Il signor Parkinson, inquilino abusivo

L’autobiografia dell’incontro tra lo psicologo D’Antuono e il signor P. svela la malattia e la sottrae allo stigma del silenzio.

Tra le descrizioni della malattia come invasione fisica del nostro corpo, resta insuperato l’incipit de “Il cancro” di Giorgio Gaber: ‘E ti lasciano libero / con questa cosa dentro / con quel milione di molecole / che non ti ubbidiscono più’. “L’inquilino dentro” utilizza la stessa metafora, in modo però più leggero.

L’autore, Francesco D’Antuono, è uno psicologo che è stato colpito a soli 35 anni dal Parkinson, morbo che nella descrizione letteraria realizzata con il giornalista Giovanni Piazza diventa un occupante abusivo, il quale ‘si è impadronito della parte migliore del condominio’, cioè l’attico e l’impianto elettrico, il cervello e la dopamina. Il protagonista decide però di incontrare il ‘signor P’, di affrontarlo e combatterlo, usando come arma principale l’umorismo, l’ironia, talvolta un sarcasmo che appare persino eccessivo e imbarazzante per il lettore: ‘Come shakero i cocktail, nemmeno Tom Cruise’.

È però senz’altro condivisibile l’obiettivo generale del racconto, cioè svelare questa patologia senza infingimenti, poiché è proprio dal suo riconoscimento pubblico che nasce la possibilità per il malato di mantenere la propria dignità. Fondamentale, in tal senso, la testimonianza di Giovanni Paolo II: ‘I suoi predecessori avrebbero cercato di mascherare la faccenda, magari apparendo in pubblico il meno possibile. Lui invece l’ha mostrato urbi et orbi’; ‘Non so ancora come, ma qualcosa mi dice che ha steso il suo signor P. con quella manata data al leggio durante l’ultimo Angelus’. Essenziale è anche ricordare – come il libro fa, grazie ai contributi di alcuni medici – che il morbo di Parkinson è una malattia molto compromettente, ben al di là della sintomatologia più nota del tremore, e le sempre migliori prospettive che la ricerca offre oggi ai malati.

Marco Ferrazzoli

Francesco D’Antuono, Giovanni Piazza, “L’inquilino dentro” (Aracne, 2008)

http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/pubblicazione.html?item=9788854819399

L’ossimoro della malattia cronica

La forza della medicina narrativa in un libro la cui protagonista, convivente con la sclerosi multipla, si trova ad essere al tempo stesso medico e paziente.

Silvia Bonino è una psicologa, già autrice di numerosi saggi, che a un certo punto della sua esistenza si è trovata vivere la malattia dall’altra parte della barricata, quella del paziente, e che in tale duplice veste ha cercato di fare in modo che il malato e il terapeuta collaborassero ad affrontare insieme il terribile percorso della sclerosi multipla. Il nome della malattia viene a dire il vero citato di rado e con discrezione, mentre è più presente nel saggio-racconto il concetto di “malattia cronica”, cioè non curabile ma neppure immediatamente mortale, che quindi costringe a un’inabilità pesante e prolungata. Una sorta di ossimoro, profondamente contraddittorio per una società salutista come l’attuale, in cui si immaginano soprattutto le condizioni estreme della forma perfetta o della malattia incurabile, accettando come stato intermedio solo menomazioni leggere e temporanee. E’ proprio il radicale cambiamento della propria prospettiva esistenziale che il libro della Bonino pone al centro dell’analisi, a cominciare dal suo impatto iniziale, che si traduce nella domanda senza risposta: “Perché proprio a me?”. Molto condivisibile è, nell’autrice, la sua riflessione sulla impossibilità di trovare una vera ragione a un evento così eterodiretto – “Non avevo già pagato il mio tributo di sofferenza? Non avevo diritto a un po’ di serenità?” – e altrettanto profondamente giusta è la considerazione, ripresa dal diario di Etty Hillesum che costella di citazioni tutto il libro, che “non sono mai le circostanze esteriori” a minacciarci, ma la percezione interiore che ne abbiamo.

Marco Ferrazzoli

Silvia Bonino, “Mille fili mi legano qui” (Laterza, 2008)

https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788842079217

Uccidere per pietà: quando l’handicap è la solitudine

Un libro doloroso, un dramma che testimonia le difficoltà dei familiari di persone portatrici di handicap gravi e sottolinea ancora una volta la necessità di investire sulle strutture sanitarie e sulla rete assistenziale.

