“Il panico quotidiano” di Christian Frascella (Einaudi) si presenta come un vero e proprio diario di un malato, sin dall’incipit: “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”. Ne ‘La fabbrica del panico’ Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con semplicità, i suoi due spunti letterari, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. Tra i precedenti che vengono richiamati alla mente, Paolo Volponi
Si presenta come un vero e proprio diario di un malato più che come un romanzo, ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella (Einaudi). Sin dall’incipit, “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”, fino al finale, uno dei punti più sinceri e sorprendenti del libro.
Nel mezzo, la narrazione lineare e cronologica di un’esistenza segnata da una ‘media’ ma profonda insoddisfazione: per le ambizioni di scrittore fino ad allora frustrate; per il lavoro alla catena di montaggio, in un settore industriale come l’indotto dell’auto piemontese, che nel corso degli anni descritti conosce una grave crisi; per una famiglia d’origine divisa da contrasti profondi quanto inespressi, soprattutto per una serie di relazioni amicali e per un rapporto d’amore che proprio le crisi di panico metteranno in luce nella loro superficialità.
La parte più efficace del libro è quella che descrive – man mano che la malattia avanza – la sensazione di progressivo abbandono, la distanza che si crea con le persone più care, l’impossibilità di condividere un dolore tanto profondo, personale e particolare. Come nel confronto illuminante con l’amico del cuore: “Preoccupato? Io al momento non lo ero. Ma mi resi conto che lui si lo era. E capii che non era preoccupato per me. Era preoccupato per sé. Per se stesso, che ora doveva interagire con un tizio che non ci stava più di tanto con la testa. Fu la prima volta che ebbi a che fare con quella sensazione. Dopo di allora mi è capitato di continuo”.
Del resto, l’ineffabilità delle crisi è reale e il libro stesso si limita, nel descriverle, a espressioni che non riescono a renderne nemmeno una pallida idea: “attacchi feroci, continui”, “non ci sono parole per raccontare agli altri”, “Oddio pensai. Non un’altra volta, non davanti a tutti. Oddio. E più pensavo così più la paura risaliva”.
Analoghe incomprensioni e incertezze, peraltro, il protagonista le incontra tra affidamenti speranzosi, disillusioni e auto prescrizioni, anche a livello sanitario, sperimentando randomicamente, il medico di base, vari psicofarmaci, un Centro di salute mentale, fino a incontrare uno psichiatra ospedaliero che gli farà comprendere, ma ci vorranno anni, come il panico si possa controllare e ci si possa convivere, senza però l’illusione di “guarire”. Un aiuto importante, anche se sporadico, gli arriverà invece dal rapporto stretto con un anziano operaio malato, Tonino Mascia detto “Sissignuri”.
A indebolire il testo è la sciatteria lambita sia nel plot sia soprattutto nello stile, infarcito di espressioni che paiono tratte dalle “emozioni adolescenziali” oggetto delle precedenti opere di Frascella. “Signore, pensai sui gradini della chiesa, non ci frequentiamo più molto ma ci conosciamo da tanto”, “con la passione dov’era andata a finire? Dove se ne va il desiderio quando poi se ne va?”, “Nasconderle le cose? E come avrei potuto fare altrimenti? Non facevamo che nascondercele le cose. Non parlavamo mai, almeno non di noi”. L’editore definisce però ‘Il panico quotidiano’ una prova di “maturità” dell’autore.
Ne “La fabbrica del panico” Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con una semplicità encomiabile, due spunti letterari che hanno dato seguito a filoni cospicui, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. I precedenti che vengono richiamati alla mente sono diversi, oltre a Paolo Volponi che viene esplicitamente richiamato nella nota editoriale: da ‘Acciaio’ di Silvia Avallone a ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella. Il protagonista racconta in modo asciutto, quasi cronachistico, lasciando ai fatti il compito di sgomentare il lettore, la realtà dei “morti d’amianto” attraverso la vicenda del padre operaio e pittore: “La pittura non esisteva senza la fabbrica, la fabbrica non esisteva senza la pittura. Se non fosse stato per la fabbrica non avrebbe avuto la necessità di evadere nella pittura. Se non fosse stato per la pittura, non avrebbe avuto la necessità di guadagnarsi da vivere in fabbrica. Invece di morire ogni giorno dentro quello stabilimento, sarebbe potuto tornare in montagna nei boschi a raccogliere funghi, a coltivare l’orto”.
La morte arriva qualche giorno dopo l’inizio della chemioterapia e dopo anni di un lavoro con cui l’uomo “guadagnava appena il necessario a non morire di fame. Non di più, non di meno” e per il quale “faceva cose che non avrebbe mai fatto in vita sua. Obbediva a ordini a cui non avrebbe mai obbedito”. La fabbrica è, per l’operaio assunto quale simbolo, la causa di un malessere mortale, fatto di “crisi d’ansia… una colite ulcerosa… stanchezza e inappetenza”, che il cronometrista e il caposquadra catalogano “traducendolo in numeri”. Un Fantozzi davvero tragico, che ritiene legittimo perdere o non avere quella salute che non considera un proprio diritto.
Tra il padre e il figlio, che ne eredita le crisi di panico, si interpone però la coscienza sindacale di Cesare, delle riunioni, del “Comitato”, delle manifestazioni, come quella in cui vengono lanciate “decine di palloncini colorati. Ogni palloncino porta il nome di un compagno di lavoro morto”. Nonostante l’ingenuità e la parzialità ideologica di questa coscienza, che si muove sulle note dell’Internazionale e di ‘Bandiera rossa’, non si può non rileggerne la storia con un moto di paradossale rimpianto, accentuato dalla constatazione che la conflittualità della fabbrica contro proprietà e dirigenza, la drammaticità delle sue storie di infortuni, mutilazioni volontarie, “movimenti uguali senza sosta” e tempi di lavoro insostenibili, appaiono quasi un lusso rispetto al nulla occupazionale e civile dello scenario odierno.
In mezzo, tra ieri e oggi, c’è il solco inaccettabile dell’amianto omicida, anzi stragista, delle morti “a catena” – “Cento operai su cento soffrono di disturbi alle prime vie respiratorie… Sessanta operai su cento soffrono d’ansia… Ventidue operai su cento soffrono di silicosi” – della teoria terribile di diagnosi cliniche, dall’asbestosi al carcinoma bilaterale ai polmoni, delle vertenze e delle sentenze.
Il romanzo, conclude l’autore, “deve essere pertanto inteso come un’opera di fantasia basata su fatti realmente accaduti”.
Marco Ferrazzoli
Stefano Valenti, “La fabbrica del panico”, La Feltrinelli (2013)
Christian Frascella, “Il panico quotidiano”, Einaudi (2013)
Fonti:
– Almanacco CNR – Diario di una malattia ineffabile
– Almanacco CNR – Il tragico “Fantozzi” delle morti d’amianto
– Treccani: Volponi, Paolo
– Fondazione Bo, per la letteratura europea moderna e contemporanea – Paolo Volponi
– “Urbino, i nostri ieri” di Paolo Volponi (Fondazione Bo) (pdf)
– Il Nudo e il complesso edipico in Corporale di Paolo Volponi (word)