Il Giocatore

L’anziana Antonida Vasil’evna, in compagnia del protagonista del romanzo, Aleksej Ivànovic, si dedica con fervore al gioco d’azzardo. Dostoevskij descrive in queste pagine memorabili la lenta, progressiva ed inarrestabile metamorfosi dalla curiosità alla ludopatia dell’anziana signora.

La nonna si gettò senz’altro sullo zéro e subito mi ordinò di puntare dodici federici per volta. Puntammo una volta, una seconda, una terza, lo zéro non usciva. «Punta, punta!» mi urtava la nonna impaziente. Io obbedivo.
«Quante volte abbiamo perduto?» ella domandò infine digrignando i denti dall’impazienza.
«Abbiamo già puntato dodici volte, nonna. Abbiamo perduto centoquarantaquattro federici. Ve lo dico, nonna, fino a stasera magari…»
«Taci!» interruppe la nonna. «Punta sullo zéro e punta subito sul rosso mille fiorini. To’, ecco un biglietto.»
Uscì il rosso e lo zéro fece nuovamente cilecca, ci restituirono mille fiorini.
«Vedi, vedi!» sussurrava la nonna «ci han restituito quasi tutto quel che avevamo perduto. Punta di nuovo sullo zéro; punteremo ancora una decina di volte, poi smetteremo.»
Ma alla quinta volta la nonna fu stufa.
«Manda al diavolo questo ignobile zeruccio. To’, punta quattromila fiorini, tutti sul rosso» ordinò.
«Nonna! È molto; e se il rosso non uscisse!» supplicavo; ma la nonna per poco non mi batté. (E del resto tanto mi urtava che quasi si può dire mi picchiasse.) Non c’era che fare, puntai sul rosso tutti i quattromila fiorini vinti poc’anzi. La ruota si mise a girare. La nonna, raddrizzata la persona, stava a sedere calma e orgogliosa, non dubitando della immancabile vincita.
«Zéro» annunciò il croupier.
Sulle prime la nonna non capì, ma quando vide il croupier rastrellare i suoi quattromila fiorini, insieme con tutto quel che c’era sul tavolo, e seppe che lo zéro, che da tanto tempo non usciva e sul quale avevamo perduto quasi duecento federici era balzato fuori, come a farlo apposta, quando la nonna lo aveva appena ingiuriato e abbandonato, mandò un «ah!» e batté insieme le mani da farsi udire in tutta la sala. In giro si rise perfino.«Padri miei! Proprio adesso è saltato fuori il maledetto!» urlava la nonna «ve’, che dannato, che dannato! La colpa è tua! Tutta la colpa è tua!» si scagliò furiosamente contro di me dandomi spintoni. «Sei stato tu a dissuadermi.»
«Nonna, io vi ho detto cose giuste, come posso io rispondere di tutte le probabilità?»

Te le darò io le probabilità!» sussurrava lei minacciosa «vattene, lontano da me.»
«Addio, nonna» e mi voltai per andar via.
«Aleksej Ivanovič, Aleksej Ivanovič, rimani! Dove vai? Be’, perché, perché? Ve’, si è arrabbiato! Scemo! Via, rimani, rimani ancora, via, non adirarti, sono io stessa una scema! Su, dimmi, su, che fare adesso?»
«Io, nonna, non mi prendo la briga di suggerirvi, perché poi incolpereste me. Giocate da voi sola; ordinate, io punterò.»
«Via, via! Su, punta ancora quattromila fiorini sul rosso! Ecco il portafogli, prendi.» Cavò di tasca il portafogli e me lo porse. «Su, prendili in fretta, qui ci sono ventimila rubli in contanti.»
«Nonna» balbettai «tali puntate…»
«Voglio piuttosto morire, ma mi rifarò. Metti!» Puntammo e perdemmo.

Fëdor Dostoevskij

Fonte: Fëdor Dostoevskij, Il Giocatore, traduzione di Alfredo Polledro, Mondadori, 2016

Madame Bovary

Madame Bovary in questo brano ha deciso di darsi la morte con l’arsenico, emulando le grandi eroine del mondo della finzione letteraria d’amore del quale lei è rimasta vittima e prigioniera. La realtà è tuttavia ben diversa dai romanzi d’amore: l’arsenico le procurerà dei dolori inimmaginabili.

Un sapore acre in bocca la svegliò. Intravide Charles e richiuse gli occhi.

Spiava le proprie sensazioni per rendersi conto se cominciasse a star male. Ma no, non ancora. Sentiva il ticchettio della pendola, il rumore del fuoco e Charles, in piedi al suo capezzale, che respirava.

“Ah! È una cosa ben da poco la morte” pensava. “Dormirò e tutto sarà finito!”

Bevve un sorso d’acqua, e si voltò verso il muro. Quell’orribile sapore di inchiostro continuava.

