Batteri e virus, una guerra. Contro la paura

‘Le grandi epidemie’ di Barbara Gallavotti evidenzia come gli agenti infettivi siano stati capaci di uccidere più uomini di qualsiasi armata sulla Terra e si chiede: “Chi vincerà alla fine?”. La risposta è che uno dei principali alleati di questi nostri temibili e minuscoli avversari è il sentimento irrazionale che porta da un lato a diffidare dei vaccini e dall’altro ad assumere con leggerezza gli antibiotici. Mentre il corretto uso di queste innovazioni è la migliore arma a nostra disposizione


La letteratura divulgativa su virus, batteri, microbi, vettori e agenti patogeni è amplissima. Solo per citare randomicamente alcuni titoli degli ultimi lustri, va da ‘Epidemie’ di Giovanni Rezza a ‘Pillola del giorno prima. Vaccini, epidemie, catastrofi, paure e verità’ di Marco Malvaldi e Roberto Vacca; da ‘Batteri spazzini e virus che curano’ e ‘Occhio ai virus’ del nostro Giovanni Maga a testi opportunamente rivolti ai lettori più giovani come ‘Le difese del mio corpo’ di Laurent Degos e ‘Virus, microbi e vaccini’ di Clara Frontali; da monografie su specifiche patologie come ‘Aids. Breve storia di una malattia che ha cambiato il mondo’ di Cristiana Pulcinelli a ‘Metafisica della peste’ di Sandro Givone. Il tema delle patologie epidemiche e infettive è poi protagonista di saggi fondamentali come ‘Quarto cavaliere – Storia di epidemie, pestilenze e virus’ di Andrew Nikiforuk e ‘Armi, acciaio e malattie’ di Jared Diamond.

Quest’ultimo titolo, in particolare, è citato nella bibliografia dell’ultimo arrivato in questa cospicua e importante galleria saggistica: ‘Le grandi epidemie’ di Barbara Gallavotti, per il quale la giornalista di Superquark ha preso spunto da un’intervista di Francesco Maria Galassi, professore di Paleopatologia alla Flinders University in Australia e che si arricchisce di un’introduzione in cui Piero Angela evidenzia come i microrganismi siano “stati capaci di uccidere più uomini di qualsiasi armata sulla Terra”, nonostante (o forse proprio perché) siano “nostri parenti”, addirittura “i nostri più lontani progenitori”. I batteri sono stati infatti “i primi ad arrivare sulla Terra e saranno con ogni probabilità gli ultimi ad andarsene”, affermazione con cui il nostro massimo divulgatore focalizza la questione centrale del libro: “Chi vincerà alla fine l’eterna guerra fra gli esseri umani e gli agenti infettivi?”, si chiede Gallavotti in conclusione del volume. Rispondendo che, comunque, “non abbasseremo mai la guardia” e avvertendo che uno dei principali alleati di questi nostri avversari temibili e minuscoli (i batteri misurano millesimi di millimetro e i virus sono molto più piccoli) è la paura, il sentimento che “spinse i genovesi a lasciare precipitosamente Caffa e altri ad abbandonare le città appestate nel tentativo di sfuggire a un morbo che in realtà portarono con loro”. E che in tempi più recenti “ha indotto il governo del Sudafrica per diversi anni a sposare tesi negazioniste riguardo all’Hiv come causa dell’Aids”, che temendo gli untori “in innumerevoli casi” non ha fatto che produrre altre vittime innocenti, che sospetta dei migranti come ambasciatori di nuove o vecchie malattie.
Ma le paure forse più attuali e rischiose sono quelle, in qualche modo opposte, che ci portano da un lato a diffidare dei vaccini e dall’altro ad “assumere con leggerezza farmaci inappropriati, ad esempio antibiotici”. Se “Tutta la storia dell’umanità è stata una lunga battaglia contro i microbi responsabili delle malattie infettive”, che però abbiamo “combattuto per decine di migliaia di anni solo con gli strumenti messi a disposizione dall’evoluzione”, infatti, fortunatamente “negli ultimi decenni abbiamo messo a punto strumenti in grado di proteggerci dalle infezioni”, cioè vaccini e antibiotici. Influenza, morbillo, vaiolo, tifo, colera, sifilide hanno sterminato generazioni, compiuto genocidi, sin dai tempi raccontati da Tucidide, passando per il contatto tra europei e popolazioni amerindie, hanno cambiato il corso della storia, colpendo personaggi come Cesare Borgia, William Shakespeare e Friedrich Nietzsche. Ancora tra il 1918 e il 1919 l’influenza spagnola provocò tra 50 e 100 milioni di morti, più della contestuale guerra mondiale. E nel Novecento il vaiolo, prima di essere definitivamente sconfitto, ha causato 300-500 milioni di vittime…
Ma oggi abbiamo due tipi di farmaci fondamentali, “i vaccini, capaci addirittura di prevenire le malattie, e gli antibiotici, in grado di contrastare le principali infezioni batteriche”. Peccato che “i vaccini rischiano di essere resi inefficaci dalla decisione di alcuni di non servirsene e gli antibiotici da quella di usarli male”. Certo, virus e batteri hanno una straordinaria capacità di sviluppare ceppi resistenti, quella che combattiamo è “una rincorsa tra ricercatori e germi patogeni”, avverte cauto Angela. Ma per sperare di vincerla dobbiamo usare le armi che abbiamo in modo adeguato e convinto. Senza paura (per non usare altri termini).

