Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi

 

Oliver Sacks, neurologo di fama mondiale, fa luce su una realtà a lungo messa in ombra, quella dei sordi. Con la sua incredibile capacità narrativa, condita da dosi rare di sensibilità e di empatia, l’autore ci invita a fare un passo oltre la medicalizzazione e a porre lo sguardo alle infinite possibilità dell’essere umano, alle straordinarie sfide (linguistiche e non), a una lingua, quella dei segni, a lungo ostracizzata, e a una cultura degna di nota.

 

 

È sorprendente quanto poco sappiamo sulla sordità, che Samuel Johnson definì «una delle più disperate tra le calamità umane»; siamo assai più ignoranti di quanto lo fosse una persona colta del 1886 o del 1786. Ignoranti e indifferenti. Negli ultimi mesi ho provato a parlare della sordità a un grandissimo numero di persone e quasi sempre mi sono sentito rispondere frasi come: «La sordità? Non ci ho mai riflettuto molto, a dire il vero. Non conosco nessun sordo. Perché, c’è qualche cosa di interessante da sapere sulla sordità?». Anch’io avrei risposto allo stesso modo, fino a qualche mese fa. […]

 

 

Il termine «sordo» è vago, o meglio, è così generico che non permette di distinguere i moltissimi gradi della sordità, gradi che hanno un’importanza qualitativa, e perfino «esistenziale». Ci sono le persone «dure di orecchio» (o «sordastri»), quindici milioni circa nella popolazione degli Stati Uniti, che riescono a udire in parte quanto viene detto, con l’aiuto di un apparecchio acustico e di una certa dose di buona volontà e di pazienza da parte dei loro interlocutori. Molti di noi hanno un genitore o un nonno appartenente a questa categoria – un secolo fa avrebbero usato il cornetto acustico; oggi usano le moderne protesi. Vi sono poi i «sordi gravi», molti dei quali lo sono in conseguenza di una malattia alle orecchie o di un incidente subìto nei primi anni di vita; ma per loro, come per i duri di orecchio, udire le parole altrui è ancora possibile, soprattutto con gli apparecchi acustici disponibili oggi o in fase di messa a punto, congegni estremamente perfezionati, computerizzati e «personalizzati». Infine vi sono i «sordi profondi» (“stone deaf”) ai quali nessun futuro ritrovato tecnologico permetterà mai di udire le parole degli altri. I sordi profondi non possono conversare nel modo abituale: devono o leggere le labbra (come faceva David Wright) o usare la lingua dei segni, o fare entrambe le cose. Non importa solo il grado della sordità, importa anche e soprattutto l’età, o lo stadio, in cui essa sopraggiunge. […]

 

 

Si può forse sostenere che la sordità sopraggiunta in età adulta sia «preferibile» alla cecità, ma nascere sordi è, o almeno può essere, infinitamente peggio che nascere ciechi. Il sordo prelinguistico, infatti, non potendo udire i suoi genitori, rischia di restare gravemente ritardato, se non minorato per sempre, nell’acquisizione del linguaggio, se non si interviene fin dai primissimi anni o mesi di vita. Ed essere menomato nel linguaggio, per un essere umano, è una delle calamità più disperate, perché è solo attraverso il linguaggio che entriamo in pieno possesso della nostra umanità, che comunichiamo liberamente con i nostri simili, che acquisiamo e scambiamo informazioni. Se non siamo in grado di fare tutte queste cose, saremo per sempre singolarmente menomati e isolati – quali che siano i nostri desideri, i nostri sforzi o le nostre capacità innate. Possiamo addirittura essere a tal punto impotenti a realizzare le nostre capacità intellettuali da apparire mentalmente deficienti (10). E’ per tale ragione che i sordi congeniti, i «sordomuti» (11), furono ritenuti degli idioti per migliaia di anni e considerati da una legislazione miope come soggetti «incapaci» – di ereditare, di sposarsi, di ricevere un’istruzione, di svolgere un lavoro non banalmente ripetitivo – e si videro rifiutare i diritti umani fondamentali. Solo verso la metà del Settecento si cominciò a porre rimedio a questa situazione, allorché (forse per il più diffuso atteggiamento illuminato, o forse per un brillante slancio di empatia) la figura del sordo e la sua situazione subirono un radicale mutamento. […]

 

 

