Il fascino ambiguo del “mostro”

“Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. Al tema è dedicato un capitolo del volume “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo”.

Quando un individuo diventa “anormale” per la società? “Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. La categoria del “mostruoso” tassonomicamente nasce per contrapposizione, accogliendo il diverso, lo sconosciuto, l’anomalo, l’anormale. Ed esercita un’ambigua fascinazione che spesso diventa atteggiamento giudicante, stigma, allarme.

Nella letteratura i richiami alle disabilità e alle deformità sono frequenti, sin dagli esordi: nell’Olimpo Efesto, dio del fuoco e marito di Afrodite, è descritto come “storpio” e oggetto di burle: «questo ci ricorda che gli zoppi erano originariamente visti come personaggi buffi», avverte Leslie Fiedler, evidenziando la differenza con l’atteggiamento invalso nei secoli seguenti, quando il “diverso” sarà spesso associato a malvagità e timore. Visioni rappresentate, ad esempio, dallo “storpio” e machiavellico sovrano Riccardo III di Shakespeare; da Quilp, il “nano mostruoso” in agguato contro Little Nell nella Bottega dell’antiquario di Charles Dickens; dall’animo inaridito del capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville, con una gamba sola; dal suo omologo assassino Long John Silver, nell’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson.

E ancora, il “deforme” e spietato Roger Chillingworth nella Lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, il
Capitano Uncino ritratto da James Barrie nel Peter Pan, il “gobbo” di Notre Dame de Paris di Victor Hugo. Il campionario negativo delle persone menomate e con deformità è ricco quanto quello compassionevole, presente soprattutto nella letteratura infantile. Si pensi alla sopravvivenza finale del piccolo Tim nella Favola di Natale di Dickens, intenzionata a convincerci che il disagio della disabilità può sempre essere alleviato o risolto dalla filantropia.

Ma, ammonisce Fiedler, «altri racconti incentrati su guarigioni quasi miracolose (come Heidi e il Giardino Segreto) rivelano similitudini impressionanti con le storie basate sulla paura: è il desiderio che non esistano handicappati e che finalmente spariscano tutti».

Lorenzo Montemagno Ciseri, analizzando figure reali, mitologiche e letterarie identifica la dimensione come uno degli elementi determinanti del mostruoso: si pensi solo agli esseri giganteschi e minuscoli in cui si imbatte Gulliver. Tante soprattutto «le figure di giganti che caratterizzano il Medioevo occidentale, a cominciare da quella del mostruoso Grendel nemico dell’umanità e protagonista diabolico del Beowulf» per arrivare alla Commedia di Dante, che cristallizza più di ogni altra opera «nel nostro immaginario le figure dei mostri infernali».

Analoga morbosità, curiosità e interesse letterario si legano alle persone più piccole, come i Pigmei citati già in Omero, mentre Aristotele nei Problemi si interroga sul motivo che porta alla nascita di uomini nani
e, più in generale, di creature più grandi e più piccole, rispondendo che due sono i possibili motivi: lo spazio in cui si sviluppa l’embrione o il suo nutrimento. La poesia “Judge Selah Lively” tratta dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, nella trasposizione di Fabrizio De Andrè del 1971, descrive un nano con una famosa strofa che è forse la più feroce e fedele espressione dello stigma: «una carogna, di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo».

In altri casi l’atteggiamento è quanto meno formalmente diverso. Il reality show “Our Little Family”, in onda anche in Italia con il titolo di “Una famiglia extra small”, vede protagonista Michelle Hamill con i suoi
tre figli, tutti con nanismo. Sempre su Real Time ha avuto un notevole successo, tanto da aver già inanellato nove stagioni, “Questo piccolo grande amore”, serie che racconta la storia di Bill Klein e di Jennifer Arnold, una coppia di persone nane. E rimane nella memoria di tutti gli amanti del jazz il pianista Michel Antoine Petrucciani (1962-1999), con una osteogenesi imperfetta, patologia ereditaria nota come “sindrome delle ossa di cristallo”, spesso definito per contrappasso come un “gigante”.

Da osservare a margine come, con la pandemia di Covid-19, il mondo sia stato sconvolto dall’aggressività di microrganismi, mentre la letteratura distopica e fantascientifica preferisce immaginare nemici macroscopici, in genere più grandi e forti degli esseri umani.