«Ho sete!… Oh! Ho una sete terribile!» sospirò.

«Ma che cos’hai, insomma?» disse Charles, porgendole un bicchiere d’acqua.

«Non è nulla!… Apri la finestra… Soffoco!»

E fu afferrata dalla nausea così d’improvviso che ebbe appena il tempo di prendere il fazzoletto sotto il cuscino.

«Portalo via!» disse con vivacità «Buttalo!»

Charles le fece domande alle quali Emma non rispose. Rimaneva immobile, temendo che la più piccola emozione la facesse vomitare. Sentiva però un freddo di gelo salirle dai piedi fino al cuore.

«Ah! Ecco che comincia!» mormorò.

«Che dici?»

Voltò la testa con un movimento lento, pieno di angoscia, aprendo e chiudendo di continuo la bocca come se avesse avuto sulla lingua qualcosa di molto pesante. Alle otto, i conati di vomito ricominciarono.

Charles osservò sul fondo della bacinella qualcosa di simile a granelli bianchi attaccati alle pareti di porcellana.

«È straordinario! È una cosa stranissima!» ripeteva.

Ma Emma disse ad alta voce:

«No, ti sbagli!»

Allora, delicatamente, quasi la carezzasse, Charles le passò una mano sullo stomaco. Emma gettò un grido acuto. Charles si tirò indietro spaventato.

Poi la signora Bovary si mise a gemere, dapprima debolmente. Grandi brividi le scotevano le spalle e diventava più pallida del lenzuolo nel quale affondava le dita contratte. Il polso, aritmico, era quasi impercettibile, adesso.

Gocce di sudore gemevano dal viso cianotico che sembrava quasi irrigidito nell’esalazione di un vapore metallico. I denti battevano, gli occhi dilatati guardavano vagamente tutto intorno e a ogni domanda Emma rispondeva scotendo il capo; sorrise addirittura una o due volte. A poco a poco i gemiti si fecero più forti. Un urlo soffocato e continuo le sfuggiva; voleva far credere di stare meglio e che ben presto si sarebbe alzata ma le presero le convulsioni, gridava:

«Ah! È atroce, mio Dio!»

Gustave Flaubert

https://www.liberliber.eu/mediateca/libri/f/flaubert/madame_bovary/pdf/flaubert_madame_bovary.pdf

https://www.liberliber.eu/mediateca/libri/f/flaubert/madame_bovary/pdf/flaubert_madame_bovary.pdf

Discutibile, disgustosa, inammissibile pedofilia

Dal sito dell’Associazione Culturale Clara Maffei la recensione di un pamphlet intitolato “Vanessavirus”, dedicato alla vicenda di Gabriel Matzneff. Lo scrittore francese, molti anni dopo i fatti, è stato accusato di pedofilia da Vanessa Springora, all’epoca quattordicenne, con la quale aveva intrattenuto una relazione nonostante i circa 40 anni di differenza di età. Lo scrittore, braccato dalla polizia francese, si è rifugiato in Italia, dove ha dato alle stampe la propria versione della vicenda, il pamphlet è stato tradotto da Giuliano Ferrara e pubblicato da Liberilibri. Un’operazione che viene definita “quantomeno discutibile”. Quello che ci interessa qui è però l’uso del suffisso “virus” per attualizzare la vicenda ai tempi della pandemia e ricalcare il frequente uso del riferimento morale, sociale o cultural ai contagi


La frequente considerazione secondo la quale i nostri atteggiamenti istintivi andrebbero subordinati al ragionamento incontra nella pedofilia una delle contraddizioni più pesanti. Sul tema del rapporto sessuale con bambini, infatti, sembra conveniente far prevalere il pregiudizio culturale del divieto assoluto anziché imbarcarsi in disquisizioni teoriche che rischiano di aprire derive permissive pericolosissime. Detto ciò, è altrettanto evidente che qualunque condanna senza appello e, in qualche modo, senza neppure processo rischia anch’essa di dare il “la” a pericolose tentazioni colpevoliste e forcaiole, contraddicendo i fondamentali del nostro stato di diritto.

Quanto la questione sia complessa lo hanno attestato di recente due operazioni culturali. La prima è la docu-fiction di Amazon “Veleno”, che ha riportato alla luce una vicenda giudiziaria svoltasi a fine millennio scorso nella bassa modenese e che giornalisticamente prese il titolo di “diavoli”, termine attribuito ai genitori e agli adulti accusati presunti abusi su bambini. Le condanne e le conseguenze furono pesantissime: 16 figli furono allontanati dai loro genitori; il sacerdote considerato il vertice della squallida cupola di pervertiti morì di infarto mentre si trovava nello studio del suo legale, dopo avere assistito alla requisitoria con la quale lo si accusava di vomitevoli nefandezze; una delle mamme accusate si tolse la vita, dichiarando nell’ultimo messaggio la propria innocenza. Le vite di tutte le persone coinvolte sono state distrutte per sempre.

