In viaggio con Camon nella psicanalisi ‘ideologica’

Un romanzo che rappresenta un viaggio nell’inconscio di un uomo, attraverso il racconto del suo percorso clinico di analisi, e al tempo stesso fornisce una testimonianza storica e culturale della fine del ‘900.

Garzanti descrive “La malattia chiamata uomo”, in questa nuova edizione, come ‘la storia, forse raccontata per la prima volta dall’interno, di un’analisi’. Una presentazione forse eccessiva, solo che si pensi intanto a “La coscienza di Zeno” e soprattutto all’insuperato, per il coinvolgimento quasi empatico del lettore, “Le parole per dirlo” di Marie Cardinal. Detto ciò, l’operazione editoriale resta quanto mai opportuna: il romanzo di Ferdinando Camon uscito nel 1981, tre anni dopo quel “Un altare per la madre” che gli valse il premio Strega, non accusa il tempo ma anzi si afferma come una sorta di documento storico. Sia dal punto di vista narrativo, ad esempio nei riferimenti alla valuta in lire o nella descrizione dei viaggi notturni in treno, sia soprattutto nelle descrizioni delle esperienze di analisi intraprese.

Il romanzo è un ‘viaggio nell’inconscio di un uomo, fin là dov’è sconosciuto anche a se stesso e alle sue donne’, che si snoda per tappe penose e irritanti insieme, surreali e soggettive quanto concrete e reali. C’è il terapeuta autorevole che fuma incessantemente durante la seduta, del quale si avvertono effluvi e gorgoglii gastrico-intestinali e che, alla fine, non rilascia la ricevuta per l’intero importo, ridendo apertamente della propria afferenza al popolo degli evasori fiscali. Non manca il guru carismatico che maltratta i suoi pazienti, con plateali quanto soggettive discriminazioni, in uno sconcertante rapporto stoccolmiano.

Si tratta certo di figure che appartengono a un’analisi molto legata a quell’epoca fortemente ideologizzata, in senso sia freudiano sia politico. Oggi Camon, riscrivendo il libro, probabilmente tratteggerebbe i nuovi terapeuti ‘light’, i consulenti improvvisati, i taumaturghi pret-à-porter, ma al fondo resta la medesima, importante problematica di una professione dalle delicatissime implicazioni, spesso affrontata con molta prosopopea e scarsa professionalità. È fornendoci quest’importante spunto di riflessione che “La malattia chiamata uomo” dimostra la sua attualità. Confermata da alcune considerazioni dell’autore che mantengono intatta la loro validità: ‘La sostituzione del cuore naturale con un cuore artificiale’, scrive Camon, ‘questo è l’evento più grave della nostra storia negli ultimi decenni. Il fatto che nessun giornale lo nota, e tutti parlano di altri mali, è come se, al capezzale di un infartuato, i medici si preoccupassero anzitutto delle sue emorroidi’. Come suol dirsi, sembra scritta ieri.

Marco Ferrazzoli

Ferdinando Camon, “La malattia chiamata uomo” (Garzanti, 2008)

https://www.garzanti.it/libri/ferdinando-camon-la-malattia-chiamata-uomo-9788811683568/

I matti “creativi” di Stampa Alternativa

Due opere pubblicate nel trentennale della legge 180 del 1978, nota come legge Basaglia, in cui le protagoniste raccontano in forma di diario la propria esperienza di malattia mentale.

A breve distanza da “Tanto scappo lo stesso”, il “romanzo di una matta” di Alice Banfi, esce “La schizofrenia non esiste, e se esistesse io vorrei averla” di Gianna Schiavetti. Stampa Alternativa prosegue così, a ritmo incessante, in un filone narrativo nel quale si è affermata con un predominio quasi monopolistico: la diaristica dei malati o ex malati di mente.