Marco Ferrazzoli


Barbara Gallavotti, “Le grandi epidemie” (Donzelli, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Il professore e il pazzo’: un incontro allo specchio

Il racconto di una doppia avventura intellettuale e personale straordinaria: quella di James Murray, direttore dell’Oxford English Dictionary, e del dottor William Chester Minor, tra i più prolifici collaboratori dell’Oed, internato in manicomio in quanto affetto da follia omicida. Assieme ai due, molti altri personaggi interessanti vissuti nella cornice di un’opera monumentale e fondamentale


È il racconto di un’avventura intellettuale e di una vicenda privata (doppia) straordinarie: quella del professor James Murray, direttore editoriale dell’Oxford English Dictionary (Oed), e quella del dottor William Chester Minor, uno dei più prolifici collaboratori del Dizionario con decine di migliaia di schede, oltre cento alla settimana. Il libro di Simon Winchester, divenuto non a caso il plot di un recente film, presenta poi non pochi altri elementi di attualità e interesse: evidenzia come tassonomia e storicizzazione dei lemmi siano tra i problemi metodologici fondamentali di qualunque impresa culturale; illustra il moderno approccio vittoriano verso la malattia mentale (“caratteristica mescolanza di severità e illuminismo”, la definisce l’autore); il cosiddetto Oed rappresenta un pionieristico esperimento di citizen science, considerazione che abbiamo già espresso sull’Almanacco riguardo ad alcuni divulgatori italiani dell’epoca; infine, entrambi i protagonisti sono capaci di incarnare al meglio lo spirito della libera ricerca e della curiosità intellettuale anche in quanto ‘non accademici’, un po’ come Marconi.

Il senso del libro sta soprattutto nell’incontro tra i due, nella scoperta che sconvolge Murray quando finalmente sta per incontrare il suo collaboratore: “Me ne rincresce signore ma non sono io. Non è affatto come pensate. In realtà io sono il direttore del manicomio criminale di Broadmoor. Il dottor Minor è qui senza dubbio. Ma è un detenuto. È ricoverato da più di vent’anni”. L’uomo che più aveva contribuito all’Oxford English Dictionary è un pazzo omicida, affetto da una follia esplosa a seguito dei traumi subiti come ufficiale medico nella Guerra di secessione, durante la quale fu tra l’altro costretto a marchiare a fuoco un irlandese disertore, ma dovuta probabilmente a tare genetiche, visto che due fratelli di Minor si sono suicidati. “Eppure, con la follia, venivano anche le parole”.
Peraltro, Minor non è l’unica persona con problemi mentali che collaborò al dizionario, considerando anche Fitzedward Hall e soprattutto Frederick Furnivall, il segretario della Philological Society. È anche grazie a queste persone geniali e stravaganti se, dopo un lavoro di decenni, vede la luce quest’opera monumentale – 414.825 lrmmi; 1.827.306 citazioni, sei milioni di schede restituite dai volontari, due tonnellate di materiale nel solo 1879 – e fondamentale: basti dire che Voltaire la propose ai francesi come modello di un loro dizionario e che, l’autore usa un esempio fulminante, Shakespeare “non poteva, come si dice in inglese, look up ‘cercare’ un termine”.
Di personaggi interessanti se ne incontrano insomma molti nel volume. Da Alexander Melville Bell, “padre dell’infinitamente più famoso Alexander Graham”, a Henry Sweet, cui Bernard Shaw si sarebbe ispirato per uno dei personaggi di Pigmalione; dal “Killer Pazzo”, che oggi occupa una delle stanze abitate da Minor a Broadmoor, a Ezra Pound e John Hinckley, l’uomo che tentò di assassinare il presidente Reagan, entrambi internati come Minor nella casa di cura St. Elizabeth a Washington; da Daniel Defoe a Jonathan Swift, i “fari della letteratura inglese” che avevano lamentato la mancanza di un dizionario come l’Oed (Swift, in particolare, era indignato per l’uso della forma “couldn’t” nella lingua scritta, dov’è oggi comunemente accettata). Fino a Winston Churchill, che come ministro dell’Interno firmò la scarcerazione condizionale di Minor.
Ma la ricchezza umana e intellettuale del “professore” e del “pazzo” è tale da lasciare poco spazio ai comprimari. Per quanto “di primo acchito” sembrino contrassegnati “più dalle differenze […] che dalle somiglianze”, i due sono davvero speculari e simili. Tant’è che dopo il loro incontro “entrambi avranno creduto per un momento di avvicinarsi a se stessi riflessi in uno specchio”, vista tra l’altro la loro “barba: in entrambi i casi bianca, lunga e a due punte, con folti baffi e basette”. Non c’è da meravigliarsi se ne nacque “un’amicizia lunga e salda” che rese Murray e consorte i due più infaticabili supporti per il povero Minor, che negli ultimi anni arrivò persino ad auto-evirarsi dopo un doloroso percorso di schizofrenia, paranoie, fobie e fissazioni (assieme, va detto, alla vedova della sua vittima, che dopo averlo conosciuto non fece mancare il proprio aiuto all’assassino del marito).
In parte la relazione tra i due è la “romantica e piacevole invenzione” di un giornalista americano, che fu la principale fonte sulla vicenda finché nel 1977 K. M. Elisabeth Murray mise mano alla biografia del nonno. Ora Winchester ha prodotto un’opera completa di cui l’ottima traduzione italiana edita da Adelphi consente di apprezzare anche lo stile letterario. L’autore si muove in quel territorio di confine tra romanzo e saggio che è la chiave di molta della migliore letteratura odierna, si pensi all”Imperatore del male’ o alla biografia di Hermann Rorschach, riuscendo a mantenere la minuzia documentale evitando la prolissità di alcuni saggisti anglo-americani: in questo, il libro ricorda la produzione di un grande critico come il nostro Pietro Citati.