Alcuni anni dopo un giornalista, Pablo Trincia, decise di dedicare a questa vicenda un’attenzione fuori dal comune che produsse un reportage audio nel quale tutta la conduzione della vicenda da parte della magistratura e degli assistenti sociali fu illuminata nelle sue non poche zone d’ombra, tanto che l’esito finale del lavoro del cronista è tendenzialmente innocentista. Ora il lavoro di Trincia, già pubblicato in podcast da Repubblica, è stato trasformato da Amazon in una docu-fiction seriale di grande efficacia, come sempre nei prodotti di questo broadcaster. La percezione che tutto il castello costruito sui “diavoli della bassa modenese” poggiasse su fondamenta fragilissime si è ulteriormente rafforzata, grazie anche alle ampie e approfondite testimonianze rese dai genitori e dagli adulti le cui vite sono state sconvolte dalle testimonianze di alcuni bambini. 

Uno di questi ex bambini, dalle cui accuse si montò la terribile vicenda, di recente ha confessato di essersi inventato tutto, dicendo di essere stato plagiato da inquirenti e assistenti sociali che gli rivolgevano le domande. La vicenda resterà probabilmente in sospeso, ma resta anche l’ammonimento a osservare la massima cautela nel momento in cui si mettono sotto inchiesta delle persone per questo terribile reato. Molto diversa invece la vicenda di Gabriel Matzneff, uno scrittore francese accusato molti anni dopo i fatti da Vanessa Springora, la donna all’epoca quattordicenne con la quale lo scrittore intrattenne una relazione nonostante i circa 40 anni di differenza di età. Lo scrittore è braccato dalla polizia francese e si è rifugiato in Italia, dove ha dato alle stampe la propria versione della vicenda con un pamphlet intitolato “Vanessavirus”, tradotto da Giuliano Ferrara e pubblicato da Liberilibri. Questa operazione, che segue la pubblicazione francese avvenuta a spese dello stesso Marzneff in duecento copie vendute anche a 600 euro ciascuna, è quantomeno discutibile. La linea decisamente liberale dell’editore e del fondatore del Foglio sono state senz’altro meritorie, in più occasioni nelle quali il conformismo culturale e il mainstream mediatico lasciavano ben poco spazio alle voci controcorrente. 

In questo caso, però, la solidarietà concessa mediante il diritto di parola a un uomo che è reo confesso di avere praticato e predicato la libertà di amore e di sesso anche con minorenni appare una sorta di mossa elitaria, un po’ come quella che ha a lungo coperto – perlomeno mediante l’omertà, la mancanza di condanna aperta – i registi Roman Polanski e Woody Allen quando sono stati toccati da accuse di comportamenti riprovevoli. Ricordiamo un precedente, quello di Marcello Baraghini che con la sua Stampa Alternativa pubblicò a suo tempo il “Diario di un pedofilo” scritto da William Andraghetti: anche in quel caso la motivazione liberal-radicale fu che a tutti va concesso il diritto di parola e di difendersi.

Il terreno è infido, il rischio di una caccia all’untore sempre dietro l’angolo. Ma la cautela non può in alcun modo diventare giustificazione di una presunta libertà che si traduce in un abuso traumatizzante che le vittime portano come una ferita non più rimarginabile per tutto il resto della loro vita. In questi tempi di pandemia il tema di come debbano essere interpretate le libertà è tornato di un’attualità imprevedibile, non è più soltanto oggetto di un dibattito intellettuale ma una questione molto pratica e concreta. Proprio perché le siamo fedeli in modo appassionato, pensiamo che la bandiera della Libertà debba essere sì sempre sventolata, ma anche protetta da possibili strappi quando il vento soffia troppo forte.

Lorenzo Stella


Fonte: Associazione Clara Maffei


“Veleno”, docu-fiction di Amazon

Groviglio di sentimenti

“Gomitoli di memoria” è un viaggio “fra realtà e fantasie” che Maria Paola Graziani, alias Airamp Lever, sceglie per la sua protagonista. In queste pagine, soprattutto in quelle dedicate a bulimia ed anoressia, si coglie direttamente l’esperienza professionale dell’autrice, psicologa e già ricercatrice dell’Istituto di scienza dell’alimentazione del Cnr