Michel Foucault stabilisce un nesso tra il pregiudizio socio-culturale e le categorie etico-giuridiche:
Il mostro è una violazione delle leggi e della natura che fa cadere il modello di essere umano, la legge si trova davanti all’impossibilità di concettualizzare secondo natura ciò che egli è […] è un essere che non rientra nelle categorie morali e questo stravolge, allarma il diritto che non riesce a funzionare. L’ausilio arriva dal sapere medico che differenzia ciò che è mostruoso per natura, che è più giustificante, da ciò che è mostruoso per la condotta.

Ma anche l’approccio scientifico non risolve la questione, secondo Focault, poiché con le perizie psichiatriche «si seleziona una mostruosità morale e da qui parte la storia di questo concetto che ne porterà un altro: quello della perversione»


Su una tavoletta d’argilla babilonese risalente al 2800 a.C. si distingue tra mostri: per eccesso, ad esempio con sei dita; per difetto, cioè mancanti di un organo; doppi, come i gemelli siamesi. Non meno antiche sono le prime immagini del genere: la Venere di Willendorf, raffigura una donna steatopigia, cioè con una spiccata lordosi lombare.

Secondo Fiedler rappresentazioni simili sono frutto dell’osservazione di esseri umani con anomalie fisiche e per questo eretti a divinità: la famosa statuetta paleolitica simbolo di fertilità, risalente al 23.000-19.000 a.C., «ritrae con precisione quasi clinica» una donna obesa «diencefaloendocrina con ipertonia parasintomatica, sterilità e riduzione della libido», mentre «altri mostri, ritenuti per molto tempo puramente fantastici, possono essere stati dei tentativi di rappresentare anomalie riscontrabili soltanto nei feti abortiti».

La teoria è insomma che «l’osservazione delle malformazioni umane precedette la creazione dei mostri mitici». Nella maggior parte dei casi, però, le nascite di bambini con deformità venivano interpretate come presagio di malaugurio e portavano all’infanticidio. La stessa parola “mostro” porta con sé questa duplicità: il latino monstrum, cioè “segno degli dèi”, rimanda alla stessa radice di monstrare e di monere, ammonire, mettere in guardia.

Con l’Illuminismo la connotazione magico-religiosa del corpo mostruoso comincia a cedere all’analisi scientifica. In particolare Cesare Taruffi, professore di Anatomia patologica nell’Università di Bologna dal
1859 al 1894 e autore della prima “Storia della Teratologia” (dal greco τέρας, “mostro”), inaugura gli studi delle patologie legate a somatizzazioni corporee anomale. E proprio in questo periodo nasce anche il freak show, come se lo spettacolo facesse da versione popolare della speculazione scientifica.

Comunque anche nei secoli successivi e persino oggi, in una società scientificamente molto più avanzata, non di rado si scivola nello stesso ambiguo obiettivo di suscitare attrazione. Varie forme di spettacolarizzazione della diversità sono presenti nel cinema, nella televisione, nei nuovi media,
magari con l’intento di sensibilizzare i pubblici sul tema delle disabilità.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni


La psichiatria interroga la fenomenologia. Antichi problemi e nuove prospettive

Il contributo esplora la nascita della disciplina della psicopatologia, e il suo affermarsi come metodo per l’analisi della “complessità” dell’esperienza vissuta.

La psicopatologia fra scienze della natura e scienze dello spirito

Parlare del reale o supposto statuto scientifico o filosofico del pensiero psichiatrico significa, soprattutto, inserirsi profondamente nel dibattito attuale. Questo dibattito sulle condizioni di possibilità della psichiatria come scienza riguarda particolarissimamente i modelli di conoscenza proposti fino ad ora alla psichiatria, modelli costantemente in bilico, per dirla con Dilthey (1883); fra il paradigma delle Scienze della Natura e quello delle Scienze dello Spirito o, per riferirsi ad una dizione più aggiornata e pittoresca, in bilico fra scienze dure e scienze molli. Il nodo problematico che abbiamo indicato come titolo di questo paragrafo ci sembra ben riassunto dalla seguente citazione tratta dagli Studi newtoniani di Koyré (1968):

“…la scienza moderna abbatté le barriere tra cielo e terra, unificando l’universo. E questo è vero. Ma essa realizzò tale unificazione sostituendo al nostro mondo delle qualità e delle percezioni sensibili, un mondo che è il teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo: il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale, sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo. Così il mondo della scienza divenne estraneo e si differenziò profondamente da quello della vita, un mondo quest’ultimo che la scienza non era stata capace di spiegare……” (p. 23).

