Batteri e virus, una guerra. Contro la paura

‘Le grandi epidemie’ di Barbara Gallavotti evidenzia come gli agenti infettivi siano stati capaci di uccidere più uomini di qualsiasi armata sulla Terra e si chiede: “Chi vincerà alla fine?”. La risposta è che uno dei principali alleati di questi nostri temibili e minuscoli avversari è il sentimento irrazionale che porta da un lato a diffidare dei vaccini e dall’altro ad assumere con leggerezza gli antibiotici. Mentre il corretto uso di queste innovazioni è la migliore arma a nostra disposizione


La letteratura divulgativa su virus, batteri, microbi, vettori e agenti patogeni è amplissima. Solo per citare randomicamente alcuni titoli degli ultimi lustri, va da ‘Epidemie’ di Giovanni Rezza a ‘Pillola del giorno prima. Vaccini, epidemie, catastrofi, paure e verità’ di Marco Malvaldi e Roberto Vacca; da ‘Batteri spazzini e virus che curano’ e ‘Occhio ai virus’ del nostro Giovanni Maga a testi opportunamente rivolti ai lettori più giovani come ‘Le difese del mio corpo’ di Laurent Degos e ‘Virus, microbi e vaccini’ di Clara Frontali; da monografie su specifiche patologie come ‘Aids. Breve storia di una malattia che ha cambiato il mondo’ di Cristiana Pulcinelli a ‘Metafisica della peste’ di Sandro Givone. Il tema delle patologie epidemiche e infettive è poi protagonista di saggi fondamentali come ‘Quarto cavaliere – Storia di epidemie, pestilenze e virus’ di Andrew Nikiforuk e ‘Armi, acciaio e malattie’ di Jared Diamond.

Quest’ultimo titolo, in particolare, è citato nella bibliografia dell’ultimo arrivato in questa cospicua e importante galleria saggistica: ‘Le grandi epidemie’ di Barbara Gallavotti, per il quale la giornalista di Superquark ha preso spunto da un’intervista di Francesco Maria Galassi, professore di Paleopatologia alla Flinders University in Australia e che si arricchisce di un’introduzione in cui Piero Angela evidenzia come i microrganismi siano “stati capaci di uccidere più uomini di qualsiasi armata sulla Terra”, nonostante (o forse proprio perché) siano “nostri parenti”, addirittura “i nostri più lontani progenitori”. I batteri sono stati infatti “i primi ad arrivare sulla Terra e saranno con ogni probabilità gli ultimi ad andarsene”, affermazione con cui il nostro massimo divulgatore focalizza la questione centrale del libro: “Chi vincerà alla fine l’eterna guerra fra gli esseri umani e gli agenti infettivi?”, si chiede Gallavotti in conclusione del volume. Rispondendo che, comunque, “non abbasseremo mai la guardia” e avvertendo che uno dei principali alleati di questi nostri avversari temibili e minuscoli (i batteri misurano millesimi di millimetro e i virus sono molto più piccoli) è la paura, il sentimento che “spinse i genovesi a lasciare precipitosamente Caffa e altri ad abbandonare le città appestate nel tentativo di sfuggire a un morbo che in realtà portarono con loro”. E che in tempi più recenti “ha indotto il governo del Sudafrica per diversi anni a sposare tesi negazioniste riguardo all’Hiv come causa dell’Aids”, che temendo gli untori “in innumerevoli casi” non ha fatto che produrre altre vittime innocenti, che sospetta dei migranti come ambasciatori di nuove o vecchie malattie.
Ma le paure forse più attuali e rischiose sono quelle, in qualche modo opposte, che ci portano da un lato a diffidare dei vaccini e dall’altro ad “assumere con leggerezza farmaci inappropriati, ad esempio antibiotici”. Se “Tutta la storia dell’umanità è stata una lunga battaglia contro i microbi responsabili delle malattie infettive”, che però abbiamo “combattuto per decine di migliaia di anni solo con gli strumenti messi a disposizione dall’evoluzione”, infatti, fortunatamente “negli ultimi decenni abbiamo messo a punto strumenti in grado di proteggerci dalle infezioni”, cioè vaccini e antibiotici. Influenza, morbillo, vaiolo, tifo, colera, sifilide hanno sterminato generazioni, compiuto genocidi, sin dai tempi raccontati da Tucidide, passando per il contatto tra europei e popolazioni amerindie, hanno cambiato il corso della storia, colpendo personaggi come Cesare Borgia, William Shakespeare e Friedrich Nietzsche. Ancora tra il 1918 e il 1919 l’influenza spagnola provocò tra 50 e 100 milioni di morti, più della contestuale guerra mondiale. E nel Novecento il vaiolo, prima di essere definitivamente sconfitto, ha causato 300-500 milioni di vittime…
Ma oggi abbiamo due tipi di farmaci fondamentali, “i vaccini, capaci addirittura di prevenire le malattie, e gli antibiotici, in grado di contrastare le principali infezioni batteriche”. Peccato che “i vaccini rischiano di essere resi inefficaci dalla decisione di alcuni di non servirsene e gli antibiotici da quella di usarli male”. Certo, virus e batteri hanno una straordinaria capacità di sviluppare ceppi resistenti, quella che combattiamo è “una rincorsa tra ricercatori e germi patogeni”, avverte cauto Angela. Ma per sperare di vincerla dobbiamo usare le armi che abbiamo in modo adeguato e convinto. Senza paura (per non usare altri termini).