I volumi, gran parte dei quali raccolti nella collana Eretica, sono connotati da elementi distintivi precisi: una titolazione battutistica e provocatoria, la cura o la prefazione di psichiatri di scuola basagliana (nei due casi citati Enrico Baraldi e Peppe dell’Acqua) e la tesi, o almeno l’impressione di fondo, che la follia possa essere considerata una visione alternativa della realtà, più o meno valida come quella ortodossa. In tale quadro, la pretesa della medicina di ricondurla ad un paradigma di salute oggettivo, si risolverebbe epistemologicamente – oltre che nella prassi terapeutica, come purtroppo accade spesso – in una coercizione della libertà mentale e della creatività dell’individuo.

Tale visione, molto romantica, si scontra però non soltanto con il vissuto di lacerante sofferenza che le patologie psichiche portano negli individui e nelle famiglie (elemento ben descritto anche nei libri di Stampa Alternativa), ma anche con una sintomatologia che non sempre è quella magari drammatica, ma scenografica, raccontate da queste storie. Spesso il disagio e la alienazione sociale si somatizzano con atteggiamenti depressivi e problematiche di asocialità di nessun fascino e di peso insopportabile.

Marco Ferrazzoli

Alice Banfi, “Tanto scappo lo stesso” (Stampa Alternativa, 2008)

Gianna Schiavetti, “La schizofrenia non esiste, e se esistesse io vorrei averla” (Stampa Alternativa, 2008)

Uccidere per pietà: quando l’handicap è la solitudine

Un libro doloroso, un dramma che testimonia le difficoltà dei familiari di persone portatrici di handicap gravi e sottolinea ancora una volta la necessità di investire sulle strutture sanitarie e sulla rete assistenziale.

Molti ricorderanno un caso che, pur nell’ormai quasi routinaria concitazione della cronaca nera domestica, ha colpito fortemente gli italiani che ne ebbero notizia: nel 2003 un borghesissimo medico romano uccise il figlio autistico, dopo l’ennesima giornata di vessazioni alle quali il ragazzo sottoponeva costantemente i genitori, nella totale solitudine familiare. Poco tempo dopo, relativamente ai tempi non fulminei della magistratura italiana, il padre, condannato per omicidio, veniva graziato dal presidente della Repubblica.

In questo libro che rievoca la storia della famiglia, basandosi soprattutto sugli appunti e sulle riflessioni disperate e dolenti dell’uomo, si intersecano numerosi piani di lettura. Uno, il più convincente, riguarda appunto la solitudine in cui vengono lasciate le famiglie degli handicappati gravi. Solitudine va qui inteso in un significato molto concreto e complesso: la forma autistica di Sergio, nato negli anni ’60, viene diagnosticata con un ritardo dovuto alla scarsa informazione del sistema sanitario italiano su questa patologia. Purtroppo, tale ritardo viene colmato, essendo la sintomatologia del bambino assai precoce ed eclatante, da una serie di valutazioni e terapie errate e costose. Ma anche dopo avere individuato che, purtroppo, Sergio soffre della forma più grave e aggressiva di questo ritardo mentale, l’appoggio delle strutture sanitarie pubbliche e private alla famiglia è irrisorio, spesso irritante e offensivo.

Molto meno convincente è la valutazione che l’autore de “Il mondo di Sergio” fa prendendo le mosse non dall’episodio dell’assassinio ‘per pietà’ ma dalla grazia concessa al padre dal Quirinale. Mauro Paissan estende infatti il concetto della pietà ‘pubblica’ alle richieste, spesso mosse in questi ultimi anni, di consentire l’eutanasia o il ‘suicidio assistito’ degli handicappati e dei malati incurabili. In realtà, l’esperienza di papà Salvatore e di sua moglie attestano che la morte non è il rimedio necessario, laddove si sollevino i cari dei malati dall’onere totale della cura e in particolare dall’angosciante domanda del ‘dopo di noi’: l’atto estremo raccontato nel libro avviene non tanto per l’esasperazione delle percosse, dei soldi dilapidati, della distruzione materiale e morale della casa, ma soprattutto perché il genitore si vede giunto a un’età nella quale la sua possibilità di accudire il figlio va esaurendosi, senza che le strutture prospettino all’ormai quarantenne Sergio una assistenza civile e dignitosa.