“Quando si ritrova il bandolo e lo si riesce a districare dagli ingarbugliati nodi, la vita si presenta come una vera avventura al pari di una sceneggiatura piena di colpi di scena, di colori e di ombre che, pur fra realtà e fantasie, appare comprensibile”. Questo è il viaggio “fra realtà e fantasie” che Maria Paola Graziani, alias Airamp Lever, sceglie per la protagonista dei suoi ‘Gomitoli di memoria’.
Il racconto è un intreccio tra la storia personale di Lei e i luoghi fisici custodi della sua memoria su cui, tra tutti, spicca una Roma lontana, piegata sia fisicamente che moralmente dalla guerra. La ricostruzione storica e la riflessione scientifica sono le due sponde che accompagnano questo viaggio nella memoria. Un cammino lungo dieci momenti dell’esistenza senza un apparente rapporto di consequenzialità, in cui trovano spazio l’incontro prematuro con la morte, l’amore, la solitudine, la lotta, le madri di gioia e gli amici dell’infanzia.
Tutto, dai luoghi agli oggetti, perfino gli odori, ha un ordine interno, quasi a scandire il tempo delle scelte, delle nuove curiosità, della vita. Così la riflessione si avvicenda alla narrazione ed è con Jo, amico d’infanzia e interlocutore muto che la accompagna nelle sue elaborazioni più intime, che Lei riflette sul significato di simboli e modelli culturali, dal dopoguerra fino alla ‘società liquida’.
E, ancora, la magia dell’incontro con lo Zahir che, “impadronitosi dell’altro, detta le regole del gioco e l’importanza delle ricompense e delle delusioni, il limite e la barriera”; la sua “memoria intellettuale”, il dolore della separazione e, infine, il tempo dell’accettazione. Pensieri che generano nuovi pensieri e nuove domande, in un salto continuo dal passato al presente.
Il dolore è sullo sfondo, come “il grande tema che gira intorno al nostro universo”. Il dolore del distacco dai propri cari e la sofferenza per “le domande senza risposta” che restano, ma che non impedisce di risalire verso una ritrovata consapevolezza di sé fino alla rinnovata capacità di progettare il domani. Ed è in queste pagine, come in quelle dedicate a bulimia ed anoressia, che più direttamente si coglie l’esperienza professionale dell’autrice, psicologa e già ricercatrice dell’Istituto di scienza dell’alimentazione del Cnr.
Voltarsi indietro per comprendere e non per abbandonarsi al dolore o alla gioia di momenti ormai andati. Voltarsi e riconoscersi negli eventi passati, perché “noi siamo i nostri ricordi” e “… narrare forse, resta uno dei pochi percorsi che allentano il dolore e danno suono ai silenzi della memoria”.

Monica Di Fiore


Airamp Lever, “Gomitoli di memoria”, Nuova Cultura (2014)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Storia di fede, libri e anoressia

La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in “Sarà bella la vita”. A scriverlo è Monica Mondo, una giornalista che definisce il libro un “romanzo”, anche se vi racconta in prima persona la propria esperienza di rifiuto del cibo, con le sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare


La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in un libro breve, ‘Sarà bella la vita’ di Monica Mondo, che l’autrice e l’editore Marietti 1820 definisce come “romanzo” ma che sarebbe invece più appropriato chiamare ‘testimonianza’. A scriverlo è infatti una giornalista che racconta in prima persona il rifiuto del cibo, dalle sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali forse trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare, fino alla completa uscita dal tunnel grazie, di nuovo, a un concerto di stimoli positivi.
La cornice è rappresentata da una serie di citazioni, letterarie e musicali, che attestano la provenienza dell’autrice da una famiglia in cui libri e giornali costituivano un oggetto di lavoro quotidiano e che rappresentano gli spunti per inquadrare ricordi di persone e fatti. Si inanella così una trama esile ma estremamente intensa e significativa, soprattutto la generazione che ha vissuto, o almeno visto, in prima persona gli anni plumbei dell’odio ideologico.
Essere scampata al terrorismo, come pure alla droga, avere trovato accoglienza da parte di un prete sensibile, avere provato l’inevitabile sentimento di amore-odio per i terapeuti sono solo alcuni dei passaggi attraverso i quali Mondo riesce a vincere l’anoressia. Oggi, adulta e madre nonostante le pessimistiche previsioni di sterilità dei medici, può guardare a quei ricordi di bambina e ragazza con una maturità tranquilla che le consente di trasformarli in racconto.

Marco Ferrazzoli


Monica Mondo, “Sarà bella la vita”, Editore Marietti-1820 (2012)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

L’Idiota

Dopo aver ucciso Nastas’ja, Rogožin si trova in compagnia del principe Myškin. In questo brano l’omicida si incammina sulla strada del delirio.