Marco Ferrazzoli


Barbara Gallavotti, “Le grandi epidemie” (Donzelli, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

La peste di Abbate ricorda la nostra

Impossibile leggere questo romanzo senza riferirsi al contesto attuale. Il protagonista è un inventore di barzellette. Tra le pagine sono disseminati continuamente dubbi e considerazioni analoghi ai nostri di oggi


È uscito in pieno anno di pandemia il romanzo di Fulvio Abbate “La peste nuova” ed è ovviamente impossibile leggerlo senza riferirsi al contesto attuale. Il protagonista è Guido Battaglia, un inventore di barzellette: questo il suo “impiego ufficiale nel collocamento dello spettacolo tragico della città”. Il suo compito è inventare “l’ultima risolutiva salvifica” barzelletta che serva “a proteggere le città”. Ma oltre a questo personaggio, evidentemente metaforico del ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea, se ne affacciano altri che è difficile non rimandare all’attualità, per esempio l’ufficiale sanitario che consegna “i moduli obbligatori entrati in vigore dove segnare i propri spostamenti”.

Tra le pagine sono continuamente disseminati dubbi e considerazioni a dir poco analoghi ai nostri di oggi. “Guardati intorno vedi la città quanto credi che potrà ancora reggere? Questa nuova epidemia è gigantesca incalcolabile fuori dalla portata dell’umano”. “Quanto a Dio nelle circostanze estreme mostra la propria assenza la sua non esistenza”. “Nelle settimane di peste, quando l’unica notizia accampata nei media riguardava il batterio e le possibilità di sconfiggerlo, l’attesa di un vaccino, la penuria di mascherine sterili, ammesso che queste potessero proteggere realmente le persone, insieme alla cura nel lavarsi le mani con liquidi disinfettanti”. “Anche la Procura aveva indagato su irregolarità nel ricovero di pazienti in strutture private”. “Dalla città del Vaticano direttamente dal profilo Twitter del pontefice confermarono che l’Angelus della domenica successiva si sarebbe svolto in collegamento video”. “Irresponsabili o increduli che ancora ignorano la gravità delle circostanze” e che “trovavano il tempo di immaginare alcune allegorie per nulla scientifiche della peste”. “Il pensiero degli ospedali ormai colmi di ricoverati mi ha riportato agli ultimi giorni di vita di mio padre”. Il “comunicato seguito da un tweet” della Prefettura “dove pur continuando a definire seria la situazione si accennava a tenui segnali di miglioramento” di regressione del contagio”.
In altri punti del libro si colgono invece riferimenti, più o meno espliciti, a contagi del passato. “Sul muro accanto all’ingresso della casa dove vivevo è apparso un doppio cerchio giallo segnato a spray. Il presidio medico d’intervento e valutazione dell’epidemia aveva individuato un focolaio”. “Un amico omosessuale raccontava che nei giorni più drammatici dell’Aids molti gay si ritrovavano in circolo ognuno a masturbare se stesso”. Un altro protagonista de “La peste nuova”, a proposito, è il sesso, che entra nella storia attraverso un’oggettistica da porno-shop, “i vibratori, i dildi e le protesi falliche” e profferte di scambio: “Amore interessato, è vero, ma tu in caso di buona riuscita verresti ripagato, conviene pure a te […] Ci sembra il minimo proporti la nostra scommessa dunque il destino della città è nelle tue mani”.
Più alate, letteralmente, altre figurazioni come quella di “una mousse che, spalmata sulle scapole, in poche settimane avrebbe fatto crescere le ali a ogni acquirente” dal “cuore puro, come libero, non cuore prigioniero”. Qualcuno, prendendo spunto dal preparato, “aveva proposto la costruzione di un nuovo aeroporto da dove abbandonare la città quando la situazione sarebbe precipitata definitivamente. Un’idea che certo consorzio di imprenditori privati, assenti al ritegno, accolse senza remore, dando così inizio allo spianamento di un terreno e alla messa in opera di un capannone coperto dove intrattenersi nell’attesa del peggio”.
Il romanzo nasce dalla riscrittura radicale di “La peste bis”, apparso in libreria nel gennaio 1997. L’omaggio a Camus resta intatto quale fonte di precisazione e, spiega l’autore: “Il dramma concreto quotidiano della pandemia da Covid-19, insieme agli obblighi della quarantena, dell’esilio domestico con la desertificazione del paesaggio urbano, sono stati una semplice sollecitazione”.