Si sviluppa, quindi, nei segnanti, un modo nuovo e straordinariamente complesso di rappresentare lo spazio; una nuova “sorta” di spazio, uno spazio formale, che non ha corrispettivo in quanti non usano i Segni (56). Ciò riflette uno sviluppo neurologico del tutto nuovo. […]

 

 

È come se l’emisfero sinistro dei segnanti «si facesse carico» di un dominio di percezione visivo-spaziale, lo modificasse, lo affinasse, in un modo che non ha precedenti, rendendo possibili un linguaggio e una concettualizzazione visivi. […]

 

 

Essere sordo, essere nato sordo, pone l’individuo in una situazione fuori dall’ordinario; egli è esposto a uno spettro di possibilità linguistiche, quindi di possibilità intellettuali e culturali, che il resto di noi, parlanti nativi in un mondo di parlanti, può a malapena cominciare a immaginare. Noi non siamo linguisticamente deprivati, non ci troviamo di fronte a una sfida linguistica, come i sordi; noi non corriamo mai il pericolo di esser privi di qualsiasi forma di linguaggio o di presentare una grave incompetenza linguistica; ma nemmeno scopriamo linguaggi radicalmente nuovi, né li creiamo.

 

 

Oliver Sacks

 

 

www.cts-pisa.it/cts2018/wp-content/uploads/2018/02/vedere-voci-libro.pdf

 

 

Oliver Sacks, “Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi”, Adelphi Edizioni, Milano, 1989.

 

Agamennone

Il brano antologizzato è tratto dalle ultime pagine dell’Agamennone di Eschilo, una tragedia greca rappresentata nel 458 a.C, insieme ad altre due tragedie (che, insieme con la prima, compongono la trilogia dell’Orestea) e ad un dramma satiresco. Cassandra ha previsto la morte propria e del re “pastore dei popoli” Agamennone per mano della regina Clitemnestra (o Clitennestra), con la complicità dell’amante Egisto. La morte dei due si consuma fuori scena, secondo la consuetudine del teatro tragico attico.

CASSANDRA

Ahi, ahi, la fiamma, eccola! Mi assale! Apollo Liceo, a me, a me! Leonessa a due gambe, a letto col lupo, mentre il  leone gagliardo è lontano. Lei mi abbatterà: ah, mio tormento. Come preparando filtro di morte, mischierà alla vendetta  la mia parte di paga. Affila la lama per lui, il suo uomo. La morte – di questo si vanta – sarà giusto compenso per avermi  condotta sin qui. Perché vi ho ancora indosso, scettro, fasce profetiche sulle spalle? Perché si rida di me? Vi spezzo, io  stessa prima dell’ora fatale. Distrutte vi voglio. Nella polvere, ecco come io vi ripago. Un’altra al mio posto fate ricca di  strazio. Guardate, la mano stessa di Apollo mi strappa il velo oracolare. Prima posava l’occhio superbo su me che così  abbigliata ero esposta alle beffe di tutti: amici, nemici, perfetto equilibrio di scherno… “E mi adattavo al nome ormai  consueto: Ciarlatana!” rifiuto umano, in giro ad accattare, miserabile morta di fame. Per finire, il mago che m’ha fatta  maga, lui m’ha trascinata a questa vicenda di morte. Non l’altare – nella casa paterna – ma il tronco del boia mi aspetta,  scarlatto di tiepido sangue dal mio capo reciso. Cadremo, ma non senza castigo di mano divina. Sarà qui uno a  vendicare, germoglio matricida, esigerà il saldo per l’assassinio del padre. Lui, fuggitivo, cacciato lontano in esilio, è  ormai di ritorno: pronto a incorniciare con l’ultimo fregio l’avito edificio di colpe. Saldo patto hanno giurato gli dèi. Lo  spingerà il gesto implorante del padre steso al suolo. Perché questo abisso di pianto? Ho forse pietà di me stessa? Ho  visto, all’inizio, compiersi il fato di Troia. Ho visto i suoi vincitori uscire in questo stato dal divino giudizio. Perciò mi  avvio, voglio il mio destino: patire la morte! Cassandra volge lo sguardo al portale del palazzo. E ora a te, mia porta  dell’Ade: ti saluto. Mi tocchi un colpo preciso, lo supplico. Senza scarti d’agonia – fiotti, torrenti di sangue per una morte soave. Così possa chiudere gli occhi.

CORO

Quanto devi patire, donna di alto sapere! Hai detto molto. Ma se realmente conosci la tua fine fatale, perché questo  strano coraggio, questi passi verso l’altare, come vittima rapita dal dio?