Il principe sobbalzò sulla sedia in preda a un nuovo terrore. Quando Rogožin tacque di nuovo e di colpo, il principe si chinò in silenzio verso di lui, gli si sedette accanto e col cuore in tumulto e il respiro affannoso prese a scrutarlo. Rogožin non si voltava, sembrava addirittura che si fosse dimenticato di lui. Il principe lo guardava in attesa. Il tempo passava, cominciava ad albeggiare. Rogožin di tanto in tanto si metteva a borbottare forte, bruscamente, gridava, rideva. Il principe allora tendeva la mano tremante verso di lui e gli accarezzava la testa, i capelli, le guance… più di quello non poteva fare! Incominciò di nuovo a tremare forte e gli sembrò che la forza abbandonasse di nuovo le gambe. Una sensazione completamente nuova gli tormentava il cuore con un’angoscia infinita. Frattanto si era fatto giorno. Si allungò sul cuscino, privo di forze ormai, disperato, avvicinò il suo viso a quello pallido e immobile di Rogožin. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi e bagnavano le guance di Rogožin, ma forse allora non era più cosciente delle sue lacrime e non ne sapeva nulla… Ad ogni modo, quando, dopo molte ore, la porta fu aperta e entrò la gente, l’assassino fu trovato completamente privo di conoscenza e in delirio. Il principe era seduto immobile accanto a lui e, ogni volta che il malato gridava o delirava, si affrettava a passargli la mano tremante fra i capelli e sulle guance, per calmarlo con le carezze. Ma non comprendeva più nulla di quanto gli veniva chiesto, non riconosceva la gente che lo circondava e se Schneider in persona fosse giunto dalla Svizzera per visitare l’allievo e paziente d’un tempo, anch’egli, ricordando lo stato in cui il principe a volte si trovava durante il primo anno della sua cura in Svizzera, avrebbe fatto un gesto di scoraggiamento e avrebbe detto come allora:
«Idiota!».

Fëdor Dostoevskij

Fonte: http://www.writingshome.com/ebook_files/221.pdf

Anoressia e bulimia, mali dell’anima

I Disturbi del comportamento alimentare (Dca) come anoressia e bulimia nervosa colpiscono, secondo dati Aidap (Associazione italiana disturbi dell’alimentazione edel peso), dai due ai tre milioni di italiani, di cui il 90% donne. « Il tema è presente anche in letteratura. Nel romanzo “Il cavaliere inesistente” di Italo Calvino, Agilulfo, il valoroso combattente del re Carlomagno, è infatti senza corpo », spiega Franco Bonaguidi dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa. « Quando un giorno il re passa in rassegna le truppe, Agilulfo tiene con la visiera dell’elmo abbassata senza mostrare il volto al re, spiegando: ‘Perché non esisto’. Agilulfo vive il suo corpo come inesistente mentre il suo spirito abita nell’imperatore. Questa scissione aiuta a comprendere quello che può accadere nell’adolescenza quando il disagio sfocia in una situazione patologica »


C’è chi controlla in modo ossessivo il proprio peso, sminuzzando il cibo in pezzi sempre più piccoli e rifiutando alimenti ipercalorici. E chi, invece, si abbandona ad abbuffate ‘compulsive’, solitamente in solitudine e di nascosto, ricorrendo poi a vomito autoindotto, uso di lassativi o diuretici, per non accumulare chili in più. Entrambi gli atteggiamenti sono annoverati tra i Disturbi del comportamento alimentare (Dca) come anoressia e bulimia nervosa. Queste patologie psichiatriche complesse colpiscono, secondo dati Aidap (Associazione italiana disturbi dell’alimentazione edel peso). dai due ai tre milioni di italiani, di cui il 90% donne, anche se negli ultimi anni sono sempre più frequenti i casi di maschi anoressici, sia adolescenti sia di mezz’età.

“La comparsa dei Disturbi del comportamento alimentare è legata a un distorto rapporto con il cibo e il proprio corpo: per il quale il pasto diventa un campo di battaglia tra desideri e conflitti e tra sensazioni contrastanti”, spiega Franco Bonaguidi dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa, che continua a fornire cifre fornite dall’Aidap. “Ad ammalarsi sono soprattutto giovani (il 5% sono donne tra i 13 e i 35 anni), bambini (il 21% delle femmine, il 15% dei maschi tra gli 11 e i 17 anni) e adulti (il 20% con più di 35 anni). E, cosa ancor più drammatica, un adolescente su dieci non ce la fa a uscirne”.
L’anoressia è una malattia complessa in cui interagiscono fattori genetici, ambientali, sociali e psicologici, che si manifestano con l’ossessiva necessità di avere un corpo sempre più magro attraverso il digiuno. Un ideale di bellezza paradossale, che in realtà è una negazione del corpo e della sua autonomia.
“In alcuni casi, nell’adolescente anoressico si riattualizza un disturbo che si radica nei conflitti con la figura materna, dove le fantasie narcisistiche della genitrice invadono la vita del bambino, passando attraverso il controllo del corpo” chiarisce Bonaguidi. L’adolescente tratta e controlla il proprio corpo allo stesso modo in cui la madre ha trattato il suo nel passato”.

