La Tv, da “Malattie imbarazzanti” a “Ballando con le stelle”

La televisione offre spesso un atteggiamento contraddittorio nell’affrontare il rapporto tra normodotati e disabili: lo analizza un capitolo del saggio “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo.”

Anche la televisione è un medium contrassegnato da un atteggiamento ambiguo, che riflette quello del rapporto tra “normodotati” e disabilità. Prendiamo il docu-reality Malattie imbarazzanti: il format inglese in cui un’equipe di medici cerca di aiutare persone con patologie rare, si basa su scene di vita reale o riprese in modo da apparire tali.

I medici raccolgono anche le opinioni della popolazione, facendone emergere la disinformazione, la paura, il pregiudizio. Il successo del programma, vincitore di due premi BAFTA (British Academy of Film and Television Arts), ha portato alla produzione di spin-off come Embarrassing Fat Bodies e Embarrassing Teenage Bodies.

Lo Show dei record è andato in onda dal 2006 su Canale 5 e TV8, salvo interruzione della nuova edizione per via della pandemia. Nel programma dedicato ai più famosi primati censiti nel “Guinness dei primati”, pubblicato dal 1955 e tradotto in venti lingue, hanno trovato spazio made freak come Charlotte Guttenberg, che con il 91,5% del corpo coperto è la donna anziana più tatuata al mondo, e Lizardman (l’uomo lucertola), al secolo Erik Sprague: per ottenere l’aspetto che lo contraddistingue si è sottoposto a circa 700 ore di sedute di tatuaggi, a cui vanno aggiunti i corni in teflon, le modifiche ai denti e l’operazione per rendere la lingua biforcuta come quella dei rettili. Lo stesso Sprague scrive: “Ho deciso di fare della mia diversità un mestiere. Ho lavorato molto per diventare un’attrazione speciale. Mi sentivo un freak anche quando indossavo abiti normali ma prima di trasformarmi la gente non poteva sapere che ero così speciale, adesso basta un’occhiata per capire che sono una persona unica. Quando la gente dal panettiere vede l’uomo lucertola mi piace pensare che questo li scuota dalla monotonia, questo piccolo
tocco di surreale può scuoterli un attimo, restituire loro quel senso di stupore simile a quello che si prova da bambini”.

Come afferma Dick Zigun, fondatore e direttore artistico del Coney Island Circus Sideshow, la spettacolarizzazione della diversità oggi spesso risponde all’esigenza di rimarcare la propria unicità: «Sono le persone che desiderano sentirsi diverse, visibilmente diverse da tutte le altre. In questa società che tende all’omologazione, essere finalmente unici è un obiettivo».

In alcuni casi sono le stesse persone con disabilità reali a voler stupire grazie ai propri record. L’italo-albanese Haki Doku, 49enne paraplegico, ha iscritto il suo nome nel libro in due categorie: il percorso
più lungo compiuto spingendosi su una carrozzina per dodici ore consecutive e il maggior numero di gradini effettuati in discesa in un’ora.

Il programma forse più significativo è però Ballando con le stelle, condotto su Rai Uno da Milly Carlucci e Paolo Belli, importato dal format Strictly Dancing andato in onda per la prima volta su BBC One, in Gran
Bretagna.

Dopo le prime edizioni, gli autori hanno deciso di introdurre nel cast persone con disabilità. La prima è Giusy Versace nel 2014, seguita da Nicole Orlando nel 2016, Oney Tapia nel 2017 e l’ex modella sfigurata con l’acido Gessica Notaro nel 2018. Questa scelta è adottata anche in altri Paesi: nel 2008, all’omonimo programma Usa Dancing with the Stars, ha concorso l’attrice sordomuta premio Oscar Marlee Matlin e, nel 2014, Amy Purdy, una snowboarder paralimpica con protesi in titanio. Due anni dopo, vince la 22° edizione Nyle Di Marco, modello e attore sordo. Nel 2020 al Norwegian Dancing With the Stars ha partecipato per la prima volta una concorrente in carrozzina: Birgit Skarstein, campionessa paralimpica di canottaggio e scii. L’originale inglese ha ospitato nel 2017 Jonnie Peacock, corridore amputato che aveva strappato a Pistorius l’oro nei 100 metri alle Paralimpiadi di Londra, e Lauren Steadman, nata con il braccio destro incompleto e vincitrice di una medaglia d’argento nel paratriathlon a Rio.