CASSANDRA

No, ospiti, non c’è salvezza neppure tardando.

CORO

È impagabile l’ultimo istante.

CASSANDRA

La mia ora è qui: fuggendo guadagno ben poco.

CORO

Attingi coraggio dal tuo animo prode. Sappilo.

CASSANDRA

Chi ha sorte felice non ode simili frasi.

CORO

Una morte illustre affascina gli uomini.

CASSANDRA

O padre! Te, e i tuoi nobili figli!

CORO

Cos’hai? Quale spavento ti strappa indietro?

CASSANDRA

Ahimè!

CORO

Perché questo “ahimè”? Brivido d’orrore, dentro?

CASSANDRA

Sfiata assassinio la casa, gronda cruenta.

CORO

Come può? È aroma di offerte votive, dai focolari.

CASSANDRA

Si distingue come un respiro di tomba.

CORO

Non c’è incenso d’Oriente là dentro, a tuo dire!

CASSANDRA

Parto. Ululerò ai trapassati il mio fato e quello di Agamennone. Sia finita qui. Ah stranieri! Grido: non di spavento –  uccello a un’ombra di fronda – ma perché di tutto questo, dopo la fine, mi siate testi fedeli, nell’ora che una donna, a  saldare la mia morte di donna, cadrà, e un uomo dovrà morire, in cambio di un uomo cui fu fatale la sposa. Pensate che  sto per morire. Fatemi questo dono ospitale.

CORO

O tu che soffri, ho pena del fato che tu stessa t’annunci.

CASSANDRA

Ancora una volta voglio dire parole distese, non cantilene di lutto, per la mia morte. Davanti a quest’ultima luce di sole,  io chiedo ai vendicatori del re che facciano scontare ai nemici anche la mia uccisione, di me morta schiava, vittima  disarmata. Vicende terrene! Prospere, e basta un’ombra a travolgerle: se la sorte è ostile, una passata di spugna stillante,  e il disegno è perduto. Questo mi fa piangere, molto più di tutto il resto. Cassandra entra nella reggia. 

CORO

Hanno nel sangue gli uomini

fame implacabile di felicità.

Nessuno di quelli che la gente

già mostra col dito, vuole

vietarle l’entrata, scacciarla

dal proprio palazzo, gridando

“Non avvicinarti, mai più.”

A quest’uomo i beati donarono

di vincere la terra di Priamo,

e torna alla patria

pieno di onori divini.

Ma ora, se deve saldare il sangue

di chi l’ha preceduto,

se per quelle morti antiche

morendo lui stesso compie

espiazione di altri assassinii,

quale uomo, che sappia la storia,

può dire di essere nato

all’ombra di un destino innocente?

Dall’interno della reggia, laceranti, esplodono voci di dolore. 

AGAMENNONE

Aaah! Ho dentro, m’inchioda colpo preciso.

CORO

Silenzio. Chi grida, trapassato da colpo preciso?

AGAMENNONE

Altra fitta, orrenda! Due colpi ho in corpo.

CORO

L’azione è conclusa: quest’ululo del re me lo fa sospettare. Amici, scambiamoci i pareri sicuri. Vi dico quel che penso:  far gridare in città che si corra alla rocca.

Per me, scattare subito dentro, smascherare il delitto con evidenza di lama appena estratta. Ecco il mio voto, su cosa decidere: mi associo a questo consiglio. Non è ora d’indugi.

Apriamo gli occhi. Queste sono le prime battute, indizi di tirannide, di ciò che stanno preparando allo stato. Troppo tardi: loro schiacciano sotto i piedi il decantato “pensaci bene”! Intanto la mano è ben sveglia. Non so quale miglior consiglio dare: l’agire esige riflessione attenta, …

Sono dalla stessa parte: non ho il mezzo di far risorgere l’ucciso a parole.

Dunque, salvare la vita. E per questo, chinarsi ai padroni che sono infamia alla casa?

No, non si può tollerarlo. Meglio la morte, è più dolce che subire i tiranni.

Come indizio c’è l’urlo del re. Ci basta per crederlo ucciso?

Vediamoci chiaro, poi venga pure lo sdegno. Indovinare, ed essere certi: c’è differenza.

Per me, prevale questo parere, e l’approvo: sapere con certezza la fine dell’Atride.