Marco Ferrazzoli


Simon Winchester, “Il professore e il pazzo” (Adelphi, 2018)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Gli ippopotami cantano? Pierluigi Cappello sicuramente sì

Il libro di Alberto Garlini racconta il lungo e profondo rapporto inttrattenuto con uno dei massimi poeti italiani, inchiodato su una carrozzina da un incidente di moto. Il libro ha due meriti: omaggiare un esponente fondamentale della poesia in lingua e dialettale e aver costruito, con la narrazione della loro amicizia, un vero romanzo e una vera autobiografia, dove disagio corporeo e psicologico trovano una via di catarsi parallela


Ma gli ippopotami cantano? La domanda potrebbe sorgere spontanea leggendo il titolo del libro di Alberto Garlini “Il canto dell’ippopotamo”, ma ci porterebbe fuori strada, lungo il pur appassionante tema etologico ed evoluzionistico delle azioni che consideriamo o meno esclusiva umana: ridere (memorabile al riguardo il dialogo tra Jorge e Guglielmo ne “Il nome della rosa”), piangere, utilizzare strumenti tecnologici (di cui abbiamo parlato recensendo “Umani” di Adam Rutherford) e, appunto, cantare. Azione che si esplica in un ventaglio di forme amplissimo e fondamentale, tanto da divenire persino oggetto di contesa come accade in questi giorni a Sanremo. Ma la frase, in realtà, con l’opera di Garlini c’entra poco o, meglio, serve nella sua casuale insignificanza a rappresentare un periodo e un aspetto della depressione di cui l’autore racconta: il rapporto stoccolmiano vittima-carnefice che instaura con una donna almeno altrettanto squilibrata, affetta da un egocentrismo pseudoartistico e particolarmente amante, appunto, degli slogan a effetto.
Vera e principale protagonista del libro è in realtà colei che della canzone è in qualche modo sorella, anche se il loro rapporto è estremamente controverso, e cioè la poesia, vista attraverso il lungo e profondo rapporto che Garlini ha intessuto con Pierluigi Cappello. Uno dei massimi poeti italiani, accomunabile sicuramente a Pier Paolo Pasolini, quanto meno per la comune friulanità, ma forse anche a Dario Bellezza e Valentino Zeichen per la stretta, ambigua, irrisolvibile connessione tra l’attività letteraria e la biografia “estrema”: omosessuale morto di Aids Bellezza, “baraccato” del quartiere romano Flaminio Zeichen, inchiodato su una carrozzina da un incidente di moto Cappello, hanno tutti vissuto le loro non lunghe esistenze tra il plauso della critica e degli intellettuali, il successo del magro ma appassionato pubblico della poesia contemporanea, le ristrettezze e difficoltà economiche e materiali.
Cappello sarebbe stato poeta anche camminando sulle proprie gambe, ma ovviamente non sarebbe stato lo stesso poeta. E a Garlini vanno riconosciuti due meriti. Il primo è quello di riservare un contributo fondamentale a un esponente fondamentale della poesia in lingua e dialettale (l’autore sceglie e suggerisce, in tutta l’opera, “Parole povere”), che si aggiunge al film che gli è stato dedicato da Francesca Archibugi e allo splendido romanzo autobiografico del poeta Questa libertà, in cui il racconto della caduta nella paralisi corporea è di un’efficacia agghiacciante proprio per la sua assoluta assenza di enfasi. L’altro è di aver costruito, con la narrazione della sua amicizia, un vero romanzo e una vera autobiografia dove il disagio corporeo di uno e quello psicologico dell’altro trovano nella poesia una via di catarsi parallela, adiacente, se non coincidente date le forti differenze letterarie che intercorrono tra i due protagonisti del libro.