Marco Ferrazzoli

Mauro Paissan, “Il mondo di Sergio” (Fazi, 2008)

Esordio letterario di un giovane fisico

Un imperdibile romanzo d’esordio, ormai un caso letterario, trasposto nel 2010 in un toccante film.

Paolo Giordano è un giovane fisico, dottorando all’Università di Torino, e più di qualcosa della sua biografia dev’essere impresso nella figura del protagonista del suo romanzo d’esordio: il Mattia di “La solitudine dei numeri primi”, un geniale fisico che lavora come docente e ricercatore presso un’ateneo nordeuropeo. Ma, soprattutto, la formazione scientifica dell’autore si riflette nella precisa ingegneria del libro: la scansione temporale dei capitoli che accompagnano Mattia e la coprotagonista Alice, l’alternanza tra forma diretta e indiretta del racconto, il passaggio dal Bildungsroman (romanzo di formazione) alla storia d’amore, l’inserimento dei personaggi minori. La descrizione della crudeltà che bambini e adolescenti sono capaci di esprimere con i coetanei, ad esempio, è raccontata con efficacissima discrezione.

Ma la miglior riuscita, Giordano la raggiunge nella descrizione dello sgomento con cui gli adulti affrontano le difficoltà di crescita dei ragazzi e in particolare il confronto con l’handicap, tema centrale che il titolo esprime con un’efficace metafora matematica. Mattia, dopo aver provocato la scomparsa della gemella Michela (ritardata mentale), palesa pesanti sintomi autolesionistici e una sindrome autistica descritta in modo un po’ forzato, secondo lo schematismo invalso nella fiction dopo il successo di “Rain Man”. Molto più convincente la descrizione di Alice, anoressica e claudicante dopo un incidente di sci avvenuto da bambina.

La storia si perde solo nella ricerca un po’ sovresposta (per usare un’immagine della professione di Alice, fotografa) della ‘quadra’ finale. Ma, nel complesso, Giordano si candida come l’autorevole erede della narrativa formalmente fredda ma molto intensa nei contenuti che fu del miglior Andrea de Carlo, specialmente dopo gli ultimi e deludenti esiti dello scrittore milanese.

Marco Ferrazzoli

Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori, 2010)

https://www.mondadoristore.it/La-solitudine-dei-numeri-primi-Paolo-Giordano/eai978880458965/

Giovani, vittime del nulla

Un libro sui giovani e sul loro rapporto con famiglia, scuola e società, che sembrano averli confinati in spazi vuoti, senza prospettive. Un invito a valorizzare l’altro e a curare il processo di formazione dell’identità come antidoto al vuoto.

Si utilizzano termini diversi, per definire più o meno lo stesso concetto: depressione, apatia, indifferenza, talvolta ‘antipolitica’ o, di recente, ‘implosione’. Ciò che si vuole esprimere è il nulla che la nostra società sembra avere posto al centro della propria vita. Umberto Galimberti preferisce rimandare al termine più corretto: ‘nichilismo’. Non solo perché deriva appunto da ‘nihil’, niente, ma perché tale processo ha precedenti storico-filosofici precisi, che sono stati codificati proprio con tale termine. Galimberti si dedica alla crisi valoriale contemporanea da molto tempo, con la puntualità quasi quotidiana che le collaborazioni giornalistiche gli consentono e da un duplice punto di vista, filosofico e psicologico. E’ infatti docente di entrambe le discipline presso l’Università di Venezia. Quest’ambivalenza gli consente di non distorcere l’analisi, come agli specialisti dell’uno o dell’altro campo spesso capita, concentrandosi solo sugli aspetti individuali della crisi (il calo di serotonina, per capirci), oppure banalizzando i meccanismi di induzione ed emulazione (la facile eziologia che di volta in volta chiama in causa la famiglia, la scuola, i media). Va anche detto con franchezza che a rendere credibile l’analisi di Galimberti è la sua disinibizione ideologica, che gli permette, senza assumere nessuna posizione ottusamente conservatrice, di rifiutare recisamente la mitologia progressista. Anzi, la ‘razionalizzazione tecnico-scientifica’ e il ‘politeismo dei valori’ sono messi sotto accusa chiaramente, sin dall’inizio de “L’ospite inquietante”, come i correi di quello che possiamo definire, citando Nietzsche, il ‘circolo dei valori superati e lasciati cadere’. L’attenzione del libro si incentra sulle conseguenze provocate dal nichilismo sui giovani, che in quanto più fragili sono le vittime predilette del vuoto, il quale tramite loro paradossalmente costituisce il proprio futuro, le fondamenta del ‘nulla futuro’.