Queste parole riportano la questione ai due modelli di conoscenza originariamente dicotomici proposti da Dilthey e ripresi da Jaspers (1913): lo “spiegare” (Erklären) e il “comprendere” (Verstehen). Il primo riguarderebbe l’area delle “scienze della natura” (scienze fisico-matematiche, scienze biologiche, ecc.), l’altro l’area delle “scienze dello spirito” o scienze umanistiche (storia, psicologia, sociologia, antropologia, filosofia, psichiatria, ecc.).

È certamente la psicopatologia, come già segnalava Jaspers, una disciplina fra le più coinvolte circa l’uso delle due diverse strategie cognitive: 1) l’approccio rigidamente neutrale, alla ricerca delle cause oggettive e ultime del fenomeno (che orbita intorno al concetto di «spiegazione»); 2) l’approccio comprensivo (che il pensiero ermeneutico definirà, una volta per tutte, interpretativo), che teorizza la storicità, la provvisorietà, la soggettività e la finitezza di ogni progetto conoscitivo.

L’incertezza sullo statuto scientifico della psichiatria deriva dal suo collocarsi all’interno di alcuni nodi problematici irrisolti, o per meglio dire, in alcuni obbligati luoghi di transizione della scienza contemporanea. Per ricordarne alcuni: il rapporto mente/corpo in primis, poi gli intricati rapporti di connessione/disgiunzione fra biologia, scienze sociali, antropologia, filosofia ecc.

Questi nodi problematici definiscono diversi livelli di complessità, o prospettive su diversi livelli di complessità.

Una prospettiva storica sulle “trasformazioni” in psichiatria

La psichiatria italiana negli anni ’50, così come la si apprendeva negli ambiti accademici, era agganciata ad un contesto culturalmente povero, appiattito su modelli meccanicistici, banali e ipersemplificati. I testi attraverso i quali si pretendeva di entrare nel mondo complesso della patologia psichiatrica erano per di più “vulgate”, sintesi ipersemplificate della lezione kraepeliniana. Fra i testi consigliati basta citare un nome per tutti, il compendio di psichiatria del Gozzano, diffuso su larga scala in ambito accademico come unico testo didattico. Un testo, a ripensarlo, che finiva per scoraggiare chi, avvicinandosi alla psichiatria, sperava di affrontare in modo adeguatamente problematico le questioni psicopatologiche. I sintomi psichiatrici a connotazione psicotica venivano osservati sotto una luce esclusivamente comportamentale, privi del benché minimo tentativo di interpretazione della loro eco interiore, del loro vissuto antropologico. Ricordiamo “il segno del cappuccio”, “il segno dello specchio”, l’“insalata di parole” ecc., termini caratterizzati da una loro inesplicabile e inquietante connotazione senza perché.

Da allora, anche attraverso la lettura diretta delle fondamentali opere di Edmund Husserl, di M. Heidegge, di S. Kirkegaard e dei grandi psicopatologi tedeschi e francesi, dei fondamentali contributi psicoanalitici,  l’approccio più umanistico alla clinica psichiatrica volle estrapolare dalla riflessione fenomenologica-dinamica gli strumenti metodologici per un approccio antropologicamente fondato e non riduttivo ai fenomeni psicopatologici. La specificità di una  psichiatria capace di aprirsi a questi orizzonti   consiste proprio nel suo riflettere la complessità bio-psico-sociale della mente umana e della sua patologia. Altre professioni – neurologi e psicologi in particolare – hanno certamente un’identità che viene percepita come meglio definita rispetto allo psichiatra, ma questa apparente maggiore chiarezza della loro sfera di competenza traduce l’unidirezionalità della loro visione, non adatta a riflettere la complessità della patologia mental. La psichiatria nella sua capacità di integrare saperi diversi e approcci diversi, rappresenta in questo senso un esempio di straordinario valore a cui l’intera medicina dovrà prima o poi fare riferimento nei suoi persistenti tentativi di ridefinizione e di aggiornamento delle sue  basi concettuali e metodologiche.