Marco Ferrazzoli


Fulvio Abbate, “La peste nuova”, La nave di Teseo (2020)



L’amore ai tempi del colera

Il colera causò una strage di persone di cui non si conosce l’entità. Nel bel mezzo dell’epidemia, il dottor Marco Aurelio Urbino si trova davanti al dilemma: metodo scientifico o caritatevole?

L’epidemia di colera, le cui prime vittime caddero fulminate nelle pozzanghere del mercato, aveva provocato in undici settimane la più grande mortalità della nostra storia.

Durante le due prime settimane del colera il cimitero traboccava, e non era rimasto un posto libero nelle chiese, nonostante avessero passato nell’ossario comune i resti consunti di parecchi grandi senza nome.

Nella terza settimana il chiostro del convento di Santa Clara si trovò pieno fino ai viali e fu necessario abilitare il cimitero, l’orto della comunità, che era grande il doppio. Lì scavarono fosse profonde per interrare a tre livelli, in fretta e senza precauzioni, ma si dovette desistere dal progetto perché il terreno che era traboccato si trasformo come in un una spugna che trasudava sotto i suoi passi in un sangue marcio e nauseabondo. Allora si dispose di continuare le sepolture alla Mano de Dios, una fattoria di bestiame a meno di una lega dalla città, che poi venne consacrata Cimitero Universale.

Da quando fu proclamato il bando del colera, nella fortezza della guarnigione locale si sparò un colpo di cannone ogni quarto d’ora, di giorno e di notte, d’accordo con la superstizione cittadina che la polvere purificava l’ambiente. Il colera fu molto più feroce con la popolazione negra, che era la più numerosa e la più povera, ma in realtà non fece considerazioni di colore né di lignaggio. Cessò improvvisamente come era iniziato, e non si conobbe mai la quantità dei suoi danni, non perché fosse impossibile stabilirla ma perché una delle nostre virtù più usuali era il pudore delle proprie disgrazie. Il dottor Marco Aurelio Urbino, padre di Juvenal, fu un eroe civile di quelle giornate infauste, e anche la sua vittima più notevole.

Anni dopo rivedendo la cronaca di quei giorni, il dottor Juvenal Urbino verificò che il metodo di suo padre era stato più caritatevole che scientifico e che in molti modi era contrario alla ragione così da aver favorito in gran misura la voracità della peste.

Quando riconobbe in se stesso gli scompigli irreparabili che aveva visto e compatito negli altri, non tentò neanche una battaglia inutile, ma si appartò dal mondo per non contaminare nessuno. Chiuso, da solo, in una stanza di servizio dell’Ospedale della Misericordia, sordo alle chiamate dei colleghi e alle suppliche dei suoi, estraneo all’orrore dei pestiferi che agonizzavano sul pavimento dei corridoi traboccanti, scrisse alla moglie e ai figli una lettera d’amore febbrile, di gratitudine per essere esistiti, nella quale si rivelava quanto e con quanta avidità avesse amato la vita. Fu un addio di venti fogli stracciati nei quali si notavano i progressi della malattia dal deterioramento della scrittura, e non era necessario avere conosciuto chi li avesse scritti per sapere che la firma era stata messa con l’ultimo respiro, d’accordo con le sue disposizioni, il corpo incenerito si confuse nel cimitero comune e non fu visto da nessuno che lo avesse amato.

Gabriel García Marquez

Treccani Enciclopedia Online

Gabriel García Marquez, “L’amore ai tempi del colera” (1985)

La peste di Buzzati

Nei due brani, estratti da “Sessanta racconti”, Dino Buzzati descrive i sintomi e i segni della peste canina, capace di distruggere anche i rapporti di amicizia più saldi.

Odore di tartufo

Paurosissimo delle malattie, io le sento venire da lontano. Così, per certe voci portate da marinai, da viaggiatori, zingari, io sapevo alcuni mesi prima che la peste canina stava avvicinandosi. Se ne parlava nelle taverne del porto verso sera, quando dalle acque buie, là vicino, cominciano a uscire le superstizioni e gli incubi. Ma la gente istruita diceva che era solo una leggenda. 

Di questa malattia si raccontava una quantità di cose strane: secondo alcuni proveniva dal cuore impenetrabile dell’Africa, altri invece dicevano che fosse stata provocata da un sacrilegio di Terrasanta. La chiamavano canina non perché colpisse i cani ma perché nella fase dell’incubazione, che durava uno o due giorni, l’ammalato emetteva un forte odore; il quale, a seconda dei casi, ricordava la resina, o l’aglio, o lo sterco, o la rosa e così via; ma assai più spesso ricordava il cane. E di qui il nome. 