Marco Ferrazzoli

Umberto Galimberti, “L’ospite inquietante” (Feltrinelli, 2007)

https://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/lospite-inquietante/

Meriti e limiti della rivoluzione basagliana


Le voci delle persone fuoriuscite dai manicomi raccolte dall’autore, testimonianze di vite che rinascono, in un testo che offre un’ampia comprensione di un momento cruciale della storia della psichiatria.

 

Negli anni ’70, Peppe dell’Acqua è un giovane psichiatra che collabora con Franco Basaglia. Di quella rivoluzione cui partecipò in prima persona, resta una testimonianza ricca e complessa in “Non ho l’arma che uccide il leone” (il titolo prende spunto dall’opera naive di un paziente del manicomio triestino di San Giovanni), un libro che smentisce recisamente il diffuso luogo comune sull’“incurabilità” della malattia mentale, riportando casi di persone tornate ad una vita dignitosa e socialmente accettabile.

In tal modo, però, dell’Acqua conferma anche i due limiti ancora insuperati della riforma basagliana. Intanto, nessuna “guarigione” è possibile senza un contesto disponibile ad accogliere la persona con problemi psichici, eventualmente uscita da un percorso ospedaliero. Psichiatra, terapia e farmaci possono smussare i sintomi, aiutare il paziente a ritrovare e mantenere l’equilibrio, che però rimane fortemente a rischio senza una famiglia, un gruppo amicale, un ambiente di lavoro, un paese, un quartiere o una città che forniscano un supporto sociale e affettivo adeguato. Proprio sulla carenza di tale sponda si è infranta la piena applicazione della Legge 180, spesso limitatasi “italianamente” a scaricare sulle famiglie il peso di persone talvolta pericolose da un punto di vista della sicurezza, propria e altrui. Un problema reso ancor più drammatico dalla deriva che ci sta portando verso una società sempre più alienante e alienata, priva di senso comunitario e di partecipazione.

L’altro importante aspetto documentato dal libro, riproposto da Stampa Alternativa con una prefazione inedita dello stesso Basaglia, è la situazione manicomiale italiana dell’epoca: lager nei quali si praticavano con indifferenza – a volte con sadica superficialità – elettroshock, lobotomia e pratiche contenitive ai limiti della tortura, specie per gli ‘agitati’. E’ qui però l’altro limite dell’esperienza triestina: superato l’orrore del manicomio coattivo, restituita al malato di mente la sua dignità di persona intangibile nei diritti fondamentali, non sappiamo ancora quale sia la “salute” cui possa essere condotto. Oltre a intervenire sulla sintomatologia e sulla sofferenza, la psichiatria cosa può e deve fare?

Il libro, nel rispondere a questa domanda, risente dell’impostazione pericolosamente ambigua riassunta da una frase di Basaglia: ‘La follia è vita, tragedia, tensione. E’ una cosa seria. La malattia mentale, invece, è il vuoto, è il ridicolo”. La malattia mentale, come e più di ogni malattia, è soprattutto dolore. E cosa sia la follia, probabilmente, ancora non lo sappiamo.