Chi soffre di questa visione distorta del corpo (dismorfofobia) vede difetti inesistenti o accentuati, fino a ricorrere alla chirurgia plastica o, nei casi più gravi, all’isolamento e al suicidio. In altri casi, il disturbo non è così radicato, ma fa parte della costellazione depressiva.
“Il tema è presente anche in letteratura. Nel romanzo ‘Il cavaliere inesistente’ di Italo Calvino, Agilulfo, il valoroso combattente del re Carlomagno, è infatti senza corpo”, continua lo psicologo del Cnr. “Quando un giorno il re passa in rassegna le truppe Agilulfo tiene con la visiera dell’elmo abbassata senza mostrare il volto al re, spiegando: ‘Perché non esisto’. Agilulfo vive il suo corpo come inesistente mentre il suo spirito abita nell’imperatore. Questa scissione aiuta a comprendere quello che può accadere nell’adolescenza quando il disagio sfocia in una situazione patologica: si avverte un sentimento di estraneità verso il fisico, frequente in questa età. L’adolescente, infatti, vive con conflitto i cambiamenti dell’organismo, la scoperta della sessualità, l’accesso all’età adulta, la privazione dell’onnipotenza infantile. Una trasformazione che può introdurre elementi di perdita e di angoscia”.

La malattia anoressica-bulimica esprime dunque un profondo malessere psichico che deve essere ascoltato e curato, fin dai suoi primi sintomi, in opportune sedi specialistiche. “In questa malattia la psiche sembra prendere la sua rivincita: l’immagine del corpo trasfigurato e negato della persona affetta da anoressia, diventa l’urlo di dolore, la raffigurazione del profondo e crescente disagio psicologico della nostra società”, conclude Bonaguidi.

Silvia Mattoni


Fonte: Almanacco CNR – Salute

Il panico di Frascella e Valenti

Il panico quotidiano” di Christian Frascella (Einaudi) si presenta come un vero e proprio diario di un malato, sin dall’incipit: “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”. Ne ‘La fabbrica del panico’ Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con semplicità, i suoi due spunti letterari, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. Tra i precedenti che vengono richiamati alla mente, Paolo Volponi


Si presenta come un vero e proprio diario di un malato più che come un romanzo, ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella (Einaudi). Sin dall’incipit, “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”, fino al finale, uno dei punti più sinceri e sorprendenti del libro.
Nel mezzo, la narrazione lineare e cronologica di un’esistenza segnata da una ‘media’ ma profonda insoddisfazione: per le ambizioni di scrittore fino ad allora frustrate; per il lavoro alla catena di montaggio, in un settore industriale come l’indotto dell’auto piemontese, che nel corso degli anni descritti conosce una grave crisi; per una famiglia d’origine divisa da contrasti profondi quanto inespressi, soprattutto per una serie di relazioni amicali e per un rapporto d’amore che proprio le crisi di panico metteranno in luce nella loro superficialità.
La parte più efficace del libro è quella che descrive – man mano che la malattia avanza – la sensazione di progressivo abbandono, la distanza che si crea con le persone più care, l’impossibilità di condividere un dolore tanto profondo, personale e particolare. Come nel confronto illuminante con l’amico del cuore: “Preoccupato? Io al momento non lo ero. Ma mi resi conto che lui si lo era. E capii che non era preoccupato per me. Era preoccupato per sé. Per se stesso, che ora doveva interagire con un tizio che non ci stava più di tanto con la testa. Fu la prima volta che ebbi a che fare con quella sensazione. Dopo di allora mi è capitato di continuo”.
Del resto, l’ineffabilità delle crisi è reale e il libro stesso si limita, nel descriverle, a espressioni che non riescono a renderne nemmeno una pallida idea: “attacchi feroci, continui”, “non ci sono parole per raccontare agli altri”, “Oddio pensai. Non un’altra volta, non davanti a tutti. Oddio. E più pensavo così più la paura risaliva”.
Analoghe incomprensioni e incertezze, peraltro, il protagonista le incontra tra affidamenti speranzosi, disillusioni e auto prescrizioni, anche a livello sanitario, sperimentando randomicamente, il medico di base, vari psicofarmaci, un Centro di salute mentale, fino a incontrare uno psichiatra ospedaliero che gli farà comprendere, ma ci vorranno anni, come il panico si possa controllare e ci si possa convivere, senza però l’illusione di “guarire”. Un aiuto importante, anche se sporadico, gli arriverà invece dal rapporto stretto con un anziano operaio malato, Tonino Mascia detto “Sissignuri”.
A indebolire il testo è la sciatteria lambita sia nel plot sia soprattutto nello stile, infarcito di espressioni che paiono tratte dalle “emozioni adolescenziali” oggetto delle precedenti opere di Frascella. “Signore, pensai sui gradini della chiesa, non ci frequentiamo più molto ma ci conosciamo da tanto”, “con la passione dov’era andata a finire? Dove se ne va il desiderio quando poi se ne va?”, “Nasconderle le cose? E come avrei potuto fare altrimenti? Non facevamo che nascondercele le cose. Non parlavamo mai, almeno non di noi”. L’editore definisce però ‘Il panico quotidiano’ una prova di “maturità” dell’autore.