In tanti odori c’era però sempre un comune sottofondo: cioè un effluvio specialissimo, indefinibile a parole; che era lo stesso marchio della peste. É pochissimi erano in grado di distinguerlo, così da poter dire: questo è odore di peste e questo no. Si trattava di medici o infermieri, o suore che erano vissuti in Africa o in Oriente. 

Altri sintomi denotavano l’esplodere della peste vera e propria. Alcuni, come i brividi, il mal di testa, le vertigini, erano comuni a molte altre note malattie. Ma ce n’era uno tipico e fatale: l’uomo colpito dal contagio non era più capace di un discorso organizzato, a un tratto il pensiero sembrava frantumarsi in una sconnessione di parole che finivano in un confuso barbuglìo. Dopo un poco magari l’ammalato riprendeva a parlare come al solito ma sempre, dopo due tre frasi, sopravveniva quell’intoppo. Perciò la si chiamava anche peste sillabica. Seguivano una grave prostrazione, vomito, delirio, e, nel giro di poche ore, immancabile la morte. Esisteva, è vero, un vaccino capace di stroncare l’infezione: ma doveva essere iniettato al tempo giusto, nel corso dell’incubazione, né prima né dopo; guai se si tardava; guai anche se lo si propinava, per errore, a una persona sana; se in seguito costui si contagiava, il vaccino non sarebbe più servito a niente. 

L’allarme fu gettato all’improvviso. Un decreto del governatore, alludendo in modo vago a pericoli di epidemie, proibì gli assembramenti e gli spettacoli, chiuse i locali pubblici, impose il controllo dei viaggiatori eccetera. In poche ore tutta la popolazione seppe. E già si udivano le sirene delle autoambulanze chiamate qua e là a trasportare i moribondi. Fu il terrore. 

Da quel momento, misteriosamente trasportandosi il contagio da un quartiere all’altro, tutti cominciarono a vivere nell’ansia, scrutando se stessi e i familiari, nel timore di avvertire i primi sintomi. In ogni luogo ora si vedevano perciò uomini e donne con i nasi per aria, ad annusare, se mai sentissero l’odore della peste. Ma era facilissimo ingannarsi; né si contavano le paure a vuoto. In una città popolata di cani come questa non c’era casa dove l’odore canino fosse assente; ne erano intrisi, si può dire, i muri stessi. Ciò moltiplicava i falsi allarmi. 

Va da sé che, scoppiata l’epidemia, divenni l’ombra stessa del Tiriaca. Guai se non avessi potuto stargli a fianco così spesso. Col mio terrore di essere infettato, sentivo un odore dopo l’altro, immaginandomi che provenissero da me. Il Tiriaca mi rassicurava: «Ma io non sento niente ». E mi annusava col suo grande naso a becco. 

Una sera -ero invitato a pranzo –appena entrato in casa del Tiriaca, sento odore di tartufo. Magnifico, dico a me stesso, perché di tartufi sono ghiotto. E già pregusto un pranzo succulento, tanto più che in questi tempi grami è una delle poche consolazioni che rimangono. 

A tavola si è in due soltanto, Tiriaca ed io; la famiglia sua è partita, alle prime avvisaglie della peste lui l’ha mandata in Sicilia, da parenti. Un antipasto, una ottima zuppa, roastbeef con salsa e contorno, asparagi. A questo punto il Tiriaca mi guarda: « Cos’hai? Non ti senti bene? Sei diventato così pallido». «No, no, niente » faccio io, inchiodato da un terribile sospetto. «Ma dimmi, professore… Come mai quest’odore di tartufi?» « Tartufi?… Io non sento odore di tartufi… E tu Ines, senti qualche cosa? » « Neanch’io » risponde la domestica « di tartufi, io non ne ho adoperati, forse sarà il profumo della salsa. » 

Ma anche di là, in salotto, dove passiamo a prendere il caffè, persiste la inquietante sensazione. «Scusami professore, abbi pazienza » io lo supplico. « Prova a sentire… Non sarò mica io per caso a…? » Lui mi annusa col suo grande naso, sorridendo. « Tu sei su una brutta china, caro mio… Di questo passo finirai dritto manicomio. » « Professore, non inquietarti, l’odore c’è, ti giuro… E io ti sono amico… Io te lo devo dire… ascolta… non potrebbe darsi che… non potrebbe darsi  a adorare di tartufo… insomma non potresti essere tu?». Il Tiriaca mi fissa, il sorriso gli si è fermato sulle labbra, non capisce se io voglio scherzare. Gli viene forse un dubbio? No. Si mette anzi a ridere di gusto. « Non mi illudevo che tu mi stimassi un luminare » dice « ma almeno che io non fossi un asino del tutto… Se mi fossi impestato, per capirlo credi forse che avrei bisogno dell’odore? Starei fresco… Altro che odore di tartufo… Sono i tuoi poveri nervi… » 

Così lui parla, ma non serve. Per la prima volta io non gli credo, le sue parole non danno più sollievo. E intanto l’odore va crescendo, la casa ne è ammorbata, io cerco di andarmene al più presto. 