 

Marco Ferrazzoli

 

Peppe dell’Acqua, “Non ho l’arma che uccide il leone” (Stampa Alternativa, 2007)

La magia del Sud scoperta da De Martino


Nel 1959 l’equipe guidata dall’antropologo Ernesto De Martino raccolse interviste a donne e uomini colpiti da tarantismo, restituendo uno studio accurato e affascinante del fenomeno e delle sue ritualità.

 

Riletta a mezzo secolo di distanza, l’etnologia di Ernesto De Martino conserva il suo fascino intatto, se non aumentato, ma insieme denuncia la propria vetustà. Non soltanto perché l’oggetto degli studi del maestro napoletano, nel frattempo, è stato completamente stravolto, potremmo dire estirpato, ma soprattutto perché oggi sarebbe impensabile riproporre un approccio scientifico come quello adottato ne ‘La terra del rimorso’.

Il Saggiatore pubblica questo testo in una nuova edizione, arricchita da un dvd contenente la masterizzazione del disco con i commenti demartiniani, originariamente uscito in vinile, un documento sonoro realizzato da Diego Carpitella e il video dello stesso Carpitella nell’edizione restaurata del 1995. ‘La terra del rimorso’ tratta di tarantismo, particolare e misteriosa forma rituale diffusa all’epoca in Puglia, una sorta di danza che viene condotta con accompagnamento di un gruppo di suonatori, dalla motivazione apotropaica e offertoria (al finale si porta la somma raccolta ad una cappella dedicata ad un Santo). L’iter è documentato in un inserto fotografico, altro utile contributo di quest’edizione, insieme con un apparato critico aggiornato.

Rispetto ai tempi di questa “spedizione etnografica”, il Salento è cambiato non solo nella sostanza – l’evoluzione socio-economica, l’industrializzazione, il turismo, la globalizzazione… – ma anche nella stessa rappresentazione di certe tradizioni, ormai adattate (o, forse, omologate) alla società post-moderna. La taranta oggi è oggetto di un Festival ad alto richiamo turistico e costituisce, insieme con i Negramaro (intesi sia come gruppo musicale, sia come vitigno), parte dell’immagine esotica e viscerale, calda e forte che rende quest’angolo di Puglia tanto amato e visitato.

Ai tempi di De Martino, invece, questa terra e la sua religiosità venivano approcciate appunto con atteggiamento ‘etnologico’, volto a verificare i retaggi di tradizioni ancestrali, con la stessa curiosità che si dedicava allo sciamanesimo asiatico o africano. Tant’è che De Martino nella sua missione si fa accompagnare da uno psichiatra, uno psicologo, un musicologo e un sociologo: da un lato dando prova di un atteggiamento multidisciplinare intelligente e anticipatorio, almeno per l’Italia, dall’altro denotando la convinzione che talune forme di contatto con il ‘sacro’ rimandassero a un ambito nel quale si sfumano persino i contorni della sanità mentale. E comunque, il mito in questo caso viene inevitabilmente legato con le crisi reali di latrodectismo, l’avvelenamento causato da vedova nera o malmignatta: il cosiddetto ‘morso della taranta’.

Nel Salento, De Martino e i suoi vanno con la curiosità culturale di rinvenire e registrare un pezzo di “mondo magico”, confermando la permanenza nell’Occidente ‘avanzato’ di un mondo ‘altro’ rispetto a quello delle Chiese ufficiali ma a queste ricondotto: la taranta, infatti, viene in qualche modo assorbita nella ritualità cattolica. Di tale impostazione etnografica resta nel libro, sin dal sottotitolo “Contributo a una storia religiosa del Sud”, una traccia insieme valida e datata.


Marco Ferrazzoli

 

Ernesto De Martino, “La terra del rimorso” (Il Saggiatore, 2009)

https://www.ilsaggiatore.com/libro/la-terra-del-rimorso-4/

La pecora nera


Attraverso il protagonista Nicola, l’autore fa rivivere le memorie dei manicomi, tra pianto e risate, luci ed ombre.