Ne “La fabbrica del panico” Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con una semplicità encomiabile, due spunti letterari che hanno dato seguito a filoni cospicui, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. I precedenti che vengono richiamati alla mente sono diversi, oltre a Paolo Volponi che viene esplicitamente richiamato nella nota editoriale: da ‘Acciaio’ di Silvia Avallone a ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella. Il protagonista racconta in modo asciutto, quasi cronachistico, lasciando ai fatti il compito di sgomentare il lettore, la realtà dei “morti d’amianto” attraverso la vicenda del padre operaio e pittore: “La pittura non esisteva senza la fabbrica, la fabbrica non esisteva senza la pittura. Se non fosse stato per la fabbrica non avrebbe avuto la necessità di evadere nella pittura. Se non fosse stato per la pittura, non avrebbe avuto la necessità di guadagnarsi da vivere in fabbrica. Invece di morire ogni giorno dentro quello stabilimento, sarebbe potuto tornare in montagna nei boschi a raccogliere funghi, a coltivare l’orto”.
La morte arriva qualche giorno dopo l’inizio della chemioterapia e dopo anni di un lavoro con cui l’uomo “guadagnava appena il necessario a non morire di fame. Non di più, non di meno” e per il quale “faceva cose che non avrebbe mai fatto in vita sua. Obbediva a ordini a cui non avrebbe mai obbedito”. La fabbrica è, per l’operaio assunto quale simbolo, la causa di un malessere mortale, fatto di “crisi d’ansia… una colite ulcerosa… stanchezza e inappetenza”, che il cronometrista e il caposquadra catalogano “traducendolo in numeri”. Un Fantozzi davvero tragico, che ritiene legittimo perdere o non avere quella salute che non considera un proprio diritto.
Tra il padre e il figlio, che ne eredita le crisi di panico, si interpone però la coscienza sindacale di Cesare, delle riunioni, del “Comitato”, delle manifestazioni, come quella in cui vengono lanciate “decine di palloncini colorati. Ogni palloncino porta il nome di un compagno di lavoro morto”. Nonostante l’ingenuità e la parzialità ideologica di questa coscienza, che si muove sulle note dell’Internazionale e di ‘Bandiera rossa’, non si può non rileggerne la storia con un moto di paradossale rimpianto, accentuato dalla constatazione che la conflittualità della fabbrica contro proprietà e dirigenza, la drammaticità delle sue storie di infortuni, mutilazioni volontarie, “movimenti uguali senza sosta” e tempi di lavoro insostenibili, appaiono quasi un lusso rispetto al nulla occupazionale e civile dello scenario odierno.
In mezzo, tra ieri e oggi, c’è il solco inaccettabile dell’amianto omicida, anzi stragista, delle morti “a catena” – “Cento operai su cento soffrono di disturbi alle prime vie respiratorie… Sessanta operai su cento soffrono d’ansia… Ventidue operai su cento soffrono di silicosi” – della teoria terribile di diagnosi cliniche, dall’asbestosi al carcinoma bilaterale ai polmoni, delle vertenze e delle sentenze.
Il romanzo, conclude l’autore, “deve essere pertanto inteso come un’opera di fantasia basata su fatti realmente accaduti”.

Marco Ferrazzoli


Stefano Valenti, “La fabbrica del panico”, La Feltrinelli (2013)
Christian Frascella, “Il panico quotidiano”, Einaudi (2013)


Fonti:
Almanacco CNR – Diario di una malattia ineffabile
Almanacco CNR – Il tragico “Fantozzi” delle morti d’amianto


Treccani: Volponi, Paolo

Fondazione Bo, per la letteratura europea moderna e contemporanea – Paolo Volponi
“Urbino, i nostri ieri” di Paolo Volponi (Fondazione Bo) (pdf)

Il Nudo e il complesso edipico in Corporale di Paolo Volponi (word)


La poetica follia di Celestini

Ascanio Celestini è l’autore de “La pecora nera”. Lo potremmo definire un multimediale dedicato alla follia. Uno spettacolo culto che per anni è stato portato in tournée nei teatri di tutta Italia, un’edizione in Dvd, un libro, un taccuino, un film del 2010 scritto, diretto ed interpretato da  Celestini, con Giorgio Tirabassi e Maya Sansa. “La pecora nera” raccoglie frammenti di diario, racconti inediti e testimonianze: Nicola, con i suoi 35 anni di degenza in manicomio, mescola realtà e fantasia, comico e tragico; Adriano Pallotta è stato infermiere al Santa Maria della Pietà di Roma, uno tra i più grandi manicomi d’Europa; Alberto Paolini, entrato a quindici anni al Santa Maria della Pietà, ci è rimasto per quarantadue anni