In Italia, la trasmissione ha acceso i riflettori anche su altre diversità e fragilità, come l’obesità di Platinette, concorrente nel 2016, e il tumore della presidente di giuria Carolyn Smith: nel momento in cui si è tolta il turbante mostrandosi senza capelli, l’ovazione del pubblico è stata inevitabile. In totale, tra concorrenti, giurati e ospiti, dal 2012 al 2019 almeno una dozzina di personaggi con disabilità di generi diversi sono apparsi in trasmissione.

Alcuni giudizi sono positivi senza riserve. Secondo una recensione de “La Stampa”, Ballando con le Stelle sta dimostrando la capacità di affrontare tematiche scottanti riguardo la malattia, la disabilità ed i problemi sociali;

[…] Dopo la fantastica Giusy Versace, che ha vinto l’edizione 2014, quest’anno tra i partecipanti c’è anche l’atleta paralimpica Nicole Orlando e con lei la condizione della sindrome di Down è diventata finalmente visibile in modo positivo e vitale, come ci aspettavamo. Nella giuria, invece, la bella e sensibile Carolyn Smith è presente senza nascondere di essere alle prese con la chemioterapia. La simpatica Platinette, a suo modo, ha fatto sentire meno sole le persone insovrap peso parlando della sua operazione gastrica e degli sforzi per seguire un’alimentazione sana. Insomma, mi verrebbe da dire in maniera un po’ infantile ed entusiastica “Viva Ballando con le Stelle!”, sperando che l’impegno nei confronti della disabilità e dell’inclusione sociale venga seguito anche da altre trasmissioni televisive.

Altre valutazioni sono ovviamente più perplesse. Come abbiamo già detto, è difficile mettere sulla bilancia vantaggi e svantaggi di simili scelte mediatiche, ma certamente il dibattito in merito è preferibile alla disattenzione verso le disabilità, che in passato connotava spesso il mainstream. Certo è doveroso riflettere sulla qualità dei messaggi, puntare a una comunicazione che non sia meramente inclusiva, ma anche innovativa. E comunque l’enfasi della competizione può legittimamente essere giudicata eccessiva, ma rende il protagonista disabile soggetto alla stessa dinamica competitiva degli altri personaggi.

Il discorso potrebbe poi essere allargato ad altre competizioni nelle quali l’assegnazione della vittoria sembra condizionata dalla “diversità”, più che dai meriti. La scozzese Susan Magdalane Boyle, che conquista il secondo posto e raggiunge la fama internazionale nella trasmissione Britain’s Got Talent, ha difficoltà di apprendimento e di socializzazione dovute a un’asfissia neonatale. In Italia, il balbuziente Edson D’Alessandro vince Tu sì que vales. Il transgender austriaco Thomas Neuwirth, conosciuto con lo pseudonimo di Conchita Wurst, conquista l’Eurovision 2014sul cui palco si presenta come “donna barbuta”.

Sentenze “politicamente corrette”? Diversità sfruttate come investimento in termini di audience e
risonanza mediatica, anziché come costo sociale, quali sono generalmente considerate?

Quesiti evidentemente irrisolvibili.

[…]


Anche al Festival di Sanremo, vetrina mediatica senza pari nel mercato musicale e di costume italiano, i numeri non mancano. Negli ultimi 10anni c’è stato sempre almeno un concorrente o un ospite con disabilità,da Simona Atzori a Bocelli e Bosso. Di fronte alla continuità dell’innovazione impressa dai media, polemiche ed eventuali errori possono essere tutto sommato accettati.

