Le Carré John-Chiamata per il morto

Nella narrativa di genere e/o di maniera che spopola nelle classifiche dei best-seller, le scene ospedaliere abbondano. In questo romanzo di Le Carré ritroviamo, per esempio, un classico arrivo all’ospedale:

 

“Mendel lo guardò e si chiese se fosse morto. Vuotò le tasche del suo soprabito e lo posò delicatamente sulle spalle di Smiley. Poi corse, corse come un pazzo all’ospedale, si precipitò fragorosamente attraverso la porta a vento del reparto esterni ed entrò nella parte illuminata riservata ai degenti. Era di servizio un giovane medico di colore. Mendel gli fece vedere la sua tessera, gli gridò qualcosa, lo afferrò per un braccio e tentò di trascinarlo sulla strada. Il medico sorrise paziente, scosse la testa e telefonò per chiamare un’ambulanza”.

 

John Le Carré, Chiamata per il morto, Garzanti, Milano, 1978-79 (1961)

Gert Hofmann – La parabola dei ciechi

A circa quattrocento anni  dall’omonimo dipinto di Bruegel, Gert Hofmann decise di narrare il quadro, raccontando l’umanità dei personaggi, sull’ipotesi che  si possa spiegare un’immagine a partire dalla prospettiva di un gruppo di sei persone cieche.

 

I sei mendicanti ciechi che devono fare da “modelli” a Bruegel per il quadro eponimo del libro affrontano il viaggio per recarsi dal pittore dove si fermano a posare. Lo stile è una curiosa prima persona plurale, che accentua il carattere straniato, precario, incerto, l’immobilità e la vaghezza del romanzo. Probabilmente influenza teatrale brechtiana (e anche Beckett) ma soprattutto sensazione di cecità narrativa, per così dire. Sono un soldato, un ladro, un credente, un ipovedente, Ripolus, che li guida. Tra l’altro si affidano a un bambino, affrontano lo scherno, mangiano, fanno i propri bisogni.

Si parte dal proverbio “Quando un uomo cieco ne guida un altro, ambedue cadranno nella fossa” portando la situazione all’estremo

“Forse sembriamo una famiglia, ma non lo siamo. Un giorno siamo sbucati, uno dopo l’altro, fuori dal bosco, e poiché nessuno aveva in mente qualcosa di preciso, abbiamo proseguito insieme, questo è quanto è successo. Da allora la gente pensa che siamo un tutt’uno.”

il gruppo diviene un individuo unico, indistinguibile e perso

“E abbiamo la sensazione che qui, dove noi adesso urliamo e dove deve esserci anche lo stagno, abbia fine una regione del mondo, si trasformi in un’altra. E su questo confine stiamo noi, rivolti verso l’altra regione, e dentro questo paesaggio immaginato da tutti noi insieme e separatamente urliamo con le bocche spalancate, che tutti coloro che hanno occhi per vedere possono studiare su di noi.”

M. Ferrazzoli

 

Gert Hoffman

La parabola dei ciechi

Editore Racconti, collana Gli scarafaggi

 

Link: https://culturificio.org/la-parabola-dei-ciechi-di-gert-hofmann/

Guglielmo Petroni – Le macchie di Donato

L’approccio alla cecità in modo opposto: cosa significa riprendere la vista? E’ sempre una rivelazine, un miglioramento…oppure no?

 

Nel racconto “le macchie di Donato” Petroni  tratta  di un accessorio essenziale ma poco citato: gli occhiali: “Mi hai rovinato”, è la frase dell’amico Pilade che richiama dopo una serie di insulti. L’amico, vero amico, corre a trovarlo per capire. “Si mise una mano in tasca e tirò fuori un paio d’occhiali in un astuccio di pelle. ‘Vedi, dopo tanti anni ho seguito il tuo consiglio… Quando sono uscito dall’ottico e mi sono messo gli occhiali, per prima cosa ho veduto gli alberi di piazza Cavour. Tu sai quanto ami il verde e tutti gli aspetti della natura, ma questa volta ne sono rimasto rivoltato: le belle masse sfumate col cielo, con le cose circostanti, le sfumature di colore, i tenui passaggi che ho tanto amato non esistevano più… Un mondo così crudo mi è venuto incontro, volgare in confronto a quello che io conosco”. E’ un’ironia leggera, poiché riferita all’acquisto degli occhiali, ma che in forma più  grave si ritrova anche in chi ritrova la vista dopo la cecità, e si deve confrontare con un mondo sconosciuto, e nn sempre positivo.

