Maledetto Malaparte

Ecco una serie di stralci da “La pelle”, il romanzo di Curzio Malaparte che racconta l’arrivo dei soldati americani a Napoli sotto la metafora di una “peste” morale


« È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla.
[…]
Nessun popolo sulla terra ha mai tanto sofferto quanto il popolo napoletano. Soffre la fame e la schiavitù da venti secoli, e non si lamenta. Non maledice nessuno, non odia nessuno: neppure la miseria. Cristo era napoletano.
[…]
Voglio bene agli americani, qualunque sia il colore della loro pelle, e l’ho provato cento volte, durante la guerra. Bianchi o neri, hanno l’anima chiara, molto più chiara della nostra. Voglio bene agli americani perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché credono che Cristo sia sempre dalla parte di coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa grave aver torto, che è una cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli son galantuomini, e che tutti i popoli d’Europa sono, più o meno, disonesti. Perché credono che un popolo vinto è un popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna morale, è un atto di giustizia divina.
[…]
Il 1 ottobre 1943 è una data memorabile nella storia di Napoli: perché segna l’inizio della liberazione dell’Italia e dell’Europa dall’angoscia, dalla vergogna, e dalle sofferenze della schiavitù e della guerra, e perché proprio in quel giorno scoppiò la terribile peste, che da quell’infelice città si sparse a poco a poco per tutta l’Italia e per tutta l’Europa.
[…]
Ma le zone più frequentate dai liberatori erano proprio quelle Off limits, cioè quelle più infette e perciò più vietate, poiché è nella natura dell’uomo, specie dei soldati di tutti i tempi e di qualunque esercito, preferire le cose proibite a quelle permesse.
[…]
Ma quel che più commuoveva il popolo napoletano era la gentilezza di modi dei liberatori, specie degli americani, la loro disinvolta urbanità, il loro senso di umanità, il loro sorriso innocente e cordiale di onesti, buoni, ingenui ragazzoni. Se è mai stato un onore perdere la guerra, era certamente un grande onore, per i napoletani, e per tutti gli altri popoli vinti dell’Europa, aver perduto la guerra di fronte a soldati così cortesi, eleganti, lindi, così buoni e generosi.
[…]
La fame umana ha una voce meravigliosamente dolce e pura. Non v’è nulla di umano nella voce della fame.
[…]
Napoli […] è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. […] Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli.
[…]
Erano i giorni della «peste» di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo.
Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo.
L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.
Ma nonostante l’universale e sincero entusiasmo, non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo. »

Curzio Malaparte


I Demoni

In questa scena del romanzo, un uomo si toglie la vita: Dostoevskij descrive in maniera minuziosa la scenza, ponendo un accento particolare sul sangue e sulla reazione degli accorsi.

Nessuno aveva notato in lui nulla di speciale: era calmo, quieto e affabile. Doveva essersi sparato verso mezzanotte, sebbene, cosa strana, nessuno avesse udito il colpo; se ne erano accorti solo quel giorno, verso l’una, quando dopo aver bussato invano, avevano abbattuto la porta. La bottiglia di Château d’Yquem era stata vuotata a metà; anche d’uva ne rimaneva mezzo piatto. Il colpo era stato sparato
con una piccola rivoltella a tre canne, puntata direttamente al cuore. Di sangue ne era uscito poco; la rivoltella gli era caduta dalle mani sul tappeto. Il ragazzo era mezzo disteso su un angolo del divano. La morte doveva essere stata istantanea; nessun mortale tormento si notava sul suo viso; aveva un’espressione calma, quasi felice, desiderosa di vivere. Tutti i nostri lo contemplavano con avida curiosità. Generalmente in ogni disgrazia del prossimo c’è sempre qualcosa che rallegra l’occhio dell’estraneo, chiunque sia. Le nostre signore guardavano in silenzio, mentre i compagni si distinsero per acume e grande presenza di spirito. Uno osservò che era la miglior fine, e che il ragazzo non avrebbe
potuto escogitare niente di più intelligente; un altro concluse che almeno per un attimo aveva vissuto bene.