 

Ascanio Celestini è, con Marco Paolini e Duccio Camerini, uno degli affabulatori più efficaci del nostro teatro. La sua grande capacità narrativa poggia su un uso ‘gaddiano’ del romanesco, che accentua la immediatezza del racconto senza ridurlo in termini localistici, e un tono apparentemente svagato e sopra le righe.

Una caratteristica comune a questi attori, peraltro, è proprio il porsi come personaggi ai confini, border-line, voci di un’umanità marginale che, altrimenti, verrebbe ridotta al silenzio.

L’intento diviene particolarmente evidente con questo ‘La pecora nera’, un percorso creativo dentro la malattia mentale in cui Celestini ha voluto fare da cicerone mediante il protagonista Nicola e il suo doppio, tra le illuminazioni e le confusioni di un percorso scavato nel buio. Attraverso le testimonianze e le memorie di infermieri, medici e pazienti, l’autore spiega non solo che l’istituzione manicomiale è di fatto ancora attiva, ma soprattutto che le parole e le paure dei ‘matti’ sono ben vive dentro ognuno.

Le storie raccontate in questo libro hanno il proposito di commuovere e divertire, senza remore nello sfruttare l’appeal comico della follia, che qualcuno ritiene erroneamente politicamente scorretto, mentre invece, da sempre, la risata è uno dei ponti possibili per instaurare il dialogo tra i mondi della ‘normalità’ e della malattia mentale.

 

Marco Ferrazzoli

 

Ascanio Celestini, “La pecora nera” (Einaudi editore, 2006)

https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/la-pecora-nera-ascanio-celestini-9788806184018/

Quando l’Alzheimer diventa poesia


Il toccante atto d’amore del poeta Alberto Bertoni verso il padre malato, in una raccolta poetica che dà voce anche ai familiari ed alle loro “umanissime reazioni”.

 

Docente di Letteratura a Bologna, critico, curatore di antologie poetiche, Alberto Bertoni ci consegna un libro che colpisce per la traduzione di un serio problema familiare e personale in versi di grande asciuttezza, quasi “clinici”. “Ricordi di Alzheimer” – titolo ossimorico o almeno fortemente provocatorio, considerato come questa patologia colpisca a fondo, tra varie facoltà cognitive, quelle mnemoniche – racconta il rapporto dell’autore con il padre malato: affettuoso, amorevole, nostalgico, ma tutt’altro che immune dalle umanissime reazioni che la terribile patologia induce nei parenti che accudiscono chi ne viene colpito.

‘E’ noto che l’Alzheimer tende a distruggere la vita non solo dei pazienti ma anche dei loro familiari: io non ho fatto eccezione’, scrive sinceramente l’autore nell’introduzione. Mentre, nelle poesie, leggiamo un accorato: ‘Papà, non sopporto / le tue sofferenze / Le tue depressioni improvvise, il terrore / quotidiano di morire’. E ancora: ‘Oggi non sopporto mio padre / Voglio che il cane dietro l’inferriata / gli morda la mano gliela inghiotta’. Nei versi c’è spazio anche per quel tocco d’amara ironia con il quale, talvolta, si prova ad alleggerire la dolorosa fatica di assistere un parente non più in sé: ‘Con le nuove targhe / non si raccapezza più mio padre / tutto un Arezzo, Avellino, Campobasso / così domanda se in blocco i modenesi / oggi vanno a piedi’.

La storia termina con la scomparsa del genitore e con un dolore nella cui descrizione potrà riconoscersi chiunque ci sia passato attraverso: ‘Mi sembrava un attimo fa / ed invece era già / nel millennio passato / l’ultima volta che abbiamo parlato… / Oggi non c’è il babbo? / chiede il cameriere grasso / e non sa cos’avrei pagato / per trascinarti a pranzo’.