 

Guglielmo Petroni

Le macchie di Donato

1968, Editore Bietti, collana il girasole

Giovanni Pascoli – Myricae

La cecità è un tema molto presente nelle poesie di Giovanni Pascoli, e fa parte di “tristezze” all’interno della raccolta Myricae del 1891

 

XII

I ciechi

Siedono lungo il fosso, al solleone,
fuor dello stormeggiante paesello.
Passa un trotto via via tra il polverone,
una pesta, un alterco, uno stornello:

e da terra una grave salmodia
si leva, una preghiera, al lor cospetto.
— Il nostro pane — gemono via via:
il nostro, il nostro: tu, Gesù, l’hai detto.

 

Si nota la rappresentazione dolente dei ciechi, ignorati dai passanti, con la loro preghiera chiedono agli occhi di Gesù di essere considerati come tutti gli altri, ed avere diritto al pane quotidiano cme tutti, come clor dai quali vengono ignorati.

 

link: http://myricaepoesie.blogspot.com/2013/06/myricae-27.html

Ippolito Nievo – Confessioni di un italiano

In forma di autobiografia,  il protagonista Carlo Altoviti, racconta le vicende del Risorgimento Italiano e dell’Unità d’Italia. Sottolineiamo qui la descrizione di Carlino, un patriota cieco, per cui la ripresa della vista è metafora della ripresa della visione del paese Italia

 

Carlino è un patriota che ha perso la vista in carcere. “Il quarto mese cominciai a vedere quel pezzetto di mondo traverso una nebbia. Al quinto cominciò a calare un gran buio”. Data l’infermità, viene graziato della pena e si reca in esilio, a Londra, dove viene curato da un medico, Vianello, anch’egli profugo. Lo accompagna la Pisana, che gli si dedica con un eroismo che giunge al sacrificio: “Si sentiva morire e parlava di convalescenza, aveva il fuoco d’una febbre micidiale e compativa il mio male come se il suo non fosse degno che se ne parlasse… Quanto avrei pagato un barlume di luce per intravvedere le sue sembianze”. Il medico, l’amico, il compagno Lucilio è un realista: “Son invecchiato nella professione eppure ancora ieri mattina ho lasciato un malato che sembrava in via di miglioramento e la sera l’ho trovato morto”. Le premesse non sembrerebbero ottimistiche, ma l’operazione riesce: “Lucilio esaminò attentamente i miei occhi e dettomi che erano coperti da cateratte e che entro pochi mesi sarebbero maturate per l’operazione della quale non dubitava punto che sarebbe meravigliosamente riuscita… Oh il gran dono è la luce! Non l’apprezza degnamente che chi l’ha perduta”. Così, nella malattia si stringe un sodalizio politico, si cementa una fede comune, tornare a vedere come tornare in Italia.

M.Ferrazzoli

 

Confessioni di un italiano

Ippolito Nievo

 

Link: https://www.ibs.it/confessioni-d-italiano-libro-ippolito-nievo/e/9788811379577

Annie Ernaux – Non sono più uscita dalla mia notte

 

Cosa accade quando i propri genitori iniziano una fase di declino attraverso la perdita del sé e degli altri in malattie in cui ci si perde, com l’Alzhaimer? Questa descrizione del viaggio nelle ultime fasi della vita della madre ci conduce attraverso le fasi di dolore e disperazione di una figlia.

 