Fëdor Dostoevskij

Delitto e Castigo

In questo brano viene descritta la morte di a causa della tubercolosi: l’autore mette in evidenza i sintomi psichici prima della morte della donna.

«Calmatevi, signora, calmatevi,» prese a dire il funzionario. «Venite con me, vi accompagnerò io… Non va
bene così, in mezzo alla folla… Voi vi sentite male…»
«Mio gentile, gentilissimo signore, voi non sapete niente!» gridava Katerìna Ivànovna. «Noi andremo sul
Nèvskij Prospèkt… Sònja, Sònja! Ma dove s’è cacciata? Ecco che piange anche lei! Ma insomma, che cosa avete tutti quanti?… Kòlja, Lènja, dove andate?» esclamò d’un tratto, spaventata. «Oh che sciocchi bambini! Kòlja, Lènja! Ma dove vanno?…»
Era successo che Kòlja e Lènja, spaventati a morte dalla folla e dalle stranezze della madre impazzita, e
vedendo alla fine anche quel soldato che voleva prenderli e portarli chissà dove, a un tratto, come se si fossero messi d’accordo, s’erano afferrati per la mano e se l’eran data a gambe. Katerìna Ivànovna si slanciò, urlando e piangendo, al loro inseguimento. Era uno spettacolo penoso vederla correre, così tutta in pianto e ansimante. Sònja e Pòleèka le corsero dietro.
«Sònja, falli tornare indietro, falli tornare! Che bambini sciocchi e ingrati!… Pòlja! Acchiappali!… Ma se è per voi che io…»
Inciampò in piena corsa e cadde.
«Si è fatta male, sanguina! Oh, Signore!» esclamò Sònja, che si era chinata su di lei.
Tutti accorsero e le si fecero intorno. Raskòlnikov e Lebezjàtnikov furono tra i primi ad accorrere; anche il
funzionario sopraggiunse in fretta, seguito dalla guardia che borbottava: «Che guaio!» facendo un gesto seccato con la mano, convinto ormai che la faccenda gli avrebbe procurato delle noie.
«Circolare! Circolare!» diceva respingendo la gente che si affollava tutt’intorno.
«Sta morendo!» gridò uno.
«È impazzita!» disse un altro.
«Signore, proteggili!» disse una donna, facendosi il segno della croce. «E li hanno poi ripresi, la ragazzina e il bimbo? Eccoli lì, li ha acchiappati quella più grande… Però, che bambini balordi!»
Ma quando ebbero esaminato più attentamente Katerìna Ivànovna, si accorsero che non si era affatto ferita contro una pietra, come aveva pensato Sònja: il sangue che aveva arrossato il selciato le era sgorgato dal petto e dalla
bocca.
«So bene cos’è, l’ho già visto,» mormorava il funzionario a Raskòlnikov e a Lebezjàtnikov. «È la tubercolosi; il
sangue viene fuori e ti soffoca. L’ho già visto coi miei occhi, è accaduto non molto tempo fa a una mia parente; ne sarà
venuto fuori un bicchiere e mezzo… all’improvviso… Ma che dobbiamo fare, visto che sta morendo?»

Fëdor Dostoevskij

L’Idiota

Dopo aver ucciso Nastas’ja, Rogožin si trova in compagnia del principe Myškin. In questo brano l’omicida si incammina sulla strada del delirio.