La psicopatologia fenomenologica come metodo

La psicopatologia fenomenologica si configura oggi come l’unica strada metodologica che consenta una comprensione antropologicamente fondata dell’esperienza interiore del mondo normale e  patologico, due mondi fra i quali ristabilisce una assoluta continuità. Libera da preoccupazioni eziologiche e nosografiche essa può occuparsi con impegno totale delle strutture di senso intorno alle quali si organizzano tutti i fenomeni psichici.

Gli strumenti di cui si serve sono l’attenzione partecipe, la descrizione e l’analisi delle esperienze interne quali si danno alla coscienza, e la comprensione dei modi attraverso i quali le esperienze interiori si manifestano nella costruzione di un “immaginario” e di un mondo propri.  Di qui la vocazione della disciplina psichiatrica ad interrogarsi sulla varietà, il senso, la progettualità di mondi antropologici possibili, col compito di comprenderli per poterli in qualche modo abitare.

La psicopatologia  può configurarsi anche e soprattutto come metodo per l’analisi della “complessità” dell’esperienza vissuta.

Senza giungere mai a formulazioni compiute e definitive essa consente piuttosto di intravedere la qualità antropologica nella quale ogni fenomeno clinico si riflette continuamente, in modi infinitamente aperti.

 Così intesa la psicopatologia introduce una tonalità antispeculativa e ribadisce un tratto etico: ciò che si esercita attraverso questa disciplina è in definitiva una capacità di ascolto messa in atto da un’attenzione rigorosa e responsabile. Attitudine all’esercizio dell’intersoggettività potrebbe anche definirsi questa metodologia che rappresenta forse l’unica condizione possibile perché il paziente comunichi  allo psicopatologo qualcosa che segretamente gli appartiene. Per questo  appare sempre più necessario coltivare nel giovane psichiatra quello che Bruno Callieri definisce “la fondamentale passione per l’esistenza”.

Questo modello didattico scuote dalle fondamenta un modello tradizionale di apprendimento. Esso richiede l’esercizio di un pensiero multidimensionale, che cerca un rapporto più complesso e consapevole con il proprio oggetto di osservazione.

Questa prospettiva delinea una conoscenza consapevole della propria finitezza e provvisorietà e scopre possibilità sempre nuove di leggere il mondo, soprattutto quello psicopatologico.

Si vuole ora indicare, per chiarire meglio questo  itinerario, cosa si intende  come esercizio quotidiano e coerente di un approccio fenomenologico-dinamico applicato alla clinica psichiatrica. Si intende soprattutto sottolineare l’importanza della psicopatologia fenomenologica come asse portante della ricerca in psichiatria. In essa si può intravvedere la ricerca di una prospettiva globale sull’esperienza umana come portatrice e donatrice di senso, anche (soprattutto) nelle sue manifestazioni-limite come quelle psicopatologiche. Potremo così recuperare, e anche rilanciare, una istanza fondamentale della antropoanalisi applicata alla psicopatologia: quella di essere una scienza di fenomeni antropologicamente fondati, tesa a scavalcare gabbie disciplinari, riduttive antinomie e frammentari, dispersivi tecnicismi. È possibile così tracciare alcune coordinate fondamentali della psicopatologia fenomenologica:

a)         ricerca del senso e della continuità antropologica nei fenomeni psicopatologici;

b)         rilievo determinante conferito all’esperire soggettivo come sola, vera occasione di conoscenza;

c)         assoluto primato dell’incontro interpersonale.

Fare della psicopatologia fenomenologica significa porsi, ancora ed ancora, la stessa nevralgica domanda capace di dare da pensare ad intere generazioni di futuri psicopatologi. Quale valore antropologico si cela dietro ciò che abitualmente percepiamo, ascoltiamo, esperiamo circa i “fenomeni clinici” che di volta in volta ci offre l’infinito orizzonte dei vissuti psicopatologici? Come decodificare l’assolutamente privato, l’indicibile?

