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Gli ippopotami cantano? Pierluigi Cappello sicuramente sì

Il libro di Alberto Garlini racconta il lungo e profondo rapporto inttrattenuto con uno dei massimi poeti italiani, inchiodato su una carrozzina da un incidente di moto. Il libro ha due meriti: omaggiare un esponente fondamentale della poesia in lingua e dialettale e aver costruito, con la narrazione della loro amicizia, un vero romanzo e una vera autobiografia, dove disagio corporeo e psicologico trovano una via di catarsi parallela


Ma gli ippopotami cantano? La domanda potrebbe sorgere spontanea leggendo il titolo del libro di Alberto Garlini “Il canto dell’ippopotamo”, ma ci porterebbe fuori strada, lungo il pur appassionante tema etologico ed evoluzionistico delle azioni che consideriamo o meno esclusiva umana: ridere (memorabile al riguardo il dialogo tra Jorge e Guglielmo ne “Il nome della rosa”), piangere, utilizzare strumenti tecnologici (di cui abbiamo parlato recensendo “Umani” di Adam Rutherford) e, appunto, cantare. Azione che si esplica in un ventaglio di forme amplissimo e fondamentale, tanto da divenire persino oggetto di contesa come accade in questi giorni a Sanremo. Ma la frase, in realtà, con l’opera di Garlini c’entra poco o, meglio, serve nella sua casuale insignificanza a rappresentare un periodo e un aspetto della depressione di cui l’autore racconta: il rapporto stoccolmiano vittima-carnefice che instaura con una donna almeno altrettanto squilibrata, affetta da un egocentrismo pseudoartistico e particolarmente amante, appunto, degli slogan a effetto.
Vera e principale protagonista del libro è in realtà colei che della canzone è in qualche modo sorella, anche se il loro rapporto è estremamente controverso, e cioè la poesia, vista attraverso il lungo e profondo rapporto che Garlini ha intessuto con Pierluigi Cappello. Uno dei massimi poeti italiani, accomunabile sicuramente a Pier Paolo Pasolini, quanto meno per la comune friulanità, ma forse anche a Dario Bellezza e Valentino Zeichen per la stretta, ambigua, irrisolvibile connessione tra l’attività letteraria e la biografia “estrema”: omosessuale morto di Aids Bellezza, “baraccato” del quartiere romano Flaminio Zeichen, inchiodato su una carrozzina da un incidente di moto Cappello, hanno tutti vissuto le loro non lunghe esistenze tra il plauso della critica e degli intellettuali, il successo del magro ma appassionato pubblico della poesia contemporanea, le ristrettezze e difficoltà economiche e materiali.
Cappello sarebbe stato poeta anche camminando sulle proprie gambe, ma ovviamente non sarebbe stato lo stesso poeta. E a Garlini vanno riconosciuti due meriti. Il primo è quello di riservare un contributo fondamentale a un esponente fondamentale della poesia in lingua e dialettale (l’autore sceglie e suggerisce, in tutta l’opera, “Parole povere”), che si aggiunge al film che gli è stato dedicato da Francesca Archibugi e allo splendido romanzo autobiografico del poeta Questa libertà, in cui il racconto della caduta nella paralisi corporea è di un’efficacia agghiacciante proprio per la sua assoluta assenza di enfasi. L’altro è di aver costruito, con la narrazione della sua amicizia, un vero romanzo e una vera autobiografia dove il disagio corporeo di uno e quello psicologico dell’altro trovano nella poesia una via di catarsi parallela, adiacente, se non coincidente date le forti differenze letterarie che intercorrono tra i due protagonisti del libro.

Marco Ferrazzoli


Alberto Garlini, “Il canto dell’ippopotamo”, Mondadori (2019)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Denise De Santana

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