Il principe sobbalzò sulla sedia in preda a un nuovo terrore. Quando Rogožin tacque di nuovo e di colpo, il principe si chinò in silenzio verso di lui, gli si sedette accanto e col cuore in tumulto e il respiro affannoso prese a scrutarlo. Rogožin non si voltava, sembrava addirittura che si fosse dimenticato di lui. Il principe lo guardava in attesa. Il tempo passava, cominciava ad albeggiare. Rogožin di tanto in tanto si metteva a borbottare forte, bruscamente, gridava, rideva. Il principe allora tendeva la mano tremante verso di lui e gli accarezzava la testa, i capelli, le guance… più di quello non poteva fare! Incominciò di nuovo a tremare forte e gli sembrò che la forza abbandonasse di nuovo le gambe. Una sensazione completamente nuova gli tormentava il cuore con un’angoscia infinita. Frattanto si era fatto giorno. Si allungò sul cuscino, privo di forze ormai, disperato, avvicinò il suo viso a quello pallido e immobile di Rogožin. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi e bagnavano le guance di Rogožin, ma forse allora non era più cosciente delle sue lacrime e non ne sapeva nulla… Ad ogni modo, quando, dopo molte ore, la porta fu aperta e entrò la gente, l’assassino fu trovato completamente privo di conoscenza e in delirio. Il principe era seduto immobile accanto a lui e, ogni volta che il malato gridava o delirava, si affrettava a passargli la mano tremante fra i capelli e sulle guance, per calmarlo con le carezze. Ma non comprendeva più nulla di quanto gli veniva chiesto, non riconosceva la gente che lo circondava e se Schneider in persona fosse giunto dalla Svizzera per visitare l’allievo e paziente d’un tempo, anch’egli, ricordando lo stato in cui il principe a volte si trovava durante il primo anno della sua cura in Svizzera, avrebbe fatto un gesto di scoraggiamento e avrebbe detto come allora:
«Idiota!».

Fëdor Dostoevskij

Fonte: http://www.writingshome.com/ebook_files/221.pdf

Il panico di Frascella e Valenti

Il panico quotidiano” di Christian Frascella (Einaudi) si presenta come un vero e proprio diario di un malato, sin dall’incipit: “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”. Ne ‘La fabbrica del panico’ Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con semplicità, i suoi due spunti letterari, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. Tra i precedenti che vengono richiamati alla mente, Paolo Volponi


Si presenta come un vero e proprio diario di un malato più che come un romanzo, ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella (Einaudi). Sin dall’incipit, “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”, fino al finale, uno dei punti più sinceri e sorprendenti del libro.
Nel mezzo, la narrazione lineare e cronologica di un’esistenza segnata da una ‘media’ ma profonda insoddisfazione: per le ambizioni di scrittore fino ad allora frustrate; per il lavoro alla catena di montaggio, in un settore industriale come l’indotto dell’auto piemontese, che nel corso degli anni descritti conosce una grave crisi; per una famiglia d’origine divisa da contrasti profondi quanto inespressi, soprattutto per una serie di relazioni amicali e per un rapporto d’amore che proprio le crisi di panico metteranno in luce nella loro superficialità.
La parte più efficace del libro è quella che descrive – man mano che la malattia avanza – la sensazione di progressivo abbandono, la distanza che si crea con le persone più care, l’impossibilità di condividere un dolore tanto profondo, personale e particolare. Come nel confronto illuminante con l’amico del cuore: “Preoccupato? Io al momento non lo ero. Ma mi resi conto che lui si lo era. E capii che non era preoccupato per me. Era preoccupato per sé. Per se stesso, che ora doveva interagire con un tizio che non ci stava più di tanto con la testa. Fu la prima volta che ebbi a che fare con quella sensazione. Dopo di allora mi è capitato di continuo”.
Del resto, l’ineffabilità delle crisi è reale e il libro stesso si limita, nel descriverle, a espressioni che non riescono a renderne nemmeno una pallida idea: “attacchi feroci, continui”, “non ci sono parole per raccontare agli altri”, “Oddio pensai. Non un’altra volta, non davanti a tutti. Oddio. E più pensavo così più la paura risaliva”.
Analoghe incomprensioni e incertezze, peraltro, il protagonista le incontra tra affidamenti speranzosi, disillusioni e auto prescrizioni, anche a livello sanitario, sperimentando randomicamente, il medico di base, vari psicofarmaci, un Centro di salute mentale, fino a incontrare uno psichiatra ospedaliero che gli farà comprendere, ma ci vorranno anni, come il panico si possa controllare e ci si possa convivere, senza però l’illusione di “guarire”. Un aiuto importante, anche se sporadico, gli arriverà invece dal rapporto stretto con un anziano operaio malato, Tonino Mascia detto “Sissignuri”.
A indebolire il testo è la sciatteria lambita sia nel plot sia soprattutto nello stile, infarcito di espressioni che paiono tratte dalle “emozioni adolescenziali” oggetto delle precedenti opere di Frascella. “Signore, pensai sui gradini della chiesa, non ci frequentiamo più molto ma ci conosciamo da tanto”, “con la passione dov’era andata a finire? Dove se ne va il desiderio quando poi se ne va?”, “Nasconderle le cose? E come avrei potuto fare altrimenti? Non facevamo che nascondercele le cose. Non parlavamo mai, almeno non di noi”. L’editore definisce però ‘Il panico quotidiano’ una prova di “maturità” dell’autore.