No, in casa mia per fortuna non c’è il più vago ricordo di tartufi. Tuttavia stento a prender sonno. Quel pensiero mi tormenta. Se il Tiriaca fosse veramente contagiato? Se fossi stato io, l’ignorante, ad accorgermene? Poi mi dico: è impossibile, oltre all’odore ci sono molti altri indizi, lui li avrebbe subito avvertiti. 

Anche la notte passa. Alle otto e mezzo salgo dal Tiriaca per accompagnarlo in clinica. Entrato, annuso. L’odore di tartufo non c’è più. Meno male, mi dico, si vede che era tutta suggestione. In quel mentre arriva il professore. << Beh, come la va? Senti ancora la presenza di tartufi? Ti sei calmato… Ieri sera dopo che te ne sei andato, non credere, io ci ho pensato su… e ho capito da dove ghe ghe quell’odore, in parte credo che sia… in parte… mah… invece, eh già… sgabusè toil gragiueaaa… » la frase si perse in un groviglio incomprensibile. 

Arretrati, gelato dal terrore. Quello era il segno. 

Tiriaca, che aveva avuto sempre la parola facilissima, barbugliava peggio di un demente. 

Con una mano dietro la schiena avevo intanto girato la maniglia della porta, la spalancai di colpo, giù per le scale a precipizio. Non connettevo più dalla paura. Via subito, via da quella casa maledetta. Dall’alto il Tiriaca mi chiamò. Ma che mi importava più di lui? 

La sera stessa fuggii dalla città. Adesso sono qui, con la famiglia, in questo paesello di montagna, che la peste ha dimenticato, si direbbe. E già è passato un mese. A quest’ora, se io fossi rimasto contagiato, il male sarebbe pur venuto fuori. Invece io sto bene, proprio bene, non emetto odori, parlo speditamente, vero che parlo con la massima scioltezza? Il brutto sarebbe infatti se all’improvviso cominciassi anch’io a barbugliare, confondendomi, allora si sippo po potrei dirmi spaccirmi… ma finché non si comincia a balbettare si può cocofon… allora sippo… chestra… sfiare… ir chiò… scimen… baorg… ge… ge… 

Il tiranno malato


Che cosa li aveva sbaragliati quando già stavano assaporando il sangue : la Vittoria? Perché si ritiravano? ”Il mastino tornava a far loro paura:” 

Non il mastino Tronk. Bensì una cosa informe e nuova che dentro di 

lui si era formata e lentamente da lui stava espandendosi come un alone…infetto. . …… 

I tre avevano intuito che a Tronk doveva “essere successo qualche cosa e non c’era più motivo di temerlo. Ma credevano di addentare un cane vivo. 

E invece l’odore insolito del pelo, forse, del fiato, e il sangue dal sapore repellente, li aveva ributtati indietro. Perché le bestie più ancora che i luminari delle cliniche percepiscono ‘al più lieve segno l’avvicinarsi della, presenza maledetta, del contagio che non ha rimedio. E d.lottatore era segnato, non apparteneva più alla vita, da qualche profondità recondita del corpo già si propagava la dissoluzione delle cellule.

Dino Buzzati

Treccani Enciclopedia Online

Dino Buzzati, “Sessanta racconti” (1958)

Morte a Venezia

Thomas Mann diventa cronista dell’epidemia di Colera che si diffondeva, silenziosamente, a Venezia.

Mentre prendeva il tè, seduto a un tavolino rotondo di ferro, dalla parte in ombra della piazza, fiutò ad un tratto nell’aria un odore singolare, che gli pareva avesse già sfiorato il suo olfatto, da tempo, senza però rendersene cosciente, un odore dolciastro medicinale che ricordava calamità e ferite e pulizia sospetta. Lo vagliò con apprensione, identificandolo, e, terminato lo spuntino, s’allontanò dalla piazza dalla parte opposta alla chiesa. Nello spazio ristretto, l’odore cresceva d’intensità.

Agli angoli delle calli erano affissi dei manifesti stampati con i quali le autorità comunali, a causa di certe malattie dell’apparato digerente, all’ordine del giorno con simili temperature, mettevano in guardia gli abitanti contro l’ingestione di ostriche e telline e anche contro l’acqua dei canali. La natura palliativa della prescrizione era chiara. La gente faceva crocchio su ponti e piazze; e lo straniero vi si mischiò, indagando e almanaccando.

Pregò un negoziante, appoggiato alla porta del suo fondaco, tra collane di corallo e monili di falsa ametista, di dargli informazioni sull’infausto odore. Quello lo squadrò con occhi pesanti e si rianimò frettoloso: «Una misura profilattica, signore!» rispose gesticolando. «Una disposizione della polizia, che bisogna approvare. Questa temperatura opprime, lo scirocco non è salutare. Insomma, lei mi capisce, una precauzione forse esagerata…» Aschenbach, ringraziatolo, proseguì. Anche sul vaporetto che lo riconduceva al Lido, sentiva ora l’odore del disinfettante.