Marco Ferrazzoli


Alberto Garlini, “Il canto dell’ippopotamo”, Mondadori (2019)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

La peste di Abbate ricorda la nostra

Impossibile leggere questo romanzo senza riferirsi al contesto attuale. Il protagonista è un inventore di barzellette. Tra le pagine sono disseminati continuamente dubbi e considerazioni analoghi ai nostri di oggi


È uscito in pieno anno di pandemia il romanzo di Fulvio Abbate “La peste nuova” ed è ovviamente impossibile leggerlo senza riferirsi al contesto attuale. Il protagonista è Guido Battaglia, un inventore di barzellette: questo il suo “impiego ufficiale nel collocamento dello spettacolo tragico della città”. Il suo compito è inventare “l’ultima risolutiva salvifica” barzelletta che serva “a proteggere le città”. Ma oltre a questo personaggio, evidentemente metaforico del ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea, se ne affacciano altri che è difficile non rimandare all’attualità, per esempio l’ufficiale sanitario che consegna “i moduli obbligatori entrati in vigore dove segnare i propri spostamenti”.

Tra le pagine sono continuamente disseminati dubbi e considerazioni a dir poco analoghi ai nostri di oggi. “Guardati intorno vedi la città quanto credi che potrà ancora reggere? Questa nuova epidemia è gigantesca incalcolabile fuori dalla portata dell’umano”. “Quanto a Dio nelle circostanze estreme mostra la propria assenza la sua non esistenza”. “Nelle settimane di peste, quando l’unica notizia accampata nei media riguardava il batterio e le possibilità di sconfiggerlo, l’attesa di un vaccino, la penuria di mascherine sterili, ammesso che queste potessero proteggere realmente le persone, insieme alla cura nel lavarsi le mani con liquidi disinfettanti”. “Anche la Procura aveva indagato su irregolarità nel ricovero di pazienti in strutture private”. “Dalla città del Vaticano direttamente dal profilo Twitter del pontefice confermarono che l’Angelus della domenica successiva si sarebbe svolto in collegamento video”. “Irresponsabili o increduli che ancora ignorano la gravità delle circostanze” e che “trovavano il tempo di immaginare alcune allegorie per nulla scientifiche della peste”. “Il pensiero degli ospedali ormai colmi di ricoverati mi ha riportato agli ultimi giorni di vita di mio padre”. Il “comunicato seguito da un tweet” della Prefettura “dove pur continuando a definire seria la situazione si accennava a tenui segnali di miglioramento” di regressione del contagio”.
In altri punti del libro si colgono invece riferimenti, più o meno espliciti, a contagi del passato. “Sul muro accanto all’ingresso della casa dove vivevo è apparso un doppio cerchio giallo segnato a spray. Il presidio medico d’intervento e valutazione dell’epidemia aveva individuato un focolaio”. “Un amico omosessuale raccontava che nei giorni più drammatici dell’Aids molti gay si ritrovavano in circolo ognuno a masturbare se stesso”. Un altro protagonista de “La peste nuova”, a proposito, è il sesso, che entra nella storia attraverso un’oggettistica da porno-shop, “i vibratori, i dildi e le protesi falliche” e profferte di scambio: “Amore interessato, è vero, ma tu in caso di buona riuscita verresti ripagato, conviene pure a te […] Ci sembra il minimo proporti la nostra scommessa dunque il destino della città è nelle tue mani”.
Più alate, letteralmente, altre figurazioni come quella di “una mousse che, spalmata sulle scapole, in poche settimane avrebbe fatto crescere le ali a ogni acquirente” dal “cuore puro, come libero, non cuore prigioniero”. Qualcuno, prendendo spunto dal preparato, “aveva proposto la costruzione di un nuovo aeroporto da dove abbandonare la città quando la situazione sarebbe precipitata definitivamente. Un’idea che certo consorzio di imprenditori privati, assenti al ritegno, accolse senza remore, dando così inizio allo spianamento di un terreno e alla messa in opera di un capannone coperto dove intrattenersi nell’attesa del peggio”.
Il romanzo nasce dalla riscrittura radicale di “La peste bis”, apparso in libreria nel gennaio 1997. L’omaggio a Camus resta intatto quale fonte di precisazione e, spiega l’autore: “Il dramma concreto quotidiano della pandemia da Covid-19, insieme agli obblighi della quarantena, dell’esilio domestico con la desertificazione del paesaggio urbano, sono stati una semplice sollecitazione”.