Lento, si spalanca il portale della reggia. Dentro, tre figure. Riverso in una conca lucente, avvolto in un largo drappo  chiazzato di sangue, il corpo di Agamennone. Accanto, abbattuta, Cassandra. Li sovrasta – l’arma è ancora in mano –  Clitennestra, superba. 

CLITENNESTRA

In passato molte parole ho detto sfruttando un’occasione: ora, non avrò scupoli a smentirle. Come può, uno, tramando  ostili colpi a gente ostile che si presenta con la faccia amica, gettare rete di sventura, altezza che nessun balzo varca? Da troppo tempo non mi usciva dalla mente questa gara di morte. Ora il premio della lotta, la vittoria: tardi, ma alla fine è  giunta! Qui mi ergo, dove vibrai l’arma, dove ho saldato il mio impegno. Ho agito, ho avuto successo, non voglio  celarlo: né scampo per lui, né riparo al colpo fatale. Un volo di rete, inestricabile – come a una mattanza – e lo ingabbio,  sfarzo doloroso di stoffe. Io due squarci. Due rantoli, lui, fascio di membra snervate, lì al suolo. È steso. Un terzo colpo  gli assesto. Grato ossequio a Zeus dell’abisso, patrono dei morti. Sfoga l’anima crollando – una boccata precipitosa di  sangue e spira. Mi schizza di fosche stille – velo di rugiada scarlatta che mi fa lieta, come la semente del grano, quando  nel pieno sbocciare dei chicchi s’ingemma del rorido dono del cielo. Questi gli eventi, degna nobiltà di Argo. Esultate se vi piace. Io me ne glorio. Se mai fosse buon momento per libare su un ucciso, ora sarebbe giusto, legittimo, anzi.  Quest’uomo ha colmato il calice di troppi crimini, qui nella reggia: al suo ritorno gli è toccato svuotarlo.

CORO

Ci scuote la tua lingua sfacciata, questa voce superba contro lo sposo.

CLITENNESTRA

Mi state saggiando: quella donna insensata, pensate. Io però con cuore immoto mi rivolgo a gente che intende. Tu mi  assecondi, sei disposto? Mi critichi? È lo stesso. Ecco Agamennone, sì mio marito. Morto. Colpo di questa abile mano,  autrice di vendetta. Questi i fatti.

CORO

str. I 

Regina, che tossico frutto della zolla

inghiottisti, che filtro stillato

dall’onda salmastra

per commettere l’assassinio?

Per spezzare, troncare

l’imprecazione che sale dal paese?

Sarai fuorilegge, sotto un carico d’astio

ti schiaccerà la tua gente.

CLITENNESTRA

Adesso tocca a me fuggire il paese, affrontare l’astio, la pubblica esecrazione: così tu ora sentenzi. Non facesti contrasto in passato a quest’uomo. Lui, senza scrupolo – non conta la morte di un’agnella, quando il pascolo trabocca di mandrie  ricciute – immolò la sua figlia, frutto doloroso e adorato del mio parto. Doveva affascinare, in Tracia, il calo di vento. A  lui no, non toccava l’espulsione da questo paese, a fargli scontare il crimine osceno. Alle mie azioni, invece, tendi le  orecchie, e ti fai giudice senza pietà. Ora ascolta. Limita le minacce, potrai darmi ordini, ma solo piegandomi con le tue  mani: io, per me, sono pronta, da pari a pari. Régolati. Certo, se dio decide l’opposto, apprenderai la dura lezione di un  tardivo equilibrio di mente.

CORO

ant. I 

Sei spavalda di cuore

e alzi la voce arrogante.

Delira il tuo spirito

per il cruento colpo di fortuna.

Ombra fosca di sangue

– la vedo – ti scintilla negli occhi.

Hai vuoto d’amore, intorno:

devi espiare il colpo con colpo di risarcimento.

CLITENNESTRA

E tu considera la santa base dei miei giuramenti: su Equità che rese giustizia a mia figlia, su Perdizione punitrice divina, su Erinni, cui dedico quest’uomo scannato, mai varcherà la mia soglia il brivido della paura, finché attizzi il fuoco nel  mio braciere Egisto, pieno d’affetto, come sempre in passato, per me. È lui scudo non piccolo del mio franco ardire.  Eccolo, steso, colui che schizzò fango su questa donna, l’incanto delle Criseidi, laggiù sotto Troia. E guarda, ecco la  preda di guerra, la veggente, la profetessa d’oracoli che spartì il letto con lui. Che amica fedele di letto, ora, guardali!  Come quando si stendevano insieme sul ponte delle navi! Non è salato il conto, di quei due. Lui, giace così come vedi.  Lei, modulò la nenia estrema dell’agonia – un cigno, pareva. Eccola stesa con lui, a fare l’amore. Me la porse lui, il mio  uomo, ghiotto contorno al mio godere!