Fare della psicopatologia significa, comunque, cercare la continuità nella discontinuità dei diversi agglomerati psicopatologici e leggere questa discontinuità nell’ottica di una “continuità narrativa” che apra alla comprensione di esperienze, eventi, storie ai margini estremi dell’intellegibilità e, qualche volta, della dicibilità. Solo muovendosi in questa direzione il discorso psicopatologico potrà essere in grado di oltrepassare il dato meramente descrittivo per aprirsi alla genesi strutturale e “storica” del fenomeno clinico.

Un esercizio fenomenologico di grande interesse, inteso a rintracciare continuità narrative in funzione di una continuità antropologico-strutturale, capace di illuminare eventi clinici.

Senza giungere mai a formulazioni compiute e definitive essa consente piuttosto di intravedere la qualità antropologica essenziale di un epifenomeno clinico a cui rimanda continuamente in modi infinitamente aperti. Così intesa essa ha più a che vedere con un’attitudine di pensiero, con un “esercizio” ermeneutico paziente, ma inesauribile. Nel porre in questione la soggettività, la psicopatologia fenomenologica esprime una vocazione verso conoscenze non causalistiche e ribadisce un tratto etico: ciò che si esercita attraverso questa disciplina è in definitiva una capacità di ascolto messa in atto da un’attenzione rigorosa e responsabile. Custodire, salvaguardare, lasciar essere saranno i vertici di questo ascolto che esige una attitudine all’astensione e alla attesa. Come scrive Rovatti: “Un simile atteggiamento di ascolto non è un arresto dello sguardo quanto piuttosto una riscoperta del visibile”.

La fenomenologia scuote dalle fondamenta il modello tradizionale di apprendimento. Il pensiero complesso e multidimensionale, che cerca un rapporto più consapevole con il proprio oggetto di osservazione, delinea un nuovo profilo della conoscenza, che nella consapevolezza della propria finitezza e provvisorietà scopre possibilità sempre nuove di leggere il mondo. Questo processo, così lontano dalle forme di apprendimento tradizionali del pensiero scientifico, legate ad un modello del pensare neutrale, affermativo ed onnipotente.

 Il lavoro psicopatologico consiste proprio nella disponibilità a smarrire questa chiarezza non appena la si è acquisita come saldo punto di riferimento”. L’apprendimento di questo metodo e di questa attitudine di pensiero può realizzarsi solo all’interno di una dimensione interpersonale, nello spazio di una relazione che interessi lo psicopatologo e il paziente, l’allievo e il maestro.

La figura del maestro acquista nella prospettiva di una formazione non solo tecnica, ma soprattutto etica, un valore ineguagliabile. Solo il maestro può risvegliare l’allievo ad un problema, solo il maestro ha la capacità di ricreare il problema nella mente del discente e dargli l’essenziale consapevolezza che ogni vera conoscenza è conoscenza personale. E questo vale soprattutto per lo psichiatra.

P. Scudellari, Istituto di Psichiatria “P. Ottonello”, Università di Bologna

 Indicazioni bibliografiche

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Vattimo, G.; Rovatti, P. L. (a cura di). 1983. Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli.

Fisiognomica e maschere ceroplastiche di Tenchini

Sebbene le origini della fisiognomica siano antichissime, è solo nel ‘500, con gli studi di Leonardo Da Vinci, che si sviluppa la fisiognomica moderna. Successivamente, con il diffondersi della psicanalisi, la disciplina perde valenza conoscitiva, fino al lavoro di ricerca del medico e antropologo Cesare Lombroso (1835-1909), considerato fondatore dell’antropologia criminale, la moderna criminologia.

                                                    

La fisiognomica si prefiggeva di indagare l’animo umano e le caratteristiche psicologiche di un individuo tramite lo studio del suo aspetto fisico esteriore.

 Si ritiene che le origini della fisiognomica siano antichissime: Platone definiva il corpo come tomba o prigione dell’anima, mentre per Aristotele l’anima era la capacità che consente all’organismo di vivere e non può essere separata dal corpo stesso. Entrambi concepivano il corpo come riflesso dell’anima.