Marco Ferrazzoli


Fulvio Abbate, “La peste nuova”, La nave di Teseo (2020)



Zivago, non solo un film

La notorietà del capolavoro di Boris Pasternak “Il dottor Zivago” e oggi probabilmente dovuta al film che vi è stato tratto più che all’originale letterario. Succede quando Hollywood come in questo caso si impegna con una regia di grande capacità, con un cast che più stellare non si potrebbe e con una colonna sonora che è rimasta nell’immaginario collettivo. L’efficacia della pellicola non deve fare però dimenticare che fu questo libro a determinare la scelta dell’accademia di Stoccolma di assegnare il Nobel per la letteratura allo scrittore, che non poté ritirarlo poiché le autorità sovietiche gli negarono il permesso. Del resto l’opera, raccontando le tragiche vicende della rivoluzione russa, costituiva per il rigido regime di Mosca un problema a dir poco imbarazzante. All’interno di questo scenario politico si svolgono le non meno drammatiche vicende d’amore del medico eponimo, al quale sul grande schermo resta il volto Omar Sharif, attore icona dell’epoca


Russia, anni ’10. Yurij Zivago è un giovane e brillante studente di medicina con un’inclinazione per la poesia; l’uomo sta completando i suoi studi ed è fidanzato con la cugina Tonya. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Yurij si reca al fronte per prestare i suoi servizi come medico; qui ritrova Lara, una ragazza che aveva conosciuto anni prima a Mosca e della quale si scopre innamorato…

Il dottor Zivago, filmato nel 1965 dal regista inglese David Lean, autore di classici quali Il ponte sul fiume Kwai e Lawrence d’Arabia, rappresenta senza dubbio uno degli eventi cinematografici più importanti di tutti i tempi: un film sontuoso ed indimenticabile, consacrato fra le pellicole più famose ed amate che siano mai state realizzate. Tratto dal celeberrimo romanzo dello scrittore russo Boris Pasternak, adattato per lo schermo da Robert Bolt, Il dottor Zivago è passato alla storia come uno dei maggiori colossal di Hollywood, con quasi un anno di riprese per una durata di oltre tre ore. Prodotta dall’italiano Carlo Ponti per la MGM e costata 11 milioni di dollari, l’opera si è rivelata un successo di pubblico senza precedenti, con 110 milioni incassati al botteghino americano e circa 250 milioni di spettatori in tutto il mondo; all’epoca, è diventato il quarto film più visto di sempre negli Stati Uniti (120 milioni di spettatori), ed ancora oggi rimane fra i primi dieci in assoluto.
Rispetto al libro di Pasternak, che alla sua pubblicazione aveva provocato notevole clamore per i suoi contenuti politici ed era stato bandito dall’Unione Sovietica, il film di Lean (girato tra la Spagna, la Finlandia e il Canada) riduce gli aspetti prettamente storici e sociali della vicenda per soffermarsi invece sull’amore travagliato fra i due protagonisti: il dottor Yurij Zivago e la bella infermiera Lara, interpretati rispettivamente dal popolare attore egiziano Omar Sharif e da una splendida Julie Christie; al loro fianco, un cast stellare formato da giovani talenti emergenti (Geraldine Chaplin, Tom Courtenay, Rita Tushingham) e da affermati veterani (Rod Steiger, Alec Guinness, Ralph Richardson). Riuscendo a fondere la maestosità della ricostruzione scenica con il gusto per il racconto epico e sentimentale, Lean ci regala uno spettacolo decisamente coinvolgente, che si avvale di una galleria di personaggi ben caratterizzati e di una regia magistrale, efficace soprattutto nelle scene di massa e nelle panoramiche mozzafiato.
I grandi eventi storici della Russia di inizio secolo (la Rivoluzione bolscevica, la guerra civile, la nascita del regime socialista) si intrecciano con le passioni private dei vari personaggi, le cui esistenze sono ripercorse tramite la voce narrante del fratello di Yurij, il generale Yevgraf Zivago (Guinness), in un prologo introduttivo ambientato diversi decenni più tardi. Da antologia la stupenda colonna sonora composta da Maurice Jarre, incluso il mitico Tema di Lara, memorabile leit-motiv della pellicola. Presentato al Festival di Cannes nel 1966, Il dottor Zivago è stato un trionfo mondiale ed ha ottenuto cinque premi Oscar (sceneggiatura, musiche, fotografia, scenografia e costumi) e cinque Golden Globe.