Eschilo

Fonte: eschilo_agamennone

Il piccolo malato di Cronin

Il destino di Yu era segnato: sotto lo sguardo di tre medici barbuti, lo attendevano dolore e ferite. L’estratto dell’opera “Le chiavi del regno” di Archibald Joseph Cronin evidenziano la missione della cura del malato.

[…] La camera del piccolo malato era immersa nella penombra. Cià Yu era coricato sopra una Kang riscaldato, sotto gli sguardi di tre medici barbuti avvolti in lunghi roboni, e seduti su stuoie di vimini. Di quando in quando uno dei medici si piegava sul busto e lasciava cadere un pezzo di carbone nel kang scatoliforme. A un angolo della stanza un prete taoista avvolto in una veste color lavagna borbottava preghiere ed esorcismi, con accompagnamento di flauti dietro la tramezza di bambù.

Yu era un grazioso bambino di sei anni, dalla carnagione morbida e giallina e occhi d’antracite. Allevato secondo le più strette tradizioni del rispetto filiale, era adorato, ma non viziato. Adesso, consumato da una febbre divorante e dalla terribile novità del dolore, giaceva sul dorso con le ossa che sembravano dovergli bucare la pelle. Il braccio destro, livido, mostruosamente enfiato e tumefatto, era incasellato in un orribile plastico di sporcizia mista a frammenti di carta.

[…] Curvo sul bambino privo ormai di conoscenza, Francesco valutò nel suo giusto valore quella marmorea immobilità sacerdotale. I suoi guai attuali sarebbero stati meno che niente, a petto della persecuzione che sarebbe seguita se il suo intervento falliva. Ma le disperate condizioni del ragazzo, e quell’insolente pretesa di cura agirono ugualmente su di lui come una frustata, con gesti rapidi e delicati tolse dal braccio infetto lo Hao kao, il lurido bendaggio che aveva così spesso visto nei poveri che accorrevano al suo dispensario; poi, liberato il braccio, lo lavò in acqua calda. Nella bacinella l’arto quasi galleggiava, vescica gonfia di pus che dava alla pelle un colore verdognolo. A Francesco il cuore faceva ora un gran battere, ma senza esitare cavò dalla tasca l’astuccio di cuoio ricevuto dall’amico Tulloch, e ne trasse un bisturi. Non si illudeva sulle sue capacità, ma sapeva anche che se non incideva profondamente nel braccio del bambino giù moribondo, il destino del poveretto era segnato.

[…] Un gran fiotto di materia putrida sgorgò dalla ferita e colò denso nel vaso di coccio pronto a riceverlo. Un puzzo orribile riempì l’aria. Mai tuttavia Francesco aveva sentito odore con maggiore letizia.

Archibald Joseph Cronin

Adattamento radiofonico in cinque puntate del romanzo “Le Chiavi del Regno” di Archibald Joseph Cronin 

Archibald Joseph Cronin, “Le chiavi del regno” (1941, Bompiani)

Gert Hofmann – La parabola dei ciechi

A circa quattrocento anni  dall’omonimo dipinto di Bruegel, Gert Hofmann decise di narrare il quadro, raccontando l’umanità dei personaggi, sull’ipotesi che  si possa spiegare un’immagine a partire dalla prospettiva di un gruppo di sei persone cieche.

 

I sei mendicanti ciechi che devono fare da “modelli” a Bruegel per il quadro eponimo del libro affrontano il viaggio per recarsi dal pittore dove si fermano a posare. Lo stile è una curiosa prima persona plurale, che accentua il carattere straniato, precario, incerto, l’immobilità e la vaghezza del romanzo. Probabilmente influenza teatrale brechtiana (e anche Beckett) ma soprattutto sensazione di cecità narrativa, per così dire. Sono un soldato, un ladro, un credente, un ipovedente, Ripolus, che li guida. Tra l’altro si affidano a un bambino, affrontano lo scherno, mangiano, fanno i propri bisogni.