 Tuttavia, la fisiognomica moderna nasce nel ‘500, con Leonardo Da Vinci (1452-1519), grazie ai suoi studi sui “Moti dell’animo” a partire dai tratti del volto. Leonardo, nella parte terza del suo “Trattato della Pittura”, al punto 290, sottolinea l’importanza del sapere esprimere i moti interiori nell’arte e scrive:

“Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile”.

Tra il 1500  e il 1505 anche Albrecht Dürer (1471 – 1528) si concentra sullo studio della teoria delle proporzioni umane e di conseguenza si avvicina alla fisiognomica. Si era reso conto che le informazioni fornite da Vitruvio nel “De architectura” non erano sufficienti per stabilire leggi di proporzione universalmente valide.  Nel 1512/1513 pubblica il suo trattato scientifico Quattro Libri sulle Proporzioni. Scritto, progettato e curato dall’artista stesso, è il primo tentativo di applicare la scienza delle proporzioni anatomiche umane all’estetica. Il lavoro rivela almeno una trentina di fisionomie corporee diverse per uomini, donne, bambini e soggetti anziani, che mostrano l’unicità delle forme corporee o, come diceva Durer:

“…molte forme di bellezza relativa… condizionata dalla diversità di educazione,vocazione e predisposizione naturale”… e quindi presentare “i limiti più vasti della natura umana e… tutti i tipi di figure possibili: figure “nobili” o “rustiche”, femminili o volpine, timide o allegre”.  

 Questi studi su lineamenti, espressioni del viso e proporzioni corporee accompagnarono teorie e idee della scienza psicologica fino alla fondazione della psicoanalisi, che fece perdere valenza conoscitiva alla fisiognomica. Tuttavia, la fisiognomica fu ripresa dal medico e antropologo Cesare Lombroso (1835-1909), considerato fondatore dell’antropologia criminale, la moderna criminologia. Lombroso affermava che alcune caratteristiche fisiche particolari (grandi mandibole, naso schiacciato, zigomi sporgenti), potessero essere tipiche dei criminali, cui si associavano aspetti di scarso senso morale, cinismo, apatia. E’ interessante notare che,  nella sua opera sull’Uomo Delinquente, Lombroso fornisce un atlante fotografico di ritratti che diventarono modelli di riferimento delinquenziale per decenni, inaugurando l’uso delle fotografie segnaletiche, una pratica poi standard nell’identificazione e schedatura dei criminali.

Tuttavia, le fotografie bidimensionali e in bianco e nero presentano alcune limitazioni interpretative mentre vi è evidenza che studiare su preparati anatomici a grandezza naturale e quasi totalmente rispondenti alla realtà aumenta la capacità di riconoscimento del soggetto. Plausibilmente, questa è una delle ragioni alla base delle Maschere Fisiognomiche dell’anatomico e psichiatra Lorenzo Tenchini, di cui Cesare Lombroso fu professore all’Università di Pavia, durante la sua formazione in Medicina e Chirurgia.

 La metodologia usata dal Tenchini per le sue Maschere è rimasta un mistero per oltre 120 anni e solo nell’ultimo decennio studi internazionali del gruppo del Prof. Roberto Toni del DIMEC-UNIPR sulle Maschere Fisiognomiche della Collezione conservata a Parma hanno definitivamente fatto luce sul verosimile procedimento di preparazione, alquanto peculiare, di cui è possibile avere dettagli nelle pubblicazioni specialistiche menzionate nella Bibliografia di presentazione della Collezione Tenchini di questa Esposizione (v. sito web specifico) e nel Catalogo della Mostra Internazionale tenutasi a Parma nel 2017 proprio sulla Collezione Tenchini (in vendita presso l’area espositiva delle Maschere al primo piano del Rettorato).

Un’affascinante connessione con il lavoro fisiognomico di Tenchini si può rintracciare nell’opera di Madame Tussaud, che aveva iniziato come artista della cera circa 100 anni prima, durante la Rivoluzione Francese. I suoi ritratti in cera, oggi visibili a Londra, miravano a tracciare la cronaca degli eventi del suo tempo, comportando anche una valenza didattica, come le maschere di Tenchini avrebbero voluto essere “fotografie segnaletiche tridimensionali”, utili per riconoscimento e prevenzione di devianze e crimini.

Roberta Ballestriero, Accademia di Belle Arti di Venezia