Appunti, poche righe, sensazioni ed emozioni annotate velocemente, tracciano questo diario del dolore. Una figlia guarda la madre lentamente spegnersi, osserva i suoi gesti inconsapevoli, ascolta le sue frasi senza logica, soffre per il totale abbrutimento del suo corpo, per la sua perdita di dignità legata allo smarrimento della coscienza. Il morbo di Alzheimer è una malattia che colpisce la mente, la distrugge un po’ alla volta, cancella la persona. Per una figlia però la vita della madre è qualcosa di più della presenza di una persona amata: è il mantenere in vita un poco della propria infanzia, della memoria di anni e di sentimenti lontani nel tempo. Anche il dolore cocente nel vedere il lento annullarsi, che con gli anni si fa sempre più rapido, della coscienza della donna, ha momenti di profonda tenerezza che possono essere suscitati da una piega delle labbra o da un richiamo inaspettatamente cosciente.
Rimorsi, sensazioni di inadempienze, ricordi di paure infantili, sentimenti contraddittori che colgono la Ernaux all’improvviso, ma rimane sempre e comunque un pensiero: il bisogno che la madre sia viva. Quando infatti questa tenera e tragica malata muore, alla figlia rimane un terribile senso di vuoto, le mancherà a lungo il coraggio di riprendere in mano gli appunti scritti di ritorno da ogni visita all’ospedale, ma nello stesso tempo è solo a lei che riesce a pensare, sa parlare solo di lei, ridà vita, grazie al gioco della memoria, ad immagini della sua giovinezza… “quando avevo sei o sette anni la chiamavo Vanné”.

 

Non sono più uscita dalla mia notte di Annie Ernaux
Titolo originale dell’opera: Je ne suis pas sortie de ma nuit

Traduzione di Orietta Orel
Pag. 111, Lit. 18.000 – Edizioni Rizzoli (La Scala)
ISBN 88-17-67085-5

 

Link: https://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/043/cafenov.htm

I Miserabili

I tempi odierni tengono in noi ben viva la percezione della difficoltà di gestire i pazienti afflitti da malattie contagiose. Medesimo problema, in condizioni notevolmente ridotte, si presenta a monsignor Bienvenu nel XIX secolo. Ma monsignor Bienvenu stupisce ogni lettore con un atto di amore davvero incredibile.

Il palazzo vescovile di D. era attiguo all’ospedale. Era un vasto e bell’edificio in pietra, costruito all’inizio del secolo scorso da monsignor Henri Puget, dottore in teologia della facoltà di Parigi, abate di Simore e, nel 1712, vescovo di D. Quel palazzo era una vera e propria dimora principesca. Tutto vi aveva un aspetto maestoso: gli appartamenti del vescovo, i saloni, la corte d’onore, vasta, con porticato secondo l’antica moda fiorentina, i giardini, folti di magnifici alberi. Nella sala da pranzo, una lunga e splendida galleria situata al pianterreno e che si apriva sui giardini, monsignor Henri Puget aveva offerto, il 29 luglio 1714, un pranzo ufficiale ai monsignori Charles Brûlart di Genlis, arcivescovo principe di Embru, Antoine de Mesgrigny, cappuccino, vescovo di Grasse, Philippe de Vendôme, gran priore di Francia, abate di St-Honoré de Lérins, François de Berton de Crillon, vescovo barone di Vence, César de Sabran de Forcalquier, vescovo signore di Glandève e Jean Soanen, prete dell’oratorio; i ritratti di questi sette reverendi personaggi ornavano quella sala, e la data memorabile, 29 luglio 1714, era scolpita a lettere d’oro su una lapide di marmo bianco. L’ospedale era una casa stretta e bassa, a un sol piano, con un giardinetto. Tre giorni dopo il suo arrivo il vescovo visitò l’ospedale. Terminata la visita fece dire al direttore di voler essere così gentile da raggiungerlo a casa sua. «Quanti malati avete ora, signor direttore dell’ospedale?».
«Ventisei, monsignore».
«Proprio quanti ne avevo contati».
«I letti sono un po’ addossati l’uno all’altro», soggiunse il direttore.
«Proprio quello che avevo notato».
«Le corsie non sono che stanze ed è difficile cambiar l’aria».
«Mi sembrava».
«E poi, quando c’è un raggio di sole, il giardino è troppo angusto per i convalescenti».
«È proprio quello che mi stavo dicendo».
«Nelle epidemie (quest’anno, per esempio, abbiamo avuto il tifo; due anni fa la miliare) cento ammalati a volte, e non si sa come provvedere».
«Proprio quello che pensavo».
«Che volete, monsignore, bisogna rassegnarsi!», disse il direttore.
Questa conversazione avveniva nella sala da pranzo-galleria; al pianterreno. Il vescovo rimase silenzioso un poco, poi si volse bruscamente verso il direttore dell’ospedale:
«Signore, quanti letti credete possano stare in questa sala?».
«La sala da pranzo di monsignore?», esclamò il direttore sorpreso.
Il vescovo percorreva la sala con lo sguardo, quasi facesse con gli occhi calcoli e misure.
«Almeno venti letti!», disse come parlando a se stesso, poi, alzando la voce:
«Sentite, signor direttore, di certo c’è un errore. Voi siete ventisei persone in cinque o sei camerette. Noi qui, in tre, abbiamo posto per sessanta… ci dev’essere uno sbaglio, vi dico, voi occupate casa mia e io la vostra. Rendetemi la mia casa. È questa la vostra».
Il giorno dopo i ventisei poveri ammalati venivano sistemati nel palazzo del vescovo e il vescovo era all’ospedale. Monsignor Myriel non possedeva nulla, la sua famiglia era stata rovinata dalla Rivoluzione. Sua sorella godeva di una rendita vitalizia di cinquecento franchi che, al presbiterio, bastava solo alle sue spese personali. Myriel percepiva dallo Stato, come vescovo, un appannaggio di quindicimila franchi. Il giorno stesso in cui andò ad abitare all’ospedale, monsignor Myriel stabilì, una volta per sempre, d’impiegare tale somma nel modo seguente. Copiamo una nota scritta di suo pugno.