Si parte dal proverbio “Quando un uomo cieco ne guida un altro, ambedue cadranno nella fossa” portando la situazione all’estremo

“Forse sembriamo una famiglia, ma non lo siamo. Un giorno siamo sbucati, uno dopo l’altro, fuori dal bosco, e poiché nessuno aveva in mente qualcosa di preciso, abbiamo proseguito insieme, questo è quanto è successo. Da allora la gente pensa che siamo un tutt’uno.”

il gruppo diviene un individuo unico, indistinguibile e perso

“E abbiamo la sensazione che qui, dove noi adesso urliamo e dove deve esserci anche lo stagno, abbia fine una regione del mondo, si trasformi in un’altra. E su questo confine stiamo noi, rivolti verso l’altra regione, e dentro questo paesaggio immaginato da tutti noi insieme e separatamente urliamo con le bocche spalancate, che tutti coloro che hanno occhi per vedere possono studiare su di noi.”

M. Ferrazzoli

 

Gert Hoffman

La parabola dei ciechi

Editore Racconti, collana Gli scarafaggi

 

Link: https://culturificio.org/la-parabola-dei-ciechi-di-gert-hofmann/

Guglielmo Petroni – Le macchie di Donato

L’approccio alla cecità in modo opposto: cosa significa riprendere la vista? E’ sempre una rivelazine, un miglioramento…oppure no?

 

Nel racconto “le macchie di Donato” Petroni  tratta  di un accessorio essenziale ma poco citato: gli occhiali: “Mi hai rovinato”, è la frase dell’amico Pilade che richiama dopo una serie di insulti. L’amico, vero amico, corre a trovarlo per capire. “Si mise una mano in tasca e tirò fuori un paio d’occhiali in un astuccio di pelle. ‘Vedi, dopo tanti anni ho seguito il tuo consiglio… Quando sono uscito dall’ottico e mi sono messo gli occhiali, per prima cosa ho veduto gli alberi di piazza Cavour. Tu sai quanto ami il verde e tutti gli aspetti della natura, ma questa volta ne sono rimasto rivoltato: le belle masse sfumate col cielo, con le cose circostanti, le sfumature di colore, i tenui passaggi che ho tanto amato non esistevano più… Un mondo così crudo mi è venuto incontro, volgare in confronto a quello che io conosco”. E’ un’ironia leggera, poiché riferita all’acquisto degli occhiali, ma che in forma più  grave si ritrova anche in chi ritrova la vista dopo la cecità, e si deve confrontare con un mondo sconosciuto, e nn sempre positivo.

 

Guglielmo Petroni

Le macchie di Donato

1968, Editore Bietti, collana il girasole

Giovanni Pascoli – Myricae

La cecità è un tema molto presente nelle poesie di Giovanni Pascoli, e fa parte di “tristezze” all’interno della raccolta Myricae del 1891

 

XII

I ciechi

Siedono lungo il fosso, al solleone,
fuor dello stormeggiante paesello.
Passa un trotto via via tra il polverone,
una pesta, un alterco, uno stornello:

e da terra una grave salmodia
si leva, una preghiera, al lor cospetto.
— Il nostro pane — gemono via via:
il nostro, il nostro: tu, Gesù, l’hai detto.

 

Si nota la rappresentazione dolente dei ciechi, ignorati dai passanti, con la loro preghiera chiedono agli occhi di Gesù di essere considerati come tutti gli altri, ed avere diritto al pane quotidiano cme tutti, come clor dai quali vengono ignorati.

 

link: http://myricaepoesie.blogspot.com/2013/06/myricae-27.html

Ippolito Nievo – Confessioni di un italiano

In forma di autobiografia,  il protagonista Carlo Altoviti, racconta le vicende del Risorgimento Italiano e dell’Unità d’Italia. Sottolineiamo qui la descrizione di Carlino, un patriota cieco, per cui la ripresa della vista è metafora della ripresa della visione del paese Italia

 