Molti ricorderanno un caso che, pur nell’ormai quasi routinaria concitazione della cronaca nera domestica, ha colpito fortemente gli italiani che ne ebbero notizia: nel 2003 un borghesissimo medico romano uccise il figlio autistico, dopo l’ennesima giornata di vessazioni alle quali il ragazzo sottoponeva costantemente i genitori, nella totale solitudine familiare. Poco tempo dopo, relativamente ai tempi non fulminei della magistratura italiana, il padre, condannato per omicidio, veniva graziato dal presidente della Repubblica.

In questo libro che rievoca la storia della famiglia, basandosi soprattutto sugli appunti e sulle riflessioni disperate e dolenti dell’uomo, si intersecano numerosi piani di lettura. Uno, il più convincente, riguarda appunto la solitudine in cui vengono lasciate le famiglie degli handicappati gravi. Solitudine va qui inteso in un significato molto concreto e complesso: la forma autistica di Sergio, nato negli anni ’60, viene diagnosticata con un ritardo dovuto alla scarsa informazione del sistema sanitario italiano su questa patologia. Purtroppo, tale ritardo viene colmato, essendo la sintomatologia del bambino assai precoce ed eclatante, da una serie di valutazioni e terapie errate e costose. Ma anche dopo avere individuato che, purtroppo, Sergio soffre della forma più grave e aggressiva di questo ritardo mentale, l’appoggio delle strutture sanitarie pubbliche e private alla famiglia è irrisorio, spesso irritante e offensivo.

Molto meno convincente è la valutazione che l’autore de “Il mondo di Sergio” fa prendendo le mosse non dall’episodio dell’assassinio ‘per pietà’ ma dalla grazia concessa al padre dal Quirinale. Mauro Paissan estende infatti il concetto della pietà ‘pubblica’ alle richieste, spesso mosse in questi ultimi anni, di consentire l’eutanasia o il ‘suicidio assistito’ degli handicappati e dei malati incurabili. In realtà, l’esperienza di papà Salvatore e di sua moglie attestano che la morte non è il rimedio necessario, laddove si sollevino i cari dei malati dall’onere totale della cura e in particolare dall’angosciante domanda del ‘dopo di noi’: l’atto estremo raccontato nel libro avviene non tanto per l’esasperazione delle percosse, dei soldi dilapidati, della distruzione materiale e morale della casa, ma soprattutto perché il genitore si vede giunto a un’età nella quale la sua possibilità di accudire il figlio va esaurendosi, senza che le strutture prospettino all’ormai quarantenne Sergio una assistenza civile e dignitosa.

Marco Ferrazzoli

Mauro Paissan, “Il mondo di Sergio” (Fazi, 2008)

Medici, malati e il miracolo della vita

Le parole e le vicende del dottor Melazzini, che convive dal 2003 con la Sclerosi Laterale Amiotrofica, rappresentano una preziosa testimonianza di resilienza e profonda voglia di vivere.

Nell’ampissima diaristica sulla malattia, anche il filone dei medici-malati è ormai cospicuo. Tra questi particolari testimoni, Mario Melazzini ha assunto una certa notorietà, grazie anche ad alcune partecipazioni televisive in cui ha saputo “bucare” il video, trasferendo agli spettatori l’eroico entusiasmo con cui sopporta la sua condizione di malato di Sclerosi laterale amiotrofica. Oggi Melazzini unisce la presidenza dell’Aisla all’attività presso la Fondazione Maugeri di Pavia e, superato il trauma solo lontanamente immaginabile che ha sconvolto la sua vita di medico sano, di successo e con bella famiglia, con l’handicap ha imparato ad avvicinare i malati ‘dall’altra parte’.

Melazzini è protagonista di tre libri recenti. Il primo è “Un medico, un malato, un uomo”, autobiografia mirata in primis ai colleghi che della loro condizione culturale e di salute fanno un elemento di superiorità nei confronti dei pazienti, distorcendo così l’opportuno distacco che devono mantenere per essere professionalmente efficienti. A tutti, poi, il libro insegna come praticare l’amore verso se stessi e gli altri, godendo ‘ogni minuto del miracolo di essere vivo’: una santità, intesa come completezza dell’essere, cui purtroppo ci avviciniamo solo quando capiamo che tale miracolo non è affatto scontato.

