nella Città Natale, deriva da un’espressione che significa ‘alle calende greche’ o, come si direbbe gergalmente a Roma, ‘il giorno del poi, l’anno del mai’.

L’avventura è dunque ardua, ma interessante, e corredata da alcuni elementi di particolare curiosità come l’azione del coprotagonista Jean, che ha elaborato un sistema per far cambiare il tempo. Con il risultato che nella Città Natale non piove più.

Marco Ferrazzoli

Raymond Queneau, “Tempi duri, Saint Glinglin!” (Newton, 2007)

Un tunnel psicanalitico mitteleuropeo

Un’opera che rappresenta un viaggio personale e al tempo stesso storico, popolata da un dedalo di personaggi testimoni della complessità e delle atrocità del ventesimo secolo.

Un uomo rimasto solo al mondo si rivolge a una chiromante per entrare in contatto con il padre e il fratello defunti. La truffatrice lo imbroglia, sottraendogli tutti i beni, ma il protagonista riesce a rifarsi una vita in capo a cinque anni di duro lavoro. L’11 agosto 1999, assiste all’ultima eclissi solare del millennio. Poi ricorre alla psicanalisi.

È quasi dadaista, la trama di ‘Nel regno oscuro’ di Giorgio Pressburger. Il lettore che vuol affrontare il libro deve accettarne il plot caleidoscopico, degno delle scale di Escher. Per dare almeno una dimensione quantitativa della complessità di quest’opera, si tenga conto che in 330 pagine si ammassano ben 902 note. Viene in mente, a tratti, il ben più lineare ‘La malattia chiamata uomo’ di Ferdinando Camon, e il collegamento non dev’essere casuale, considerato che si tratta di due scrittori mitteleuropei, dunque provenienti della koinè che ci ha dato anche Svevo, Freud e Basaglia.

Non è questa, però, la sede nella quale indagare le complesse ragioni per le quali l’ex ombelico del mondo ha prodotto – durante la sua crisi epocale, che chiude non solo l’impero asburgico ma il predominio europeo sul pianeta – una fioritura culturale così ombelicale, lo studio tanto appassionato del sé e delle sue contraddizioni. Limitiamoci a segnalare, a chi ne fosse attratto, quest’opera nella quale il Novecento prende la forma di un inferno dantesco, popolato da persone imprigionate, uccise, torturate, suicide, sofferenti. Un tunnel che però prelude a una uscita insperata: il protagonista si avvia lentamente verso la guarigione, intravedendo nell’ultima seduta psicanalitica i suoi cari scomparsi.

Chi abbia una anche minima dimestichezza con tali questioni, sa bene che si tratta di un messaggio di straordinario ottimismo, anche se (anzi: proprio perché) in calce a un’opera tanto cupa, rispetto a una casistica reale che vede spesso i percorsi analitici non approdare a nessun risultato concreto.

Marco Ferrazzoli

Giorgio Pressburger, “Nel regno oscuro” (Bompiani, 2008)

https://www.bompiani.it/catalogo/nel-regno-oscuro-9788845261602

La grande poesia di Piersanti, tra natura e malattia

Nostalgia e ricordo, dolore di un padre e incomunicabilità di un figlio: i sentimenti profondamente autentici, tracciati dalla penna dell’autore in una emozionante raccolta poetica.

Capita raramente di imbattersi in un libro di poesia che, come “L’albero delle nebbie” di Umberto Piersanti, ci riavvicini alla grande sorgente classica e alla non meno grande tradizione otto-novecentesca italiana. Una poesia in cui si colgono echi di Ovidio, Pascoli, Carducci… una volta per una citazione, un’altra per lo stile o per il tema: ma tutto questo senza che si profili mai l’ombra del plagio, al contrario, in una rielaborazione personalissima, intima nell’afflato e nel ricordo eppure oggettiva fino al cinismo nella descrizione della realtà.

I temi affrontati nel libro sono due: le Cesane che hanno fatto da sfondo ad altri libri di Piersanti e il figlio Jacopo, malato di un’incomunicabilità inaccessibile anche per i suoi affetti più vicini. Nei versi più legati alla terra natìa, la particolare campagna appenninica del Montefeltro, l’autore si dispiega in una serie di indicazioni e descrizioni storiche, famigliari ed ambientali: dalla guerra ai riti domestici, fino alla dolce litania di specie animali e vegetali. E’ soprattutto nel paesaggio che il ricordo reale si fonde con un immaginario evocativo, profondamente nostalgico. Nella parte dedicata al figlio, invece, emerge lo strazio di un padre impotente che pure trova, dentro la propria sofferenza, la forza e la ragione sufficienti per vivere. I due temi, poi, si mescolano progressivamente, fino quasi a rincorrersi l’un l’altro nella terza parte del libro.

E’ davanti a opere come queste che si spiega come Piersanti abbia ottenuto una candidatura al Nobel per la letteratura.