Carlino è un patriota che ha perso la vista in carcere. “Il quarto mese cominciai a vedere quel pezzetto di mondo traverso una nebbia. Al quinto cominciò a calare un gran buio”. Data l’infermità, viene graziato della pena e si reca in esilio, a Londra, dove viene curato da un medico, Vianello, anch’egli profugo. Lo accompagna la Pisana, che gli si dedica con un eroismo che giunge al sacrificio: “Si sentiva morire e parlava di convalescenza, aveva il fuoco d’una febbre micidiale e compativa il mio male come se il suo non fosse degno che se ne parlasse… Quanto avrei pagato un barlume di luce per intravvedere le sue sembianze”. Il medico, l’amico, il compagno Lucilio è un realista: “Son invecchiato nella professione eppure ancora ieri mattina ho lasciato un malato che sembrava in via di miglioramento e la sera l’ho trovato morto”. Le premesse non sembrerebbero ottimistiche, ma l’operazione riesce: “Lucilio esaminò attentamente i miei occhi e dettomi che erano coperti da cateratte e che entro pochi mesi sarebbero maturate per l’operazione della quale non dubitava punto che sarebbe meravigliosamente riuscita… Oh il gran dono è la luce! Non l’apprezza degnamente che chi l’ha perduta”. Così, nella malattia si stringe un sodalizio politico, si cementa una fede comune, tornare a vedere come tornare in Italia.

M.Ferrazzoli

 

Confessioni di un italiano

Ippolito Nievo

 

Link: https://www.ibs.it/confessioni-d-italiano-libro-ippolito-nievo/e/9788811379577

Annie Ernaux – Non sono più uscita dalla mia notte

 

Cosa accade quando i propri genitori iniziano una fase di declino attraverso la perdita del sé e degli altri in malattie in cui ci si perde, com l’Alzhaimer? Questa descrizione del viaggio nelle ultime fasi della vita della madre ci conduce attraverso le fasi di dolore e disperazione di una figlia.

 

Appunti, poche righe, sensazioni ed emozioni annotate velocemente, tracciano questo diario del dolore. Una figlia guarda la madre lentamente spegnersi, osserva i suoi gesti inconsapevoli, ascolta le sue frasi senza logica, soffre per il totale abbrutimento del suo corpo, per la sua perdita di dignità legata allo smarrimento della coscienza. Il morbo di Alzheimer è una malattia che colpisce la mente, la distrugge un po’ alla volta, cancella la persona. Per una figlia però la vita della madre è qualcosa di più della presenza di una persona amata: è il mantenere in vita un poco della propria infanzia, della memoria di anni e di sentimenti lontani nel tempo. Anche il dolore cocente nel vedere il lento annullarsi, che con gli anni si fa sempre più rapido, della coscienza della donna, ha momenti di profonda tenerezza che possono essere suscitati da una piega delle labbra o da un richiamo inaspettatamente cosciente.
Rimorsi, sensazioni di inadempienze, ricordi di paure infantili, sentimenti contraddittori che colgono la Ernaux all’improvviso, ma rimane sempre e comunque un pensiero: il bisogno che la madre sia viva. Quando infatti questa tenera e tragica malata muore, alla figlia rimane un terribile senso di vuoto, le mancherà a lungo il coraggio di riprendere in mano gli appunti scritti di ritorno da ogni visita all’ospedale, ma nello stesso tempo è solo a lei che riesce a pensare, sa parlare solo di lei, ridà vita, grazie al gioco della memoria, ad immagini della sua giovinezza… “quando avevo sei o sette anni la chiamavo Vanné”.

 

Non sono più uscita dalla mia notte di Annie Ernaux
Titolo originale dell’opera: Je ne suis pas sortie de ma nuit

Traduzione di Orietta Orel
Pag. 111, Lit. 18.000 – Edizioni Rizzoli (La Scala)
ISBN 88-17-67085-5

 

Link: https://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/043/cafenov.htm

I Miserabili

I tempi odierni tengono in noi ben viva la percezione della difficoltà di gestire i pazienti afflitti da malattie contagiose. Medesimo problema, in condizioni notevolmente ridotte, si presenta a monsignor Bienvenu nel XIX secolo. Ma monsignor Bienvenu stupisce ogni lettore con un atto di amore davvero incredibile.