Melazzini è anche prefatore di una collettanea di casi di malati di Sla, uno dei quali purtroppo scomparso prima della pubblicazione, che ribadisce la stessa testimonianza di fede cristiana e umana. Il curatore de “L’inguaribile voglia di vivere”, Massimo Pandolfi, ammette in introduzione, vergognandosene, di avere usato per definire questo lavoro l’espressione di ‘le storie degli anti-Welby’. In realtà non c’è nessuna ostilità verso la scelta di Piergiorgio Welby e degli altri malati che, come lui, chiedono di essere aiutati a morire, ma la volontà di rappresentare la scelta ‘che i mass media non raccontano’ di moltissimi uomini e donne che, inchiodati in un letto, senza poter mangiare né respirare naturalmente e bisognosi di un’assistenza continua, vogliono vivere per ‘aggiungere vita ai giorni e non giorni alla vita’.

Il terzo riferimento editoriale è il capitolo dedicato a Melazzini da Stefano Lorenzetto in “Vita, morte e miracoli”, un’altra raccolta di storie che trattano esperienze di entusiasmo vitale, di fede nell’uomo e in Dio, di speranza che non si arrende neppure davanti alle malattie più gravi, dolorose, invalidanti e incurabili.

Marco Ferrazzoli

Mario Melazzini, Un medico, un malato, un uomo (Lindau, 2007)

Massimo Pandolfi, L’inguaribile voglia di vivere (Ares, 2007)

Stefano Lorenzetto, Vita, morte e miracoli (Marsilio, 2007)

Esordio letterario di un giovane fisico

Un imperdibile romanzo d’esordio, ormai un caso letterario, trasposto nel 2010 in un toccante film.

Paolo Giordano è un giovane fisico, dottorando all’Università di Torino, e più di qualcosa della sua biografia dev’essere impresso nella figura del protagonista del suo romanzo d’esordio: il Mattia di “La solitudine dei numeri primi”, un geniale fisico che lavora come docente e ricercatore presso un’ateneo nordeuropeo. Ma, soprattutto, la formazione scientifica dell’autore si riflette nella precisa ingegneria del libro: la scansione temporale dei capitoli che accompagnano Mattia e la coprotagonista Alice, l’alternanza tra forma diretta e indiretta del racconto, il passaggio dal Bildungsroman (romanzo di formazione) alla storia d’amore, l’inserimento dei personaggi minori. La descrizione della crudeltà che bambini e adolescenti sono capaci di esprimere con i coetanei, ad esempio, è raccontata con efficacissima discrezione.

Ma la miglior riuscita, Giordano la raggiunge nella descrizione dello sgomento con cui gli adulti affrontano le difficoltà di crescita dei ragazzi e in particolare il confronto con l’handicap, tema centrale che il titolo esprime con un’efficace metafora matematica. Mattia, dopo aver provocato la scomparsa della gemella Michela (ritardata mentale), palesa pesanti sintomi autolesionistici e una sindrome autistica descritta in modo un po’ forzato, secondo lo schematismo invalso nella fiction dopo il successo di “Rain Man”. Molto più convincente la descrizione di Alice, anoressica e claudicante dopo un incidente di sci avvenuto da bambina.

La storia si perde solo nella ricerca un po’ sovresposta (per usare un’immagine della professione di Alice, fotografa) della ‘quadra’ finale. Ma, nel complesso, Giordano si candida come l’autorevole erede della narrativa formalmente fredda ma molto intensa nei contenuti che fu del miglior Andrea de Carlo, specialmente dopo gli ultimi e deludenti esiti dello scrittore milanese.

Marco Ferrazzoli

Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori, 2010)

https://www.mondadoristore.it/La-solitudine-dei-numeri-primi-Paolo-Giordano/eai978880458965/

Nuove tecnologie, un aiuto contro l’handicap


Le storie raccontate dall’autore, intrecciate alla sua esperienza personale, offrono uno spaccato realistico di come sia possibile realizzare i propri obiettivi e vivere appieno la propria vita, convivendo con un handicap fisico.

 

Davide Cervellin è un imprenditore di successo: la sua azienda, la Tiflosystem, si occupa di tecnologia e servizi per l’autonomia delle persone disabili, categoria alla quale il titolare appartiene in quanto cieco dall’età di sedici anni. Attualmente, Cervellin si occupa anche di produzioni agricole di qualità, di energie rinnovabili e costruzioni biocompatibili.