Stefano Lo Verme

Fonte: MyMovies

Michael Bulgakov: Margherita e…

Tra storia d’amore e persecuzione sovietiche, un capolavoro senza tempo ma con un po’ di satira


Michail Bulgakov ha legato per sempre la sua notorietà di scrittore a “Il maestro e Margherita”, uno dei romanzi più celebri e amati della letteratura degli ultimi secoli, storia allo stesso tempo surreale, dove entrano da protagonisti elementi metafisici e magici, il ritratto impietoso della società staliniana. Un’ambivalenza che mise in difficoltà lo stesso dittatore sovietico, il quale concesse allo scrittore un particolare regime di “quasi libertà”. Dal punto di vista della salute e della malattia, però, è per noi più interessante il libro nel quale Bulgakov raccontò in modo realistico ma affabulatorio, umoristico e drammatico nello stesso tempo, i suoi incerti esordi come medico, catapultato senza supporto né preparazione sufficienti in una sperduta condotta siberiana. La serie di aneddoti ed episodi che l’autore riferisce è riconducibile ad un messaggio crudo e ineludibile: per il giovane medico i pazienti sono una sorta di cavie sulle quali formare l’esperienza professionale. Le vicende che il grande romanziere descrive fanno ovviamente riferimento a una pratica molto diversa da quella dei nostri giorni, nei quali le scelte dei sanitari sono supportate da strumentazioni, tecnologia e, quindi, dati obiettivi. Lo scrittore medico si trova invece a dover intervenire in presenza di un parto podalico oppure a dover eseguire una indispensabile amputazione senz’altro conforto che quello di improvvisati assistenti, trovandosi costretto persino a correre nella propria stanza per dare un’occhiata ai libri di testo e ripassare l’argomento del quale, nella concitata emergenza di cui è spesso fatta la sanità, non ricorda nulla.

Redazione CNR


Michail Bulgakov, “Il maestro e Margherita”, Einaudi (2014)


RaiPlaySound – Rai Radio 3 , Audiolibri ad alta voce – Il maestro e Margherita

Una sincera, spudorata storia di sla

La cruda e realistica autobiografia di una malata di sla: “L’ultima estate” è un’opera a metà tra diario e letteratura, una collezione di fatti, persone e pensieri raccontati con spudorata sincerità.

Il caso editoriale del 2008 è stato quello di Paolo Giordano con ‘La solitudine dei numeri primi’, quello di quest’anno, Cesarina Vighy de ‘L’ultima estate’: due esordienti. Un fattore comune non infrequente, si pensi a come torni anche in ‘Mille anni che sto qui’ di Mariolina Venezia e per la Benedetta Cibrario di ‘Rossovermiglio’. È chiaro che le opere prime conservano una freschezza letteraria che gli ‘scrittori di professione’ facilmente perdono, preferendo (loro o gli editori) riciclare i cliché rivelatisi vincenti. Ed ecco dunque l’incetta di premi: il quartetto citato ha fatto strage di Campiello e Strega.

Ma il caso della Vighy ha una particolarità, curiosamente opposta a quella di Giordano: ad un giovanissimo è infatti succeduta una signora over 70. Le due ‘rivelazioni’ sono agli antipodi non solo per l’anagrafe: all’aitante ricercatore che ha dimostrato grande equilibrio, anche nel gestire l’immediato ed eclatante risultato, si contrappone una malata di sla, cui proprio l’approssimarsi della fine ha impresso la spinta risolutiva per darsi alla letteratura; a un romanzo nel quale la malattia (psichica) dei protagonisti viene trattata con estrema freddezza (è questo l’aspetto che ha talvolta respinto i lettori de ‘La solitudine dei numeri primi’), fa pendant la scelta della Vighy redigere una cruda e realistica autobiografia partendo dalla situazione di paziente irrecuperabile.

Quest’ultimo aspetto, però, è prevalso eccessivamente nelle interpretazioni di molti critici e commentatori. ‘L’ultima estate’ non è uno dei tanti ‘diari’ di malati che ormai si stipano nelle proposte editoriali (un genere nel quale gli affetti da sla sono particolarmente presenti). È vero che il rapporto con le progressive difficoltà fisiche e con le cure tornano spesso nelle pagine e riempiono quelle finali, ma la cifra del libro sta più in generale nella sua spudorata sincerità, possiamo dire semmai che l’età e le cattive condizioni rendono l’autrice efficacemente disinibita.