Durante l’edizione 2021 è stato invitato a Sanremo Donato Grande, campione di powerchair football (calcio su sedia a rotelle) assieme a Zlatan Ibrahimovic. Claudio Arrigoni si è sul “Corriere della sera” ha acceso un dibattito attorno al diverso trattamento riservato dal conduttore Amadeus ai due sportivi:
Chiariamo: è stato importante che quell’intervento ci sia stato e Donato fosse presente. Una grande occasione per mostrare che lo sport può essere praticato in qualunque condizione. […] L’analisi però non deve e non può fermarsi qui. Perché non è accettabile che un professionista della comunicazione come Amadeus utilizzi ancora termini come “portatore di handicap” o espressioni come “soffre di disabilità” davanti a milioni di persone. O che legga quattro frasi su non parcheggiare senza permesso sui posteggi
dedicati a chi ha una disabilità, usando quella distanza fra “noi” e “loro”, i “fortunati” che non ne hanno bisogno e i “poverini” che li devono usare. È apparso, ma questa è magari solo un’impressione, che Ibra fosse il campione e Grande un suo tifoso, mentre su quel palco i campioni erano due e sarebbe stato bello far percepire meglio questo aspetto.

Dalla 70esima edizione la kermesse canora ha però impresso davvero una svolta inclusiva. Come accennato prima, per la prima volta le cinque le serate sono state interamente trasmesse in Lis su un canale dedicato di RaiPlay e tutti i brani sono stati interpretati in Lis da 15 performer selezionati da Rai Casting. Per le persone cieche e ipovedenti è stata messa adisposizione un’audio-descrizione. L’impegno della Rai per il progetto “Virtual Lis”, che permette la generazione di contenuti nella lingua dei segni mediante la computer grafica, è stato riconosciuto con la vittoria alla quarta edizione del Diversity Brand Summit. Oltre ai movimenti delle dita e delle mani, è stata posta grande attenzione anche alle espressioni
facciali, elemento fondamentale poiché conferiscono espressività alla comunicazione. Partendo dagli studi sulle soglie di wpm (words per minute) associate a livelli di comprensibilità diversi, è stata invece ideata Stretch Tv, una soluzione tecnologica che consente di rallentare i programmi televisivi per migliorarne la comprensione da parte di persone disabili e anziane. Un lavoro che così spiega il responsabile Campagne sociali Rai, Roberto Natale: “Il servizio pubblico esiste per fare coesione sociale […] e la Rai può davvero provare a incidere sulla mentalità corrente. Come è accaduto con le Paralimpiadi, alle cui ultime edizioni ha dedicato la stessa attenzione qualitativa e quantitativa che ha riservato alle Olimpiadi. Perfino i telecronisti
erano gli stessi. Sono occasioni in cui tocchi con mano quanto la tv generalista possa cambiare nel profondo il senso comune di un Paese. Per non dire della forza emotiva della fiction che, con le sue invenzioni narrative, può aiutare il pubblico a superare le proprie barriere culturali
“.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni

Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali

Oliver Sacks presenta sette persone diverse, con le loro peculiarità, il loro vissuto e le straordinarie abilità sviluppate da ciò che per i più è una menomazione. Non casi, ma singoli individui da cui imparare ancora il potenziale creativo derivato dalla patologia.