L’esperienza personale ha portato l’imprenditore a occuparsi in maniera stabile di persone fisicamente handicappate ma capaci di vivere normalmente, conducendo riuscite esperienze famigliari e professionali. Un impegno che sostanzia nel sostegno alle missioni cristiane della onlus CBM Italia, attive nell’aiutare i ciechi in tutto il mondo, e nell’attività editoriale, con libri come “Quando un cieco vede oltre. Come i diversi possono essere utili” e “Disabili. Come trasformare un limite in un’opportunità”. Sempre per Marsilio, esce ora il terzo libro, “Senza maschera”, in cui l’autore traccia un percorso in parte autobiografico. Paolo, il protagonista, dopo l’incidente che lo invalida non rinuncia alla laurea, al matrimonio, al lavoro, all’impegno per cui si sentiva vocato e riesce a ottenere ciò che si prefigge grazie all’aiuto degli amici e delle nuove tecnologie: display braille, sintetizzatori vocali, comunicatori a voce digitalizzata, programmi di didattica riabilitativa.

Nelle storie che Cervellin racconta non appaiono né commiserazione, né certe esaltazioni che a volte pervadono questo tipo di letteratura. Con molto realismo l’autore evidenzia semplicemente come la tecnologia possa aiutare la persona svantaggiata a colmare il gap con la ‘normalità’.

 

Marco Ferrazzoli

 

Davide Cervellin, “Senza maschera” (Marsilio, 2007)

Quando l’Alzheimer diventa poesia


Il toccante atto d’amore del poeta Alberto Bertoni verso il padre malato, in una raccolta poetica che dà voce anche ai familiari ed alle loro “umanissime reazioni”.

 

Docente di Letteratura a Bologna, critico, curatore di antologie poetiche, Alberto Bertoni ci consegna un libro che colpisce per la traduzione di un serio problema familiare e personale in versi di grande asciuttezza, quasi “clinici”. “Ricordi di Alzheimer” – titolo ossimorico o almeno fortemente provocatorio, considerato come questa patologia colpisca a fondo, tra varie facoltà cognitive, quelle mnemoniche – racconta il rapporto dell’autore con il padre malato: affettuoso, amorevole, nostalgico, ma tutt’altro che immune dalle umanissime reazioni che la terribile patologia induce nei parenti che accudiscono chi ne viene colpito.

‘E’ noto che l’Alzheimer tende a distruggere la vita non solo dei pazienti ma anche dei loro familiari: io non ho fatto eccezione’, scrive sinceramente l’autore nell’introduzione. Mentre, nelle poesie, leggiamo un accorato: ‘Papà, non sopporto / le tue sofferenze / Le tue depressioni improvvise, il terrore / quotidiano di morire’. E ancora: ‘Oggi non sopporto mio padre / Voglio che il cane dietro l’inferriata / gli morda la mano gliela inghiotta’. Nei versi c’è spazio anche per quel tocco d’amara ironia con il quale, talvolta, si prova ad alleggerire la dolorosa fatica di assistere un parente non più in sé: ‘Con le nuove targhe / non si raccapezza più mio padre / tutto un Arezzo, Avellino, Campobasso / così domanda se in blocco i modenesi / oggi vanno a piedi’.

La storia termina con la scomparsa del genitore e con un dolore nella cui descrizione potrà riconoscersi chiunque ci sia passato attraverso: ‘Mi sembrava un attimo fa / ed invece era già / nel millennio passato / l’ultima volta che abbiamo parlato… / Oggi non c’è il babbo? / chiede il cameriere grasso / e non sa cos’avrei pagato / per trascinarti a pranzo’.

Le poesie sono molto belle: anche quelle in dialetto e quelle dedicate a un curioso episodio occorso all’autore, una molto kafkiana larva di insetto sottocutanea, ‘partorita’ dal polso. E “Ricordi di Alzheimer” è un libro importante poiché, esprimendo senza far ricorso all’enfasi alcuni sentimenti fondamentali dell’animo umano, come la tenerezza, dimostra come la poesia possa essere la modalità espressiva privilegiata per “oggettività”, proprio in quegli ambiti esistenziali che oggi vengono invasi irriguardosamente dalla pateticità di altri mezzi, quali il giornalismo.

 

Marco Ferrazzoli


Alberto Bertoni, “Ricordi di Alzheimer” (Book Editore, 2008)