Ritornato all’albergo, si recò subito alla tavola dei giornali e diede una scorsa ai quotidiani. In quelli stranieri non trovò nulla. Quelli del suo paese accennavano a notizie, citavano cifre incerte, riportavano smentite ufficiali, mettendone in dubbio la veridicità. Ecco come si spiegava lo sgombro dei turisti tedeschi e austriaci. Quelli delle altre nazionalità, evidentemente, non sapevano nulla, non sospettavano nulla, non erano ancora inquieti. «Si vuole tacere!» pensò Aschenbach eccitato, mentre gettava i giornali sulla tavola. «La cosa si vuole passarla sotto silenzio!» Ma nello stesso tempo il suo cuore si riempì di soddisfazione per l’avventura in cui il mondo esterno stava andando a finire

Un giorno, a colazione, nella grande sala da pranzo, affrontò il direttore, quell’ometto silenzioso in finanziera francese, il quale salutando e controllando, si muoveva tra i commensali e si era fermato anche alla tavola di Aschenbach per scambiare qualche parola. Perché, chiese l’ospite in maniera apatica e incidentale, perché diavolo, da qualche tempo, si disinfetta Venezia? «Si tratta,» rispose l’ipocrita, «di una misura della polizia, destinata ad evitare, debitamente e a tempo, ogni tipo di insalubrità o disturbo della salute pubblica, che potrebbe prodursi a causa della temperatura soffocante e caldissima.» «È proprio da lodare la polizia,» rispose Aschenbach; e, scambiate alcune osservazioni sul tempo, il direttore si congedò.

Già da parecchi anni il colera indiano aveva manifestato maggiore tendenza a propagarsi e a migrare. Generata dai caldi terreni paludosi al delta del Gange, aumentata dalle esalazioni mefitiche di quel rigoglioso e inutile luogo selvaggio preistorico e insulare, disertato dagli uomini, nei cui canneti si cela la tigre, l’epidemia aveva imperversato con violenza continua e insolita in tutto l’Indostan, invadendo a levante la Cina e a ponente l’Afghanistan e la Persia e portando, sulle piste delle principali carovaniere, il terrore fino ad Astrakan e addirittura fino a Mosca. Ma, mentre l’Europa tremava nel timore che lo spettro potesse introdursi da laggiù via terra, era comparso, propagato via mare, da navi mercantili siriane, quasi contemporaneamente, in parecchi porti mediterranei, sollevando la testa a Tolone e Malaga, mostrando la sua maschera più volte a Palermo e a Napoli, sembrando pure che non volesse più ritirarsi dalla Calabria e dalla Puglia. Il nord della penisola era stato risparmiato. Tuttavia alla metà di maggio di quell’anno, a Venezia furono trovati, nello stesso giorno, i terribili vibrioni nei cadaveri consunti e nerastri d’un mozzo e d’una fruttivendola. I casi vennero taciuti. Ma dopo una settimana ce n’erano dieci, venti, trenta e pure in diversi sestieri. Un austriaco che per diporto s’era trattenuto qualche giorno a Venezia, ritornato nella sua cittadina, morì con sintomi inequivocabili, e il fatto causò la comparsa sui giornali tedeschi delle prime voci sulla disgrazia nella città lagunare. Le autorità veneziane fecero rispondere che le condizioni sanitarie della città non erano mai state migliori, e presero le necessarie misure di sicurezza. Ma probabilmente generi alimentari, verdure, carne e latte erano già infetti, perché, nonostante smentite e occultamenti, la morte si estese distruggendo nelle anguste calli, e il caldo estivo, subentrato prematuro, intiepidendo l’acqua dei canali, favorì in modo particolare la diffusione. Sembrava addirittura che l’epidemia si fosse rinvigorita di forze, raddoppiata di tenacia e fertilità. I casi di guarigione erano rari; l’ottanta per cento dei colpiti moriva, e pure in modo orrendo, perché il male insorgeva con estrema violenza, presentando spesso quella forma pericolosissima detta «asciutta». In tale eventualità il corpo non riusciva neppure a espellere l’acqua secreta in abbondanza dai vasi sanguigni. In poche ore il malato, insecchitosi, soffocava per il sangue divenuto viscido come la pece, tra crampi e lamenti rauchi. Era da reputarsi fortunato se, come talvolta accadeva, all’accesso seguiva, dopo un leggero malessere, un deliquio profondo dal quale non si svegliava più, o quasi. Al principio di giugno furono riempiti tacitamente i padiglioni d’isolamento dell’ospedale civico, nei due orfanotrofi cominciavano a mancare i posti, tra la riva delle Fondamenta Nuove e San Michele, l’isola del cimitero, regnava un movimento d’intensità spaventosa. Ma il timore di una rovina troppo generale, il riguardo per l’esposizione di pittura recentemente aperta nel parco pubblico, per le enormi perdite che, in caso di panico e proscrizioni, avrebbero minacciato gli alberghi, i negozi, tutta la molteplice industria turistica, si mostrarono nella città più potenti dell’amore per la verità e del rispetto delle convenzioni internazionali; ebbero il potere di far persistere ostinate le autorità nella politica del silenzio e della smentita. Indignato, il più alto ufficiale sanitario di Venezia aveva rassegnato le dimissioni ed era stato sostituito alla chetichella da un uomo più arrendevole. La cittadinanza sapeva; ma la corruzione dei maggiorenti insieme con la regnante incertezza generale, con lo stato d’emergenza in cui la morte vagabonda aveva trasferito la città, produsse una certa depravazione degli strati inferiori, un incoraggiamento a impulsi foschi e antisociali, che si manifestò con sfrenatezza, impudicizia e crescente criminalità. Contro il solito la sera si notavano molti ubriachi; gentaglia malvagia, dicevano, rendeva di notte le strade malsicure; c’erano stati ripetuti casi di rapina e persino d’omicidio, in quanto già due volte era stato scoperto che persone presunte vittime dell’epidemia, erano state invece eliminate con il veleno dai loro propri familiari; la sciatteria professionale assumeva forme sfacciate e dissolute, prima d’allora mai conosciute in quei posti, mentre erano state di casa nel sud del paese e in Oriente. L’inglese disse di tutto questo le cose essenziali. «Farebbe bene a partire,» concluse. «Meglio oggi che domani. Non si può andare.