Ne “La fabbrica del panico” Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con una semplicità encomiabile, due spunti letterari che hanno dato seguito a filoni cospicui, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. I precedenti che vengono richiamati alla mente sono diversi, oltre a Paolo Volponi che viene esplicitamente richiamato nella nota editoriale: da ‘Acciaio’ di Silvia Avallone a ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella. Il protagonista racconta in modo asciutto, quasi cronachistico, lasciando ai fatti il compito di sgomentare il lettore, la realtà dei “morti d’amianto” attraverso la vicenda del padre operaio e pittore: “La pittura non esisteva senza la fabbrica, la fabbrica non esisteva senza la pittura. Se non fosse stato per la fabbrica non avrebbe avuto la necessità di evadere nella pittura. Se non fosse stato per la pittura, non avrebbe avuto la necessità di guadagnarsi da vivere in fabbrica. Invece di morire ogni giorno dentro quello stabilimento, sarebbe potuto tornare in montagna nei boschi a raccogliere funghi, a coltivare l’orto”.
La morte arriva qualche giorno dopo l’inizio della chemioterapia e dopo anni di un lavoro con cui l’uomo “guadagnava appena il necessario a non morire di fame. Non di più, non di meno” e per il quale “faceva cose che non avrebbe mai fatto in vita sua. Obbediva a ordini a cui non avrebbe mai obbedito”. La fabbrica è, per l’operaio assunto quale simbolo, la causa di un malessere mortale, fatto di “crisi d’ansia… una colite ulcerosa… stanchezza e inappetenza”, che il cronometrista e il caposquadra catalogano “traducendolo in numeri”. Un Fantozzi davvero tragico, che ritiene legittimo perdere o non avere quella salute che non considera un proprio diritto.
Tra il padre e il figlio, che ne eredita le crisi di panico, si interpone però la coscienza sindacale di Cesare, delle riunioni, del “Comitato”, delle manifestazioni, come quella in cui vengono lanciate “decine di palloncini colorati. Ogni palloncino porta il nome di un compagno di lavoro morto”. Nonostante l’ingenuità e la parzialità ideologica di questa coscienza, che si muove sulle note dell’Internazionale e di ‘Bandiera rossa’, non si può non rileggerne la storia con un moto di paradossale rimpianto, accentuato dalla constatazione che la conflittualità della fabbrica contro proprietà e dirigenza, la drammaticità delle sue storie di infortuni, mutilazioni volontarie, “movimenti uguali senza sosta” e tempi di lavoro insostenibili, appaiono quasi un lusso rispetto al nulla occupazionale e civile dello scenario odierno.
In mezzo, tra ieri e oggi, c’è il solco inaccettabile dell’amianto omicida, anzi stragista, delle morti “a catena” – “Cento operai su cento soffrono di disturbi alle prime vie respiratorie… Sessanta operai su cento soffrono d’ansia… Ventidue operai su cento soffrono di silicosi” – della teoria terribile di diagnosi cliniche, dall’asbestosi al carcinoma bilaterale ai polmoni, delle vertenze e delle sentenze.
Il romanzo, conclude l’autore, “deve essere pertanto inteso come un’opera di fantasia basata su fatti realmente accaduti”.