Victor Hugo

Lirici Greci

La poesia antologizzata è stata composta dalla poetessa lesbia del VI secolo a.C. Saffo. Attraverso uno stile per nulla astratto, ma concreto, corporeo descrive la propria reazione alla visione della ragazza amata con un uomo: costui, per la beatitudine della bellezza e dell’amore della ragazza sarà “simile ad un dio”. La malattia dell’amore viene qui descritta in modo quasi scientifico, analizzando ogni reazione del proprio corpo al potente sentimento.

Simile a un dio mi sembra quell’uomo
che siede davanti a te, e da vicino
ti ascolta mentre tu parli
con dolcezza
e con incanto sorridi. E questo
fa sobbalzare il mio cuore nel petto.
Se appena ti vedo, sùbito non posso
più parlare:
la lingua si spezza: un fuoco
leggero sotto la pelle mi corre:
nulla vedo con gli occhi e le orecchie
mi rombano:
un sudore freddo mi pervade: un tremore
tutta mi scuote: sono più verde
dell’erba; e poco lontana mi sento
dall’essere morta.
Ma tutto si può sopportare…

Fonte: francesco sisti_lirici greci

I fratelli Karamazov

Fëdor Pavlovič decide, dopo essere stato abbandonato dalla prima moglie, di risposarsi con Sof ‘ja Ivanovna. L’incompatibilità di due caratteri nettamente distinti genera uno squilibrio emotivo all’interno dell’animo della giovane moglie, conducendola ad una forma di isteria.