Le poesie sono molto belle: anche quelle in dialetto e quelle dedicate a un curioso episodio occorso all’autore, una molto kafkiana larva di insetto sottocutanea, ‘partorita’ dal polso. E “Ricordi di Alzheimer” è un libro importante poiché, esprimendo senza far ricorso all’enfasi alcuni sentimenti fondamentali dell’animo umano, come la tenerezza, dimostra come la poesia possa essere la modalità espressiva privilegiata per “oggettività”, proprio in quegli ambiti esistenziali che oggi vengono invasi irriguardosamente dalla pateticità di altri mezzi, quali il giornalismo.

 

Marco Ferrazzoli


Alberto Bertoni, “Ricordi di Alzheimer” (Book Editore, 2008)

L’illusione della droga ‘sociale’


Una testimonianza lucida e un viaggio all’interno del mondo delle droghe “leggere”, con l’invito ad aprire gli occhi e a guardare il dramma che è presente, soprattutto tra i giovani.

Circa quattro milioni di italiani nell’ultimo anno hanno fatto uso di droghe ‘leggere’.  E’ uno dei dati dai quali parte l’analisi di ‘Degenerazioni. Droga, padri e figli nell’Italia di oggi’ (Rubbettino). Il giornalista e saggista Alessandro Barbano vi ha raccolto dati ed esperienze che confermano come abuso e dipendenza siano solo la cartina di tornasole di una società in cui si è rotto il ruolo generazionale, nella quale le istituzioni formative (scuola, famiglia) hanno abdicato al loro ruolo.

Non si tratta dunque semplicemente di un libro sulla tossicodipendenza, ma di un saggio documentato e – insieme – una testimonianza appassionata sulla “crisi dei valori che ad essa si connette”. Bisogna guardare alla realtà del dramma e non ai fumi delle utopie, spiega l’autore, chiedendo: ‘Che peso ha oggi la categoria dei doveri nell’etica, nell’impegno politico e sociale, nell’educazione?’.

Il libro punta prima l’indice di tutto sui genitori, gli insegnanti, gli adulti. ‘La droga spesso diventa un segreto di famiglia, condiviso tra le generazioni con un silenzio complice’, spiega l’autore, come ‘un male oscuro che dalla famiglia si proietta sulla scuola e in tutti i presidi formativi. Il processo di disintegrazione della morale pubblica è così compiuto’. E la scuola, grande assente sulla droga, è la stessa ‘scuola che non vede il disagio, bullismo o droga, che arretra di fronte al disagio, che lo rimuove. Che ha totalmente chiuso gli occhi e ignora la devastazione, per debolezza e incompetenza. In parte perché i suoi insegnanti sono gli stessi padri cresciuti nel mito della trasgressione. E per difendersi da un accerchiamento capillare di cui ha percepito il pericolo’.

Barbano parla di ‘schiavitù inconsapevole’, per definire una situazione di arrendevolezza ‘in cui il massimo di libertà coincide con il minimo di libertà, la potenza coincide con la debolezza, l’autonomia coincide con la dipendenza, l’intelligenza con la cecità’. Una schiavitù di cui la diffusione della cocaina, con il suo ‘brodo di coltura’ alimentato ‘dagli esempi di modelle e testimonial dalla narice larga, nella cui vita la coca ha un alone di fascino’, è la principale evidenza. ‘Ma su quest’evidenza la società ha chiuso gli occhi’, avverte Barbano, facendoci tornare persino indietro rispetto agli anni ’70 e ’80 dell’eroina e del suo inferno di solitudine e di esclusione. Già, perché la nuova droga garantisce una illusoria, pericolosa ‘socialità fittizia’.

Marco Ferrazzoli

Alessandro Barbano, “Degenerazioni. Droga, padri e figli nell’Italia di oggi” (Rubbettino, 2008)

https://www.store.rubbettinoeditore.it/autore/alessandro-barbano/