Marco Ferrazzoli


Stefano Valenti, “La fabbrica del panico”, La Feltrinelli (2013)
Christian Frascella, “Il panico quotidiano”, Einaudi (2013)


Fonti:
Almanacco CNR – Diario di una malattia ineffabile
Almanacco CNR – Il tragico “Fantozzi” delle morti d’amianto


Treccani: Volponi, Paolo

Fondazione Bo, per la letteratura europea moderna e contemporanea – Paolo Volponi
“Urbino, i nostri ieri” di Paolo Volponi (Fondazione Bo) (pdf)

Il Nudo e il complesso edipico in Corporale di Paolo Volponi (word)


La poetica follia di Celestini

Ascanio Celestini è l’autore de “La pecora nera”. Lo potremmo definire un multimediale dedicato alla follia. Uno spettacolo culto che per anni è stato portato in tournée nei teatri di tutta Italia, un’edizione in Dvd, un libro, un taccuino, un film del 2010 scritto, diretto ed interpretato da  Celestini, con Giorgio Tirabassi e Maya Sansa. “La pecora nera” raccoglie frammenti di diario, racconti inediti e testimonianze: Nicola, con i suoi 35 anni di degenza in manicomio, mescola realtà e fantasia, comico e tragico; Adriano Pallotta è stato infermiere al Santa Maria della Pietà di Roma, uno tra i più grandi manicomi d’Europa; Alberto Paolini, entrato a quindici anni al Santa Maria della Pietà, ci è rimasto per quarantadue anni


Il manicomio è un condominio di santi. So’ santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex- voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo». Così ci racconta Nicola i suoi 35 anni di «manicomio elettrico», e nella sua testa scompaginata realtà e fantasia si scontrano producendo imprevedibili illuminazioni. Nicola è nato negli anni Sessanta, «i favolosi anni Sessanta», e il mondo che lui vede dentro l’istituto non è poi così diverso da quello che sta correndo là fuori – un mondo sempre più vorace, dove l’unica cosa che sembra non potersi consumare è la paura.
[…]
Raccolgo memorie di chi ha conosciuto il manicomio un po’ come facevano i geografi del passato. Questi antichi scienziati chiedevano ai marinai di raccontargli com’era fatta un’isola, chiedevano a un commerciante di spezie o di tappeti com’era una strada verso l’Oriente o attraverso l’Africa. Dai racconti che ascoltavano cercavano di disegnare delle carte geografiche. Ne venivano fuori carte che spesso erano inesatte, ma erano anche piene dello sguardo di chi i luoghi li aveva conosciuti attraversandoli. Così io ascolto le storie di chi ha viaggiato attraverso il manicomio non per costruire una storia oggettiva, ma per restituire la freschezza del racconto e l’imprecisione dello sguardo soggettivo, la meraviglia dell’immaginazione e la concretezza delle paure che accompagnano un viaggio.
[…]
Il manicomio è un condominio di santi. So’ santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo.


Taras Bul’ba

Un koševoj dà utili consigli ai militari per gestire le ferite della guerra: si tratta di un utile prontuario e contemporaneamente di una testimonianza della medicina nei campi militari al tempo di Gogol.

«Ispezionate, ispezionate tutto per bene!», così diceva. «Riparate i carri e gli ingrassatori dei mozzi, provate le armi. Non prendete molto vestiario con voi: una camicia e due paia di brache per ogni cosacco e un vaso di farina d’avena e di miglio macinato – che nessuno ne abbia di più! Sui carri ci saranno tutte le provviste che occorrono. Che