 

Egli sapeva dire il colore di ogni cosa con una straordinaria precisione (era in grado di indicare non solo il nome del colore, ma anche il numero con il quale era riportato in un catalogo Pantone che aveva usato per anni). E così riusciva a identificare senza esitazione il verde del tavolo da bigliardo di van Gogh. Il signor I. sapeva quali fossero i colori di tutte le sue pitture preferite, ma non poteva più vederli, né con gli occhi, né con la mente: probabilmente la sua conoscenza del colore si fondava ora esclusivamente sulla memoria verbale. […]

In seguito, egli affermò che né «grigio» né «plumbeo» trasmettevano, sia pur lontanamente, le reali sembianze del suo mondo. Ciò che egli percepiva non era il solito «grigio»: si trattava di altre qualità percettive che non hanno equivalenti nell’esperienza e nel linguaggio ordinari. […]

Il signor I. non rappresentava solo un caso relativamente puro di acromatopsia cerebrale (quasi non contaminato da altri difetti nella percezione della forma, del movimento o della profondità), ma era anche un testimone esperto dotato di un’intelligenza superiore, capace di disegnare e di riferire quel che vedeva. […]

 

Quando lo videro, furono travolti dall’orrore: il loro ragazzo, che ricordavano snello e con i capelli lunghi, era diventato grasso e calvo; aveva stampato sul volto un perenne sorriso «ebete» (questo fu almeno il termine usato dal padre per descriverlo); continuava a borbottare brevi frammenti di canzoni o di versi, o commenti «idioti», mostrando ben poche emozioni profonde («come se fosse stato svuotato, senza più niente dentro» disse il padre); aveva perso interesse per gli eventi del presente; era disorientato – e completamente cieco. […]

Greg fu ricoverato in ospedale, visitato e trasferito in neurochirurgia. Gli esami avevano evidenziato un enorme tumore in posizione mediana, che stava distruggendo l’ipofisi, il chiasma e i tratti ottici e andava estendendosi in tutte le direzioni, verso i lobi frontali, i lobi temporali e il diencefalo. In sede chirurgica si scoprì che il tumore era un meningioma di natura benigna, che però era cresciuto fino ad avere le dimensioni di un piccolo pompelmo o di un’arancia; sebbene i chirurghi fossero riusciti a rimuoverlo quasi del tutto, non poterono cancellare il danno che esso aveva già arrecato. […]

Per me, questo aspetto della cecità di Greg, la sua singolare inconsapevolezza della propria condizione, il suo non sapere più il significato di parole come «vedere» o «guardare», erano fonte di grande perplessità. Tutto questo sembrava indicare la presenza di qualcosa di più strano e più complesso di un semplice «deficit»; sembrava piuttosto testimoniare una qualche alterazione radicale della struttura stessa della conoscenza, della coscienza e dell’identità. […]

I lobi frontali sono la parte più complessa del cervello; essi infatti non sono interessati alle funzioni «inferiori» del movimento e della sensazione, ma a quelle superiori di integrazione complessiva del giudizio e del comportamento, dell’immaginazione e dell’emozione; in altre parole, alla formazione di quell’identità unica che siamo soliti chiamare «personalità» o «sé». […]

 

Incontrai per la prima volta il dottor Carl Bennett a una conferenza scientifica sulla sindrome di Tourette che si teneva a Boston. Il suo aspetto era impeccabile: sulla cinquantina, di corporatura media, con barba e baffi appena brizzolati, sobriamente vestito con un abito scuro; impeccabile, sì, finché d’improvviso non si lanciava in un affondo, si allungava a toccare il pavimento o cominciava a sobbalzare e a saltellare. Fui colpito sia dai suoi tic bizzarri, sia dalla sua calma dignitosa. Quando espressi la mia incredulità sulla professione che aveva scelto, Bennett mi invitò ad andarlo a trovare e a trattenermi un po’ da lui, a Brànford, nella Columbia Britannica, dove egli viveva ed esercitava; così avrei potuto seguirlo nei giri di visite e in sala operatoria, l’avrei visto in azione. […]

 