Il manicomio è un condominio di santi. So’ santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex- voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo». Così ci racconta Nicola i suoi 35 anni di «manicomio elettrico», e nella sua testa scompaginata realtà e fantasia si scontrano producendo imprevedibili illuminazioni. Nicola è nato negli anni Sessanta, «i favolosi anni Sessanta», e il mondo che lui vede dentro l’istituto non è poi così diverso da quello che sta correndo là fuori – un mondo sempre più vorace, dove l’unica cosa che sembra non potersi consumare è la paura.
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Raccolgo memorie di chi ha conosciuto il manicomio un po’ come facevano i geografi del passato. Questi antichi scienziati chiedevano ai marinai di raccontargli com’era fatta un’isola, chiedevano a un commerciante di spezie o di tappeti com’era una strada verso l’Oriente o attraverso l’Africa. Dai racconti che ascoltavano cercavano di disegnare delle carte geografiche. Ne venivano fuori carte che spesso erano inesatte, ma erano anche piene dello sguardo di chi i luoghi li aveva conosciuti attraversandoli. Così io ascolto le storie di chi ha viaggiato attraverso il manicomio non per costruire una storia oggettiva, ma per restituire la freschezza del racconto e l’imprecisione dello sguardo soggettivo, la meraviglia dell’immaginazione e la concretezza delle paure che accompagnano un viaggio.
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Il manicomio è un condominio di santi. So’ santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo.


L’anoressia si vince con gli altri

Roma, una ragazza, una donna, un diario. L’incontro tra Domitilla e Lucia. Bastano questi elementi, alla giornalista scientifica Margherita De Bac, per costruire il suo ultimo romanzo “Per fortuna c’erano i pinoli”. Domitilla è una ragazza di 24 anni, riservata. Lucia è un’avvocata quarantenne. Il racconto svela a poco a poco il segreto di Domitilla: senza bisogno di nominarla, l’anoressia entra nel racconto pian piano


Roma, una ragazza, una donna, un diario. L’incontro tra Domitilla e Lucia. Bastano questi elementi, alla giornalista scientifica Margherita De Bac, per costruire il suo ultimo romanzo “Per fortuna c’erano i pinoli”.

Domitilla è una ragazza di 24 anni, riservata, dal carattere “legnoso”, una di quelle persone che “non sono gradite alla massa… perché vanno comprese e la comprensione non è una qualità comune”. Per questo ha pochi amici e preferibilmente adulti, che “sanno ascoltare”. Lucia è un avvocato quarantenne, una divorzista che ama scrutare la vita degli altri e ascoltarli, perché “a volte gli individui compiono azioni sorprendenti senza rendersene conto”.
Il racconto svela a poco a poco il segreto di Domitilla: senza bisogno di nominarla, l’anoressia entra nel racconto pian piano, accompagnata da stralci di un diario a tratti ossessivo e a tratti disperato. Ci si potrebbe fermare qui, pensando di aver letto un libro che, prendendo a pretesto l’incontro tra due donne, racconta una tra le più insidiose malattie sociali: il disturbo del comportamento alimentare.
Ma Margherita De Bac non parla solo della malattia. Racconta anche del potere delle relazioni umane, come fossero l’altra faccia della patologia. Il disagio di Domitilla dipende dalla sua sensibilità e da un profondo senso di inadeguatezza, perché il suo “specchio sono gli altri” e l’approvazione degli altri “è un bisogno necessario”. È così che “l’eterna ricerca di conferme” condiziona i suoi rapporti. Innanzitutto quello con se stessa e con la sua disperata ricerca della normalità e dalla propria identità.
C’è poi il rapporto di Domitilla con Lucia, la donna adulta che aiuta la giovane protagonista a uscire dalla sua gabbia senza aver paura di essere giudicata. E ancora quello con Marco, due personalità diverse che finalmente si riconoscono. Stima, amicizia, amore.
Solo passando attraverso queste esperienze affettive, solo aprendosi al rapporto con gli altri la ragazza riesce a sciogliere il rapporto con sé e a controllare il suo disturbo senza averne più paura.

Monica Di Fiore


Margherita De Bac, “Per fortuna c’erano i pinoli”, Newton Compton (2014)


Fonte: Almanacco CNR


Newton Compton – Persona: Margherita De Bac

Corriere della Sera – L’incontro: Un libro contro l’anoressa di Margherita De Bac