Il palazzo vescovile di D. era attiguo all’ospedale. Era un vasto e bell’edificio in pietra, costruito all’inizio del secolo scorso da monsignor Henri Puget, dottore in teologia della facoltà di Parigi, abate di Simore e, nel 1712, vescovo di D. Quel palazzo era una vera e propria dimora principesca. Tutto vi aveva un aspetto maestoso: gli appartamenti del vescovo, i saloni, la corte d’onore, vasta, con porticato secondo l’antica moda fiorentina, i giardini, folti di magnifici alberi. Nella sala da pranzo, una lunga e splendida galleria situata al pianterreno e che si apriva sui giardini, monsignor Henri Puget aveva offerto, il 29 luglio 1714, un pranzo ufficiale ai monsignori Charles Brûlart di Genlis, arcivescovo principe di Embru, Antoine de Mesgrigny, cappuccino, vescovo di Grasse, Philippe de Vendôme, gran priore di Francia, abate di St-Honoré de Lérins, François de Berton de Crillon, vescovo barone di Vence, César de Sabran de Forcalquier, vescovo signore di Glandève e Jean Soanen, prete dell’oratorio; i ritratti di questi sette reverendi personaggi ornavano quella sala, e la data memorabile, 29 luglio 1714, era scolpita a lettere d’oro su una lapide di marmo bianco. L’ospedale era una casa stretta e bassa, a un sol piano, con un giardinetto. Tre giorni dopo il suo arrivo il vescovo visitò l’ospedale. Terminata la visita fece dire al direttore di voler essere così gentile da raggiungerlo a casa sua. «Quanti malati avete ora, signor direttore dell’ospedale?».
«Ventisei, monsignore».
«Proprio quanti ne avevo contati».
«I letti sono un po’ addossati l’uno all’altro», soggiunse il direttore.
«Proprio quello che avevo notato».
«Le corsie non sono che stanze ed è difficile cambiar l’aria».
«Mi sembrava».
«E poi, quando c’è un raggio di sole, il giardino è troppo angusto per i convalescenti».
«È proprio quello che mi stavo dicendo».
«Nelle epidemie (quest’anno, per esempio, abbiamo avuto il tifo; due anni fa la miliare) cento ammalati a volte, e non si sa come provvedere».
«Proprio quello che pensavo».
«Che volete, monsignore, bisogna rassegnarsi!», disse il direttore.
Questa conversazione avveniva nella sala da pranzo-galleria; al pianterreno. Il vescovo rimase silenzioso un poco, poi si volse bruscamente verso il direttore dell’ospedale:
«Signore, quanti letti credete possano stare in questa sala?».
«La sala da pranzo di monsignore?», esclamò il direttore sorpreso.
Il vescovo percorreva la sala con lo sguardo, quasi facesse con gli occhi calcoli e misure.
«Almeno venti letti!», disse come parlando a se stesso, poi, alzando la voce:
«Sentite, signor direttore, di certo c’è un errore. Voi siete ventisei persone in cinque o sei camerette. Noi qui, in tre, abbiamo posto per sessanta… ci dev’essere uno sbaglio, vi dico, voi occupate casa mia e io la vostra. Rendetemi la mia casa. È questa la vostra».
Il giorno dopo i ventisei poveri ammalati venivano sistemati nel palazzo del vescovo e il vescovo era all’ospedale. Monsignor Myriel non possedeva nulla, la sua famiglia era stata rovinata dalla Rivoluzione. Sua sorella godeva di una rendita vitalizia di cinquecento franchi che, al presbiterio, bastava solo alle sue spese personali. Myriel percepiva dallo Stato, come vescovo, un appannaggio di quindicimila franchi. Il giorno stesso in cui andò ad abitare all’ospedale, monsignor Myriel stabilì, una volta per sempre, d’impiegare tale somma nel modo seguente. Copiamo una nota scritta di suo pugno.

Victor Hugo

Lirici Greci

La poesia antologizzata è stata composta dalla poetessa lesbia del VI secolo a.C. Saffo. Attraverso uno stile per nulla astratto, ma concreto, corporeo descrive la propria reazione alla visione della ragazza amata con un uomo: costui, per la beatitudine della bellezza e dell’amore della ragazza sarà “simile ad un dio”. La malattia dell’amore viene qui descritta in modo quasi scientifico, analizzando ogni reazione del proprio corpo al potente sentimento.

Simile a un dio mi sembra quell’uomo
che siede davanti a te, e da vicino
ti ascolta mentre tu parli
con dolcezza
e con incanto sorridi. E questo
fa sobbalzare il mio cuore nel petto.
Se appena ti vedo, sùbito non posso
più parlare:
la lingua si spezza: un fuoco
leggero sotto la pelle mi corre:
nulla vedo con gli occhi e le orecchie
mi rombano:
un sudore freddo mi pervade: un tremore
tutta mi scuote: sono più verde
dell’erba; e poco lontana mi sento
dall’essere morta.
Ma tutto si può sopportare…

Fonte: francesco sisti_lirici greci