ogni cosacco abbia un paio di cavalli. E che si prendano un duecento coppie di buoi, perché ai guadi e nei luoghi paludosi occorreranno i buoi. Ma soprattutto, panove, mantenete l’ordine. Io so che tra voi vi sono alcuni che, non appena Dio manda qualche bottino, subito si mettono a lacerar seta e preziosi broccati per farsene pezze da piedi. Smettete questa maledetta abitudine, gettate lontano ogni sorta di sottane, prendete soltanto le armi, se ne capitano di buone, e le monete d’oro o d’argento perché occupano poco posto e fanno comodo in ogni caso. E poi, panove, ve lo dico in anticipo: se qualcuno durante la campagna si ubriaca, per lui non ci sarà giudizio. Come un cane ordinerò che sia attaccato al carro per il collo, chiunque egli sia, foss’anche il cosacco più valoroso di tutto l’esercito. Sarà fucilato sul posto come un cane e sarà abbandonato senza sepoltura in pasto agli uccelli, perché chi si dà all’ubriachezza durante la campagna è indegno della sepoltura cristiana. Giovani, obbedite in tutto agli anziani! Se vi scalfisce una pallottola o se vi scuoiano la testa o qualcos’altro con la sciabola, non fate gran caso a ciò. Mescolate una carica di polvere in una tazza di sivucha, bevetela d’un fiato e vi passerà tutto, non vi verrà neppure la febbre; e sulla ferita, se non è troppo grande, metteteci semplicemente della terra, dopo averla impastata con la saliva nel palmo della mano, e la ferita si seccherà. Orsù, dunque, al lavoro, al lavoro, ragazzi, senza affrettarvi, mettetevi per benino al lavoro!».

Nikolaj Vasil’evič Gogol’

Fonte:


Questo e altro, in tavola rotonda

L’autore tedesco Enzensberger mostra una società che ha deciso di non usare gli occhi per vedere.

[…] essere vittoriosi

Diventa compito dei veggenti

Coloro che hanno un occhio solo

L’hanno preso su di sé

Conquistato il potere

E nominato re il cieco

Alle frontiere sbarrate stanno poliziotti che giocano a mosca cieca

Ogni tanto acchiappano un oculista 

Cui si dà la caccia

Per attività contro lo stato

Tutti i signori dirigenti portano

Un cerottino nero

Sopra l’occhio destro 

Negli uffici oggetti rivenuti ammuffiscono

Forniti dai cani per ciechi

Lenti e occhiali senza padrone.

Solerti giovani astronomi

Si fanno applicare occhi di vetro 

Lungimiranti genitori

Insegnano ai loro figli a tempo debito

L’arte progressista del guardare di sbieco

Il nemico introduce acqua borica a mercato nero

Per la congiuntiva dei suoi agenti

Ma i borghesi perbene non si fidano 

Per cautela delle condizioni

Dei loro occhi.

Hans Magnus Enzensberger

Enciclopedia Treccani online

“La cognizione del dolore”, Carlo Emilio Gadda

Romanzo composto tra il 1938 e il 1941, inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista Letteratura, rimase incompiuto a causa dell’imperversare della guerra e venne pubblicato solo nel 1963 dall’editore Einaudi. Nelle opere di Gadda alla contaminazione dei generi (lirico, grottesco, tragico…) si accompagna sempre quella dei linguaggi (termini di uso non comune, espressioni dialettali, linguaggi settoriali). In questo brano si narra l’incontro di Gonzalo Pirobutirro con la madre, dolorosamente consapevole della malattia psichica (il male oscuro) che tormenta il figlio. La donna, anziana e malata, sta cercando di improvvisare una cena per il figlio, reduce da un viaggio di lavoro: ognuno si chiude nel mutismo e si trincera nella propria solitudine