Ma quando Virgil aprì il suo occhio dopo essere stato cieco per quarantacinque anni, e avendo alle spalle quasi soltanto l’esperienza visiva di un bambino di pochi mesi (peraltro ormai da tempo dimenticata), non c’erano ricordi visivi che potessero sostenere la sua percezione; non c’era alcun mondo di esperienza e significato ad attenderlo. Virgil vedeva, ma ciò che vedeva non aveva coerenza alcuna. La sua rètina e il suo nervo ottico erano attivi, trasmettevano impulsi, ma il suo cervello non riusciva a comprenderli; come dicono i neurologi, Virgil era agnosico. […]

Il comportamento di Virgil non era certo quello di un vedente, e tuttavia non era più nemmeno quello di un cieco. […]

 

Proprio mentre doveva prendere la tormentosa decisione, Franco fu colpito da una strana malattia, che infine lo portò al ricovero in un sanatorio. Ancora oggi, è tutt’altro che chiaro di quale malattia si trattasse. Certo ci fu la crisi della decisione, accompagnata da speranza e paura; ma ci furono anche febbre alta, delirio, dimagrimento e forse convulsioni; fu fatta l’ipotesi che Franco soffrisse di una tubercolosi, o di una psicosi, o di qualche disturbo neurologico. Ma nessuno comprese mai davvero che cosa fosse accaduto, e la natura della patologia rimane tuttora un mistero. Quel che è certo, comunque, è che al culmine della malattia, con il cervello forse stimolato dall’agitazione e dalla febbre, Franco cominciò ad avere, ogni notte e per tutta la notte, sogni straordinariamente realistici. […]

Per quanto dotato di una grandissima immaginazione, Franco non aveva mai avuto prima di allora visioni di tale intensità – immagini sospese in aria come apparizioni che gli promettevano una «riappropriazione» di Pontito. Ora esse sembravano dirgli: «Dipingici. Rendici reali». […]

 

Oggi è chiaro che la condizione patologica che chiamiamo autismo è sempre esistita e, pur essendo poco frequente, ha mietuto le sue vittime in tutte le epoche e le culture, suscitando sempre nella mente popolare un’attenzione ora divertita, ora timorosa o perplessa (e forse anche generando archetipi e personaggi mitici: quello dell’individuo strano e diverso, del bambino portato dalle fate, o di quello stregato da un incantesimo). […]

In quella via, dunque, ci imbattemmo in un’auto la cui targa si leggeva «autism» (c’era una probabilità su un milione, che potesse capitare). La indicai a Stephen: «Che cosa c’è scritto?».

Faticosamente, Stephen lesse una lettera alla volta: «A-U- T-I-S-M-2».

«Sì,» lo incoraggiai «e si legge…?».
«U… U… Utism» balbettò.
«Quasi, ma non proprio. Non “utism”: autism. Che cos’è l’autismo?».
«È quello che c’è sulla targa di quell’auto» rispose, e non si andò oltre. […]

 

È strano, ma moltissime persone, quando parlano di autismo, si riferiscono solo ai bambini e mai agli adulti, come se a un certo punto – non si sa come – i bambini sparissero dalla faccia della terra. Ma se è vero che all’età di due o tre anni l’autismo può comportare un quadro devastante, è anche vero che alcuni ragazzini autistici, contrariamente alle aspettative, riescono pian piano ad acquisire discrete capacità di linguaggio e qualche abilità sociale, perfino a conseguire apprezzabili risultati intellettuali; possono, insomma, diventare esseri umani autonomi, capaci di una vita almeno in apparenza piena e normale (anche se sotto la superficie può persistere un’individualità autistica profonda). […]

Temple mi disse che riusciva a comprendere le emozioni «semplici, forti, universali», ma che era sconcertata da quelle più complesse o simulate. «Molto spesso» mi confidò «mi sento come un antropologo su Marte».

 

Oliver Sacks

 

Oliver Sacks, “Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali”, Adelphi Edizioni, Milano, 1995.

https://www.adelphi.it/libro/9788845911453

Una sincera, spudorata storia di sla

La cruda e realistica autobiografia di una malata di sla: “L’ultima estate” è un’opera a metà tra diario e letteratura, una collezione di fatti, persone e pensieri raccontati con spudorata sincerità.