Agghiacciante, ad esempio, la rievocazione della “visita alle faiseuses d’anges”, l’aborto giovanile che viene così descritto: “Pallida, seduta ingloriosamente sul bidè, non sembravo certo una regina” (e omettiamo la macabra espulsione del feto). Con lo stesso tono, la Vighy collaziona fatti e persone non memorabili – “Cleopatro Colabianchi, l’unico uomo al mondo che portasse questo nome” – ricorrendo a qualche insistita civetteria letteraria: “spencolandomi tra i banchi alla ricerca della mia preziosa matita col gommino”. Il rischio della banalità, insomma, non sempre viene evitato: “E’ così che, nelle famiglie, si diventa prigionieri uno dell’altro, legati in una rete robustissima che non sai se fatta più d’amore o di odio”; “continuavo a piangere: non per il dolore che non c’era più, ma per la perdita, il lutto”.

Una lettura piacevole, ma non di più, grazie soprattutto alla sua trasversalità di genere. Solo, non si capisce l’illuminazione di cui questo libro ha goduto rispetto ad altri, contemporanei, connotati dalla medesima capacità di intersecare dato biografico e letterario. Ad esempio il piacevolissimo ‘Mondo privato e altre storie’ di Marta Dassù (Bollati Boringhieri, pp. 149, 10 euro): un “taccuino poco diplomatico” “scritto per insonnia” da una esperta di relazioni internazionali, insieme diario rivolto a un ipotetico “dottore” e anamnesi della complicata evoluzione identitaria della sinistra italiana.

Marco Ferrazzoli

Cesarina Vighy, “L’ultima estate” (Fazi, 2009)

Il libro sul sito di Fazi Editore

L’incomprensibile suicidio di Edouard Levé

La vicenda editoriale legata a questo libro è tanto nota quanto drammatica: poco dopo aver consegnato il racconto per la pubblicazione, l’autore si è tolto la vita. Un atto imprevedibile, che si è trasformato in una terribile azione promozionale, rendendo il libro una sorta di diario ‘in tempo reale’ di una persona avviata verso il suo gesto estremo.

‘“Suicidio” rende tanti altri libri vani e inutili’, scrive L’Express in una delle recensioni che hanno segnato il clamoroso successo del libro di Edouard Levé, indissolubilmente legato all’esito imprevedibile e drammatico della vicenda editoriale: poco dopo aver consegnato il racconto per la pubblicazione, l’autore si è tolto la vita. Un atto imprevedibile, che si è trasformato in una terribile azione promozionale, rendendo il libro una sorta di diario ‘in tempo reale’ di una persona avviata verso il suo gesto estremo.

Lo spunto per il libro era giunto a Levé dal suicidio compiuto da un conoscente molti 25 anni prima: l’uomo era rientrato in casa con una scusa, mentre si stava recando ad una partita di tennis con la moglie che, udito lo sparo, era rientrata trovandolo senza vita. Lo scrittore cerca di immedesimarsi con l’amico, tenta di fornire una spiegazione a quella scelta, ma l’impressione che si ricava dalla lettura che in simili frangenti non si possa dire nulla di significativo. Il suicida resta incomprensibile all’autore, come Levé lo è, doppiamente, per noi.

Da un lato Levé, con la retorica di alcune espressioni, sembra ammantare il suicida della scontata mitologia che accompagna queste persone: ‘Nell’arte togliere equivale a migliorare. Scomparendo ti sei perpetuato in una bellezza negativa’; ‘Il tuo suicidio è stato un’azione a effetto inverso: una vitalità che produce morte’. Dall’altro lato, pare condividere l’accusa di egocentrismo che spesso viene rivolta a chi si uccide: ‘Non potevi accettare di mentire a quella semplice domanda: come stai?’, ‘Ti stupiva che i tuoi stati d’animo potessero essere tanto mutevoli senza che nessuno se ne accorgesse’.

Ma probabilmente il suicida non è un ragazzino immaturo né un eroe romantico. E forse, più dei suicidi, è facile spiegare i suicidi ‘mancati’. Più di questo libro ci appare vicina, nella sua inconsolabile tristezza, l’ingenuità dell’adolescente che scrive a uno psicologo da settimanale: ‘L’unico motivo per cui non oso togliermi la vita non è la paura. È che non so come si sta dopo’.

Marco Ferrazzoli

Edouard Levé, “Suicidio” (Bompiani, 2007)

Psichiatria tra scienza e terapia

“Benvenuti in una branca medica misteriosa e appassionante, dove i progressi delle neuroscienze si scontrano di continuo con quel gran pasticcio che è in realtà l’essere umano”: così l’autore Tom Burns accoglie i lettori di “Psichiatria”, un manuale dalla lettura agile, che introduce a una disciplina complessa, che va oltre la “mera medicina”.