« L’alta figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto: e, dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Diòscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva! La madre lo scorse, ma non poté vederne il viso contro il rettangolo di luce. Egli allora entrò, e recava una piccola valigia, la solita, quella di cartone giallo da quaranta centavos, come d’un venditore ambulante di fazzoletti. Nella stessa mano, arrotolato, il vecchio ombrello. La madre disse “oh! Gonzalo, come stai? Oh! guarda!” e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a guisa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d’astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l’altra, così fulgida, così pura, non era se non un pensiero lontano della notte.
Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo, non chiese del viaggio, né dell’uragano.
[…]
Le sue mani rigide, quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza; le riuscì difficile d’insinuare il cilindro di cristallo nella sua ghiera precisa, di ottone lucido, come una trina dei costumi desueti: e questa invece lo doveva ritenere alla base. Si sarebbe seduta, tremava… ma bisognò pensare al figliolo… Quando la lampada poté rischiarare la stanza, al fine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva aggiunto di molto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch’era molto alta finestra, sul terrazzo; abbrividendo.
[…]
Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente necessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa: tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d’una qualunque fante. Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna: e sarebbe incorso nelle peggiori bizze ed ubbìe: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene). Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperî osceni tutti i padri e tutte le madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch’ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvolgendo nella turpitudine pazza che lo animalava in quei momenti financo il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl).
[…]
La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorporato in sé, subito, – avvampante splendore di giovinezza – il trionfo serpentesco della “sua” villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).
E quell’orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido. Quello le era bastato, durante quarant’anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d’ogni strazio e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita maglia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo sporco sogghigno della morte.
[…]
in cucina non v’era quasi nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo. Lo stentòreo deretano delle galline del Giuseppe ci perveniva piuttosto raramente, a una così gloriosa estromissione. Ne teneva più d’una, ma facevan l’ovo a turno: e spesso, poi, marinavano il turno. Il figlio si sarebbe imbestialito anche di ciò: e allora bisognava sorvolare, sulle ova. Già altra volta era accaduto che s’infuriasse, per quella inadempienza dei polli del Serruchón porco: e aveva accusato il gallo di morosità genetica e di perversione, le galline d’esser lesbiche, e tr…; poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio “gallinam in marem, gallum in foeminam se se vertisse…”. E, atrocemente, sghignazzando, aveva brindato alla salute del gallo! ma non disse affatto alla salute, disse una parte del corpo: aveva inneggiato, (irridendo lei, la mamma), al gallo bardassa
[…]
Carlo Emilio Gadda

Fonte:
“La cognizione del dolore”: Gonzalo torna a casa – citazioni
Citazioni e frasi celebri

Mio fratello rincorre i dinosauri. Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più

Down: una parola straniera? Una notizia travolgente? Un’etichetta? Una sindrome?

Una persona, un fratello, una questione di sguardo.

Abbiamo una cosa da dirvi… Riguarda vostro fratello.

Papà le strinse la mano.

– Vostro fratello… – disse, e fece una pausa. – Ecco, vostro fratello sarà… speciale.

Io e Chiara ci scrutammo l’un l’altra muovendo solo gli occhi.

– Speciale? – disse lei.

– In che senso speciale? – chiesi io.

– Nel senso, – disse papà, – che sarà… diverso. Affettuoso, anzitutto. Molto. Moltissimo. E poi sorridente e gentile. E tranquillo. E con i suoi, ecco, diciamo con i suoi tempi.

Sollevai un sopracciglio: – I suoi tempi?

– E altre cose sue speciali che ancora non sappiamo, – sorrise mamma.

– Quindi è una buona notizia? – chiese Chiara.

– Non è solo una buona notizia, – disse papà serio. Aggrottò la fronte in un modo buffo e la macchina cominciò a gonfiarsi e a sgonfiarsi come se stesse respirando con noi. – È molto di piú, – disse. – È una notizia travolgente –. Poi si girò e accese la radio. […]

– In che senso da dove arriva?

– Non è di questo pianeta. È evidente.

– Te l’avevamo detto, – disse lui, stringendomi la spalla con una mano cosí calda e ferma che con quella mano sulla spalla, giuro, sarei stato capace di andare ovunque nel mondo, affrontare qualunque cosa. – L’avevamo detto che era speciale.

Annuii.