Fëdor Pavlovič ben presto si sposò per la seconda volta. Il secondo matrimonio durò circa otto anni. Pescò la sua seconda consorte, Sof ‘ja Ivanovna, anche lei molto giovane, in un altro governatorato nel quale era passato per via di un piccolo appalto in società con un certo ebreo. Sebbene Fëdor Pavlovič gozzovigliasse, bevesse e si desse alla bella vita, tuttavia non smetteva mai di occuparsi di investire il proprio capitale e concludeva sempre con successo i suoi affarucci anche se, ovviamente, senza farsi tanti scrupoli. Sof ‘ja Ivanovna era figlia di un oscuro diacono ed era rimasta orfana e senza parenti sin dall’infanzia; era cresciuta nella ricca casa della sua benefattrice, educatrice e despota, l’illustre vegliarda vedova del generale Vorochov. Non conosco i dettagli, ho solo sentito dire che una volta avevano tolto la mite, placida, umile educanda dal cappio che aveva appeso a un chiodo in un ripostiglio, tanto le riusciva difficile sopportare il carattere bisbetico e gli eterni rimproveri di quella vecchia, che, forse, non era cattiva ma tiranneggiava intollerabilmente il prossimo per noia. Fëdor Pavlovič chiese la mano della ragazza, raccolsero informazioni su di lui e lo cacciarono via e allora lui, come nel primo matrimonio, propose la fuga all’orfanella. È molto, molto probabile che lei stessa non lo avrebbe seguito per nulla al mondo se per tempo ne avesse saputo di più sul suo conto. Ma il fatto accadeva in un altro governatorato e poi che cosa poteva capire una ragazzina di sedici anni che avrebbe preferito annegarsi nel fiume piuttosto che continuare a vivere dalla sua benefattrice? E così la poverina cambiò una benefattrice per un benefattore. Fëdor Pavlovič questa volta non ottenne neanche il becco di un quattrino perché la generalessa montò su tutte le furie, non dette nulla e per di più li maledisse entrambi; questa volta però egli non aveva programmato di ottenere nulla, era stato sedotto esclusivamente dalla straordinaria bellezza dell’innocente fanciulla e, soprattutto, dalla sua aria innocente che aveva un fascino particolare per un lascivo e, fino a quel momento, depravato estimatore solo del tipo più volgare di bellezza femminile. «Quegli occhietti innocenti allora mi tagliarono l’anima come la lama di un rasoio», raccontava in seguito con il suo solito ghigno ripugnante. Del resto, in un uomo depravato come lui anche quello poteva essere motivo di attrazione lasciva. Non avendo ricevuto alcuna ricompensa, Fëdor Pavlovič non fece tante cerimonie con la consorte e, sfruttando il fatto che ella, per così dire, era “in torto” dinanzi a lui e che lui l’aveva quasi “tolta dal cappio” e sfruttando, soprattutto, la straordinaria mitezza e umiltà di lei, egli addirittura calpestò le più elementari regole della decenza matrimoniale. In casa, alla presenza stessa della moglie, c’era un andirivieni di donne di malaffare e si organizzavano orge. Come nota caratteristica dirò che il servo Grigorij, un moralista cupo, ottuso e testardo, che aveva odiato la precedente padrona di casa, questa volta prese le parti della nuova padrona, la difendeva e litigava per lei con Fëdor Pavlovič in un modo quasi inammissibile da parte di un servo; una volta addirittura disperse con la forza un’orgia e tutte le svergognate che vi erano convenute. In seguito a tutto questo, alla disgraziata giovane donna, vissuta nel terrore sin da piccola, venne una specie di malattia nervosa femminile che si riscontra con maggiore frequenza nel popolino, fra le donne di campagna, che, per via di questo male, vengono chiamate klikusi. A causa di questa malattia, che provocava terribili attacchi isterici, la malata di tanto in tanto perdeva persino la ragione.

Fëdor Dostoevskij

Fonte: dostoevskij_karamazov

Carmina

Il Liber di Catullo ha segnato una vera rivoluzione poetica nel I secolo avanti Cristo. Facente parte del gruppo dei νεότεροι (neoteroi), si lega in maniera strettissima alla poesia greca, portando con sé una raffinatezza poetica tipica dell’ellenismo. Le poesie che antologizziamo sono tra le più celebri della latinità: un amore, quello catulliano, profondo, paradossale, con vette di gioia, di amara assenza e sentita malinconia.

76.

Se per l’uomo che ritiene di essere devoto,
di non aver tradito la parola data, né giurato
in nome degli dei per ingannare la fiducia
nei rapporti umani, è fonte di gioia il ricordo
del bene compiuto; gli anni futuri ti riservano
molte gioie, Catullo, per questo amore ingrato.
Tutto il bene che a un essere umano è possibile
fare o dire, tu l’hai detto e fatto: e tutto
si è perduto nell’ingratitudine di un cuore.
Perché dunque continui a tormentarti?
e non cerchi con tutta la volontà di liberarti
di una infelicità che gli dei non vogliono?
Difficile troncare a un tratto un lungo amore,
difficile certo, ma in qualche modo devi riuscire.
È l’unica salvezza, quindi devi ottenerla:
che sia possibile o no, lo devi fare.
Se vi è pietà in voi, dei, se in punto di morte,
nell’ora estrema, recaste mai aiuto a qualcuno,
guardate la mia infelicità e se ho vissuto onestamente strappatemi da questo male che mi consuma,
che insinuatosi dentro di me nel piú profondo
come un torpore ha cancellato ogni gioia dal mio cuore. Non chiedo piú che lei ricambi il mio amore,
né l’impossibile, che mi rimanga fedele:
voglio solo guarire e scordarmi di questo male oscuro. O dei, per la mia devozione, accordatemi questo.

85.

Odio e amo. Me ne chiedi la ragione?

Non so, cosí accade e mi tormento.

Gaio Valerio Catullo

Fonte: catullo_le poesie