Il libro numero 100 della collana Paperback di Codice è un manualetto agile e semplice, anche nel linguaggio, sulla psichiatria. Disciplina molto attraente, che talvolta rischia di scontare qualcosa al successo della psicologia o, più ancora, del dilagare delle ‘terapie’ per il disagio e la malattia mentale, per la quale c’è dunque bisogno di conoscere e comprendere i capisaldi scientifici.

Il libro di Tom Burns lo fa con equilibrio, spiegando come sia riduttivo pensare la psichiatria in termini di mera ‘medicina’, assimilandola eccessivamente alle branche che si occupano di altri organi del nostro corpo o di patologie diverse, come la cardiologia o l’oncologia. D’altronde, non bisogna neppure cedere al fascino che a questa scienza deriva dal fatto di dare forma ai nostri ‘demoni’ interiori: la depressione come versione amplificata delle nostre tristezze, lo squilibrio conclamato e patologico come amplificazione speculare delle nostre inibizioni e paure.

Quella della psichiatria è una storia travagliata, durante la quale i progressi hanno sempre dovuto fare i conti con i risvolti sociali della malattia, con il pregiudizio e la paura del ‘diverso’, scontrandosi continuamente con quel mistero irrisolto che è l’essere umano nella sua ‘psiche’ (anima, dal greco). Una sfida che si rinnova ad ogni scoperta, imponendo un continuo ripensamento delle questioni filosofiche irrisolte: libero arbitrio, dualismo mente-cervello, autonomia personale e obblighi sociali.

Ufficio stampa Cnr

Tom Burns, “Psichiatria” (Codice, 2006)

L’anteprima sul sito di Codice Edizioni

Quando la filosofia cura

Qual è la linea di demarcazione che separa il counseling filosofico dalla psicologia? Un interessante volume analizza il dibattito circa la valenza “formativa” della consulenza.

Appare curioso che un piccolo comune del litorale marchigiano, noto soprattutto come stazione di cambio, editi un volume sul counseling filosofico. E si potrebbe sospettare che, come molti altri centri della provincia italiana, Falconara Marittima abbia voluto approfittare della dilagante moda della divulgazione popolare della filosofia.

Il volume inaugura però un impegno editoriale ampio, coordinato dall’associazione L’Orecchio di Van Gogh, attiva anche in altri campi. La breve collettanea ha il merito di concentrarsi su un aspetto nodale della consulenza filosofica, quello che ancora oggi rende ‘sospetta’ tale pratica, pur in corso di veloce diffusione: il rischio che essa invada, senza averne le competenze scientifiche e quindi rischiando di produrre danni anziché vantaggi, il campo della psicologia.

In effetti, quanto il limite tra le due attività sia labile alcuni degli autori intervenuti lo confessano con molta onestà, criticando i paletti posti dagli stessi fondatori del counseling: la natura non ‘curativa’ e il porsi sempre al di qua delle situazioni patologiche.

Ma se si passa alla parte più interessante del libro, cioè l’appendice con le anamnesi di alcuni incontri, si scopre chiaramente che sia le situazioni di partenza dei pazienti (o consultanti) sia i metodi di approccio sono estremamente simili a quelli della terapia relazionale. Se differenza c’è, insomma, è rispetto alle analisi del profondo, alla freudiana in primis, che però anche nell’ambito delle psicoterapie sono ormai minoritarie, sia per le esigenze di risparmio (di tempo e denaro) manifestate dai pazienti, sia perché la impostazione ‘liberatoria’ della psicanalisi classica è ormai quasi sovvertita e sostituita da un’impostazione che privilegia la ricerca di senso, di un senso per affrontare lo smarrimento tipico della società contemporanea.

A suo modo, il contributo forse più indicativo è quello Maria Maistrini, che dichiara tranquillamente di fare uso nella propria attività di strumenti come i tarocchi. La domanda diventa dunque: se anche l’uso delle carte può avere effetti benefici, allora cosa distingue le terapie curative da quelle formative, e cosa impedisce di inserire nel calderone dalle rubriche epistolari di Natalia Aspesi e Massimo Gramellini che, ne siamo sicuri, con il loro buonsenso spesso risolvono i problemi dei loro mittenti? In tale quadro di ‘liberalizzazione’, arriverà il giorno in cui dopo aver ringraziato un amico per una chiacchierata che ci ha aiutato a stare meglio, ci vedremo presentare la parcella?

Marco Ferrazzoli

Moreno Monanari (a cura di), “La consulenza filosofica: terapia o formazione?” (Comune di Falconara Marittima, 2006)