Marco Ferrazzoli

Umberto Piersanti, “L’albero delle nebbie” (Einaudi, 2008)

L’informatico che sapeva troppo (presto)

Un saggio ”romanzato” sulle vicende della breve e straordinaria vita di Alan Turing, le cui intuizioni non smettono di sorprendere, anche dopo decenni, e di rivelare nuove strade per la scienza.

Il binomio genio-sregolatezza, forse follia, affascina sempre. Quello tra un grande scrittore e un grande personaggio realmente esistito, pure. Ecco dunque due buone ragioni per farsi vincere dal saggio, forse anche un po’ romanzo, che David Leavitt ha dedicato ad Alan Turing: “L’uomo che sapeva troppo”, titolo volutamente allusivo alla giallistica, che la copertina (una cornetta telefonica che penzola misteriosa) rimarca efficacemente. Turing è l’uomo che ha inventato il computer o, meglio, che lo ha intuito, lo ha precorso, gettando le basi dell’intelligenza artificiale quando ancora i pc erano molto lontani. Tra le altre cose, tanto per dare un’idea della sua statura intellettiva, Turing durante la Seconda guerra mondiale riuscì a violare il celeberrimo codice Enigma, creato dai tedeschi per le loro comunicazioni cifrate. Sospettato di attività sovversivo-spionistiche, accusato di atti osceni e omosessualità, suicidatosi in età ancora giovanile e in ‘circostanze misteriose’, tanto per usare una espressione tipica del noir, Turing è insomma un uomo la cui storia ha molte ragioni di attrattiva. E che ha colpito un maestro della letteratura americana come Leavitt, critico e storico nonché romanziere (tradotto in Italia da Mondadori), il quale ce ne rende la vicenda in uno stile asciutto, reso in modo molto pulito dalla traduzione di Carolina Sargian.

Marco Ferrazzoli

David Leavitt, “L’uomo che sapeva troppo” (Codice, 2007)

https://www.codiceedizioni.it/libri/alan-turing-l-uomo-che-sapeva-troppo/

In viaggio con Camon nella psicanalisi ‘ideologica’

Un romanzo che rappresenta un viaggio nell’inconscio di un uomo, attraverso il racconto del suo percorso clinico di analisi, e al tempo stesso fornisce una testimonianza storica e culturale della fine del ‘900.

Garzanti descrive “La malattia chiamata uomo”, in questa nuova edizione, come ‘la storia, forse raccontata per la prima volta dall’interno, di un’analisi’. Una presentazione forse eccessiva, solo che si pensi intanto a “La coscienza di Zeno” e soprattutto all’insuperato, per il coinvolgimento quasi empatico del lettore, “Le parole per dirlo” di Marie Cardinal. Detto ciò, l’operazione editoriale resta quanto mai opportuna: il romanzo di Ferdinando Camon uscito nel 1981, tre anni dopo quel “Un altare per la madre” che gli valse il premio Strega, non accusa il tempo ma anzi si afferma come una sorta di documento storico. Sia dal punto di vista narrativo, ad esempio nei riferimenti alla valuta in lire o nella descrizione dei viaggi notturni in treno, sia soprattutto nelle descrizioni delle esperienze di analisi intraprese.

Il romanzo è un ‘viaggio nell’inconscio di un uomo, fin là dov’è sconosciuto anche a se stesso e alle sue donne’, che si snoda per tappe penose e irritanti insieme, surreali e soggettive quanto concrete e reali. C’è il terapeuta autorevole che fuma incessantemente durante la seduta, del quale si avvertono effluvi e gorgoglii gastrico-intestinali e che, alla fine, non rilascia la ricevuta per l’intero importo, ridendo apertamente della propria afferenza al popolo degli evasori fiscali. Non manca il guru carismatico che maltratta i suoi pazienti, con plateali quanto soggettive discriminazioni, in uno sconcertante rapporto stoccolmiano.

Si tratta certo di figure che appartengono a un’analisi molto legata a quell’epoca fortemente ideologizzata, in senso sia freudiano sia politico. Oggi Camon, riscrivendo il libro, probabilmente tratteggerebbe i nuovi terapeuti ‘light’, i consulenti improvvisati, i taumaturghi pret-à-porter, ma al fondo resta la medesima, importante problematica di una professione dalle delicatissime implicazioni, spesso affrontata con molta prosopopea e scarsa professionalità. È fornendoci quest’importante spunto di riflessione che “La malattia chiamata uomo” dimostra la sua attualità. Confermata da alcune considerazioni dell’autore che mantengono intatta la loro validità: ‘La sostituzione del cuore naturale con un cuore artificiale’, scrive Camon, ‘questo è l’evento più grave della nostra storia negli ultimi decenni. Il fatto che nessun giornale lo nota, e tutti parlano di altri mali, è come se, al capezzale di un infartuato, i medici si preoccupassero anzitutto delle sue emorroidi’. Come suol dirsi, sembra scritta ieri.

Marco Ferrazzoli

Ferdinando Camon, “La malattia chiamata uomo” (Garzanti, 2008)

https://www.garzanti.it/libri/ferdinando-camon-la-malattia-chiamata-uomo-9788811683568/