Thomas Mann

Enciclopedia Treccani Online

Thomas Mann, “Morte a Venezia” ()

La pelle

La peste dell’anima induce l’essere a compiere scelleratezze di ogni tipo. Sia l’uomo che la donna perdono la dignità e umiliano sé stessi.

Era, quella, una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa. Lo straordinario carattere di tal nuovissimo morbo era questo: che non corrompeva il corpo, ma l’anima. Le membra rimanevano in apparenza intatte, ma dentro l’involucro della carne sana l’anima si guastava, si disfaceva. Era una specie di peste morale, contro la quale non pareva vi fosse difesa alcuna. Le prime ad essere contagiate furon le donne, che, presso ogni nazione, sono il riparo più debole contro il vizio, e la porta aperta ad ogni male. (…)

Molti, è vero, che la disperazione faceva ingiusti, quasi scusavano la peste: insinuando che le donne prendevano pretesto dal morbo per prostituirsi, che cercavano nella peste la giustificazione della loro vergogna.

Ma una più profonda conoscenza del morbo rivelò in seguito che un tale sospetto era maligno. Poiché le prime a disperarsi della loro sorte eran le donne e molte ne ho udite io stesso piangere, e maledire quella crudelissima peste che le spingeva con invincibile violenza, contro la quale nulla poteva la loro debole virtù, a prostituirsi come cagne. (…)

Non meno pietosa e orribile era la sorte degli uomini. Non appena contagiati, essi perdevano ogni rispetto di se medesimi: si davano ai più ignobili commerci, commettevano le più sudice viltà, si trascinavano carpone nel fango baciando le scarpe dei loro “liberatori” (disgustati di tanta, e on richiesta obiezione), non solo per essere perdonati delle sofferenze e delle umiliazioni sofferte negli anni della schiavitù e della guerra, ma per aver l’onore d’essere calpestati dai nuovi padroni; spuntavano sulle bandiere della propria patria, vendevano pubblicamente la propria moglie, le proprie figlie, la propria madre. Tutto ciò, dicevano, per salvare la patria. E pur quelli che, all’aspetto, sembravano immuni dal morbo, si ammalavano di una naueseante malattia, che li spingeva ad arrossire di essere italiani, e perfino di appartenere al genere umano. (…)

Il sospetto, divenuto poi certezza, che la peste fosse stata portata in Europa dagli stessi liberatori, aveva suscitato nel popolo un profondo e sincero dolore. Sebbene sia antica tradizione dei vinti odiare i vincitori, il popolo napoletano non odiava gli alleati. Li aveva attesi con ansia, li aveva accolti con gioia.

Curzio Malaparte

Enciclopedia Treccani Online

Curzio Malaparte, “La pelle” (1949)

Malaria

Nella novella di Verga si assiste ad una vera e propria guerra tra poveri ignoranti a causa della malaria.

E’ vi par di toccarla colle mani […] stagnante nella pianura, a guisa dell’afa pesante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e l’estate arsa, e vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell’autunno, e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto.