Il caso editoriale del 2008 è stato quello di Paolo Giordano con ‘La solitudine dei numeri primi’, quello di quest’anno, Cesarina Vighy de ‘L’ultima estate’: due esordienti. Un fattore comune non infrequente, si pensi a come torni anche in ‘Mille anni che sto qui’ di Mariolina Venezia e per la Benedetta Cibrario di ‘Rossovermiglio’. È chiaro che le opere prime conservano una freschezza letteraria che gli ‘scrittori di professione’ facilmente perdono, preferendo (loro o gli editori) riciclare i cliché rivelatisi vincenti. Ed ecco dunque l’incetta di premi: il quartetto citato ha fatto strage di Campiello e Strega.

Ma il caso della Vighy ha una particolarità, curiosamente opposta a quella di Giordano: ad un giovanissimo è infatti succeduta una signora over 70. Le due ‘rivelazioni’ sono agli antipodi non solo per l’anagrafe: all’aitante ricercatore che ha dimostrato grande equilibrio, anche nel gestire l’immediato ed eclatante risultato, si contrappone una malata di sla, cui proprio l’approssimarsi della fine ha impresso la spinta risolutiva per darsi alla letteratura; a un romanzo nel quale la malattia (psichica) dei protagonisti viene trattata con estrema freddezza (è questo l’aspetto che ha talvolta respinto i lettori de ‘La solitudine dei numeri primi’), fa pendant la scelta della Vighy redigere una cruda e realistica autobiografia partendo dalla situazione di paziente irrecuperabile.

Quest’ultimo aspetto, però, è prevalso eccessivamente nelle interpretazioni di molti critici e commentatori. ‘L’ultima estate’ non è uno dei tanti ‘diari’ di malati che ormai si stipano nelle proposte editoriali (un genere nel quale gli affetti da sla sono particolarmente presenti). È vero che il rapporto con le progressive difficoltà fisiche e con le cure tornano spesso nelle pagine e riempiono quelle finali, ma la cifra del libro sta più in generale nella sua spudorata sincerità, possiamo dire semmai che l’età e le cattive condizioni rendono l’autrice efficacemente disinibita.

Agghiacciante, ad esempio, la rievocazione della “visita alle faiseuses d’anges”, l’aborto giovanile che viene così descritto: “Pallida, seduta ingloriosamente sul bidè, non sembravo certo una regina” (e omettiamo la macabra espulsione del feto). Con lo stesso tono, la Vighy collaziona fatti e persone non memorabili – “Cleopatro Colabianchi, l’unico uomo al mondo che portasse questo nome” – ricorrendo a qualche insistita civetteria letteraria: “spencolandomi tra i banchi alla ricerca della mia preziosa matita col gommino”. Il rischio della banalità, insomma, non sempre viene evitato: “E’ così che, nelle famiglie, si diventa prigionieri uno dell’altro, legati in una rete robustissima che non sai se fatta più d’amore o di odio”; “continuavo a piangere: non per il dolore che non c’era più, ma per la perdita, il lutto”.

Una lettura piacevole, ma non di più, grazie soprattutto alla sua trasversalità di genere. Solo, non si capisce l’illuminazione di cui questo libro ha goduto rispetto ad altri, contemporanei, connotati dalla medesima capacità di intersecare dato biografico e letterario. Ad esempio il piacevolissimo ‘Mondo privato e altre storie’ di Marta Dassù (Bollati Boringhieri, pp. 149, 10 euro): un “taccuino poco diplomatico” “scritto per insonnia” da una esperta di relazioni internazionali, insieme diario rivolto a un ipotetico “dottore” e anamnesi della complicata evoluzione identitaria della sinistra italiana.

Marco Ferrazzoli

Cesarina Vighy, “L’ultima estate” (Fazi, 2009)

Il libro sul sito di Fazi Editore