Anzitutto gli occhi. Gli occhi erano cinesi, o venusiani forse, non sapevo decidermi; o di qualche altro pianeta con cristalli luminosi che sbucavano dalla sabbia e dieci lune viola nel cielo. Anch’io ho un taglio degli occhi un po’ orientale, in questo si vede che siamo fratelli, ma i suoi erano proprio tanto orientali. E poi la nuca. La nuca era piatta come una pista di atterraggio per microscopiche navicelle spaziali; se si fosse messo a quattro zampe potevi usarla come vassoio. Ma nulla mi colpí come le dita del piede che era scivolato fuori dalle coperte e che muoveva con scatti elettrici. Perché di dita, Giovanni, in quel piede, ne aveva quattro. O meglio, s’intuiva che potenzialmente erano cinque, ma il quarto e il quinto – il minolo e il pondolo – erano fusi insieme. Come due Kit Kat. […]

Aveva la copertina blu, un blu mogio e polveroso, e l’avevo intercettato già diverse volte, in camera da letto o sulla poltrona in salotto. Cosí, un giorno che stavo ciondolando per casa, finii per avvicinarmi e prenderlo in mano. Lessi l’autore, uno straniero, e il titolo, che conteneva anch’esso una parola straniera, e che quella parola era straniera lo sapevo perché c’era la lettera w. Noi non abbiamo tante lettere w o x nella lingua italiana, pensai. La parola era Down. La lessi pronunciandola: dovn. Prima di quella c’era la parola sindrome. Non sapevo cosa volesse dire sindrome, non sapevo cosa volesse dire Down. Lo aprii e, come sempre accade quando ci sono delle pagine piú spesse, il libro si spalancò su una fotografia.
Sgranai gli occhi. È Giovanni, pensai. […]

Ecco, allo stesso modo, interrogavo i miei genitori sui problemi di Gio. Sui suoi limiti, evidenti come il panino alla Nutella che mangiavo a merenda. E interrogavo soprattutto me stesso. Non mi interessavano piú le cause, quelle ormai erano cose passate. Pensavo piú che altro al suo futuro. Lui che non riusciva a imparare i numeri, come avrebbe fatto a pagare dal panettiere? Lui che aveva impiegato anni per parlare – e avrebbe sempre parlato male – come avrebbe fatto a scrivere? Se non sapeva né contare né scrivere, non avrebbe mai trovato un lavoro. Mi chiedevo perché avesse messo gli occhiali cosí presto: nessun altro bambino li portava. Mi chiedevo perché non ascoltasse niente, perché non capisse niente.
Addirittura – fu la cosa che mi sconvolse di piú – non avrebbe mai potuto fare le capriole. […]

Prima di quel giorno pensavo che il silenzio fosse assenza di rumore. Invece il silenzio è un suono, e c’è silenzio e silenzio. In quella mezz’ora, il silenzio mi parlò: mi disse che Gio aveva bisogno di me, costante bisogno di me; e io capii che ormai, senza Gio, non ci volevo piú stare a questo mondo. I suoi problemi erano i miei. E i miei problemi? A quelli ci avrei pensato da solo, senza disturbare; avrei trovato una soluzione. O almeno ci speravo. […]

Fu come il sole di mattina, quando filtra attraverso la tapparella che cerca di chiuderlo fuori e lui no, liquido e imprescindibile non si lascia imbrigliare, s’infila in ogni buco, in ogni fessura. Pensai ad Alice, alla sua reazione di fronte al bambino con il fucile. Pensai a Chiara, a quando aveva detto lascialo fare, che non è detto che le storie debbano sempre finire come sono state scritte. Ecco. Chi è che aveva scritto la nostra storia? Chi è che aveva sceneggiato la relazione tra me e Giovanni, e tra me, lui e il mondo, chi? Nessuno. Eravamo noi gli scrittori. Mia poi era la responsabilità di decidere come sarebbe finita la nostra storia. Nessuno instillava la paura del giudizio nel mio cuore, ero io a nutrirla.

Giacomo Mazzariol

Giacomo Mazzariol, “Mio fratello rincorre i dinosauri”, Einaudi, Torino, 2016