Però dov’è la malaria è terra benedetta da Dio. In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c’entra il vomero in novembre. Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perché il signore ha detto: « Il pane che si mangia bisogna sudarlo»

Quelli del baraccone stavano a cena cuocere quattro fave, a ridosso del muricciolo, seduti sulle calcagna, per covar la pentola cogli occhi, tutta la famiglia. A un tratto udirono gridare: —Dàlli! dàlli! –e videro la folla inferocita che correva per sbranarli. –Signori miei! siamo poveri diavoli, poveri commedianti che andiamo intorno per buscarci il pane! -Il vecchio annaspava colle mani, per fare intendere le sue ragioni; la donna copriva i fìgliuoletti colle ali, come una chioccia; la giovinetta colle braccia in aria. Arrivò una prima sassata, che fece colare il sangue. Poi un parapiglia, la gente in mucchio accapigliandosi, gli strilli delle vittime, che si udivano più forte. -No! no! non li’ ammazzate “…ancora! Vediamo prima se “sono innocenti! Vediamo prima se portano il colera! -C’erano pure delle anime buone in quella ressa. ‘Ma gli altri non volevano intender ragioni: Jeli di comare Barbara, che gli sanguinava il cuore dall’angoscia, Scaricalasino che aveva visto coi suoi occhi Zanghì stecchito sotto il lenzuolo, massaro Lio che si sentiva già i dolori di ventre addosso. In un attimo la baracca in tutta sottosopra: i burattini, gli scenari, i cenci, la poca paglia sudicia dei sacconi. Poi, dopo che non ebbero più ridire frugare, fecero un mucchio d’ogni cosa, e vi appiccarono il fuoco. -Bravo! E adesso come farete a scoprire se portavano il colera? —-gridarono alcuni. Ma il povero capocomico non sentiva e non badava più a nulla, né le grida di morte, né le falci, né le scuri; pallido e stravolto, col sangue giù per la faccia, i capelli irti, gli occhi fuori della testa, voleva buttarsi sul fuoco per spegnerlo colle sue mani, urlando che lo rovinavano, che gli” toglievano il suo pane, strappandosi i capelli dalla disperazione, in mezzo alla famigliuola tutta pesta e malconcia, scampata per miracolo alla strage. —-Meglio, meglio che ci avessero uccisi tutti! —-Neppure il colera li aveva voluti, da per tutto dove l’avevano incontrato, stanchi ed affamati.

Giovanni Verga

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Novelle rusticane

Giovanni Verga, “Novelle Rusticane” (1885)

La peste in Manzoni

Manzoni, ne “I promessi sposi”, non nasconde il terrore davanti all’avanzare dell’epidemia di peste.

E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.

E mentre,- dice il Ripamonti,- i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città come un solo mortorio c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! La mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio.

Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile prendere in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.

[…] si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero: stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera […]

Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo.

L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzaretto.

Alessandro Manzoni

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Alessandro Manzoni, “I promessi sposi” (Einaudi, Torino pag. 521)

Una ‘pestifera’ novella

La Morte Nera del 1348 a Firenze ha un cronista d’eccezione: Giovanni Boccaccio, il quale, evidenzia come le relazioni cambiarono in peggio a causa dell’epidemia.

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella, non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascun infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate e in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente  cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare.

E non come in Oriente aveva fatto, dove morte; ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcune meno le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e venire, e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità e permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce, e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.

[…] E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento quasi tribulazione entrata n’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna e il suo marito; e , che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.

Boccaccio

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Giovanni Boccaccio, “Il Decamerone” (1349-1353)

La peste nell’Impero Romano

Tito Lucrezio Caro descrive con raccapricciante veridicità i sintomi e i segni della malattia.

Ora spiegherò quale sia la causa delle malattie e donde

la forza maligna possa sorgere d’un tratto e arrecare esiziale

strage alla stirpe degli uomini e alle torme degli animali

Anzitutto, sopra ho insegnato che esistono semi

di molte cose che per noi sono vitali,

e per contro è necessario che ne volino molti altri che causano

malattia e morte. Quand’essi per casuale incontro

si son raccolti e han perturbato il cielo, l’aria si fa malsana

Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore

e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi.

La gola, inoltre, nell’interno nera, sudava sangue,

e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava,

e l’interprete dell’animo, la lingua, stillava gocce di sangue,

infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.

Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia

aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto

dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.

Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,

simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.

Questo era più miserabile

E doloroso, che quando ciascuno vedeva se stesso

Avvinto dal male, da esserne votato alla fine, 

perdutosi d’animo, giaceva con cuore dolente, 

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

E benché sulla terra giacessero insepolti mucchi di corpi

su corpi, tuttavia gli uccelli e le fiere o fuggivano

balzando lontano, per evitare l’acre puzzo,

oppure, se li assaggiavano, languivano per morte imminente

E infatti ormai né la religione, né la maestà degli dèi

contavano molto: il dolore presente aveva il sopravvento.

Lucrezio

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Tito Lucrezio Caro, “De Rerum Natura”