L’Idiota

Dopo aver ucciso Nastas’ja, Rogožin si trova in compagnia del principe Myškin. In questo brano l’omicida si incammina sulla strada del delirio.

Il principe sobbalzò sulla sedia in preda a un nuovo terrore. Quando Rogožin tacque di nuovo e di colpo, il principe si chinò in silenzio verso di lui, gli si sedette accanto e col cuore in tumulto e il respiro affannoso prese a scrutarlo. Rogožin non si voltava, sembrava addirittura che si fosse dimenticato di lui. Il principe lo guardava in attesa. Il tempo passava, cominciava ad albeggiare. Rogožin di tanto in tanto si metteva a borbottare forte, bruscamente, gridava, rideva. Il principe allora tendeva la mano tremante verso di lui e gli accarezzava la testa, i capelli, le guance… più di quello non poteva fare! Incominciò di nuovo a tremare forte e gli sembrò che la forza abbandonasse di nuovo le gambe. Una sensazione completamente nuova gli tormentava il cuore con un’angoscia infinita. Frattanto si era fatto giorno. Si allungò sul cuscino, privo di forze ormai, disperato, avvicinò il suo viso a quello pallido e immobile di Rogožin. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi e bagnavano le guance di Rogožin, ma forse allora non era più cosciente delle sue lacrime e non ne sapeva nulla… Ad ogni modo, quando, dopo molte ore, la porta fu aperta e entrò la gente, l’assassino fu trovato completamente privo di conoscenza e in delirio. Il principe era seduto immobile accanto a lui e, ogni volta che il malato gridava o delirava, si affrettava a passargli la mano tremante fra i capelli e sulle guance, per calmarlo con le carezze. Ma non comprendeva più nulla di quanto gli veniva chiesto, non riconosceva la gente che lo circondava e se Schneider in persona fosse giunto dalla Svizzera per visitare l’allievo e paziente d’un tempo, anch’egli, ricordando lo stato in cui il principe a volte si trovava durante il primo anno della sua cura in Svizzera, avrebbe fatto un gesto di scoraggiamento e avrebbe detto come allora:
«Idiota!».

Fëdor Dostoevskij

Fonte: http://www.writingshome.com/ebook_files/221.pdf

Anoressia e bulimia, mali dell’anima

I Disturbi del comportamento alimentare (Dca) come anoressia e bulimia nervosa colpiscono, secondo dati Aidap (Associazione italiana disturbi dell’alimentazione edel peso), dai due ai tre milioni di italiani, di cui il 90% donne. « Il tema è presente anche in letteratura. Nel romanzo “Il cavaliere inesistente” di Italo Calvino, Agilulfo, il valoroso combattente del re Carlomagno, è infatti senza corpo », spiega Franco Bonaguidi dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa. « Quando un giorno il re passa in rassegna le truppe, Agilulfo tiene con la visiera dell’elmo abbassata senza mostrare il volto al re, spiegando: ‘Perché non esisto’. Agilulfo vive il suo corpo come inesistente mentre il suo spirito abita nell’imperatore. Questa scissione aiuta a comprendere quello che può accadere nell’adolescenza quando il disagio sfocia in una situazione patologica »


C’è chi controlla in modo ossessivo il proprio peso, sminuzzando il cibo in pezzi sempre più piccoli e rifiutando alimenti ipercalorici. E chi, invece, si abbandona ad abbuffate ‘compulsive’, solitamente in solitudine e di nascosto, ricorrendo poi a vomito autoindotto, uso di lassativi o diuretici, per non accumulare chili in più. Entrambi gli atteggiamenti sono annoverati tra i Disturbi del comportamento alimentare (Dca) come anoressia e bulimia nervosa. Queste patologie psichiatriche complesse colpiscono, secondo dati Aidap (Associazione italiana disturbi dell’alimentazione edel peso). dai due ai tre milioni di italiani, di cui il 90% donne, anche se negli ultimi anni sono sempre più frequenti i casi di maschi anoressici, sia adolescenti sia di mezz’età.

“La comparsa dei Disturbi del comportamento alimentare è legata a un distorto rapporto con il cibo e il proprio corpo: per il quale il pasto diventa un campo di battaglia tra desideri e conflitti e tra sensazioni contrastanti”, spiega Franco Bonaguidi dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa, che continua a fornire cifre fornite dall’Aidap. “Ad ammalarsi sono soprattutto giovani (il 5% sono donne tra i 13 e i 35 anni), bambini (il 21% delle femmine, il 15% dei maschi tra gli 11 e i 17 anni) e adulti (il 20% con più di 35 anni). E, cosa ancor più drammatica, un adolescente su dieci non ce la fa a uscirne”.
L’anoressia è una malattia complessa in cui interagiscono fattori genetici, ambientali, sociali e psicologici, che si manifestano con l’ossessiva necessità di avere un corpo sempre più magro attraverso il digiuno. Un ideale di bellezza paradossale, che in realtà è una negazione del corpo e della sua autonomia.
“In alcuni casi, nell’adolescente anoressico si riattualizza un disturbo che si radica nei conflitti con la figura materna, dove le fantasie narcisistiche della genitrice invadono la vita del bambino, passando attraverso il controllo del corpo” chiarisce Bonaguidi. L’adolescente tratta e controlla il proprio corpo allo stesso modo in cui la madre ha trattato il suo nel passato”.

Chi soffre di questa visione distorta del corpo (dismorfofobia) vede difetti inesistenti o accentuati, fino a ricorrere alla chirurgia plastica o, nei casi più gravi, all’isolamento e al suicidio. In altri casi, il disturbo non è così radicato, ma fa parte della costellazione depressiva.
“Il tema è presente anche in letteratura. Nel romanzo ‘Il cavaliere inesistente’ di Italo Calvino, Agilulfo, il valoroso combattente del re Carlomagno, è infatti senza corpo”, continua lo psicologo del Cnr. “Quando un giorno il re passa in rassegna le truppe Agilulfo tiene con la visiera dell’elmo abbassata senza mostrare il volto al re, spiegando: ‘Perché non esisto’. Agilulfo vive il suo corpo come inesistente mentre il suo spirito abita nell’imperatore. Questa scissione aiuta a comprendere quello che può accadere nell’adolescenza quando il disagio sfocia in una situazione patologica: si avverte un sentimento di estraneità verso il fisico, frequente in questa età. L’adolescente, infatti, vive con conflitto i cambiamenti dell’organismo, la scoperta della sessualità, l’accesso all’età adulta, la privazione dell’onnipotenza infantile. Una trasformazione che può introdurre elementi di perdita e di angoscia”.

La malattia anoressica-bulimica esprime dunque un profondo malessere psichico che deve essere ascoltato e curato, fin dai suoi primi sintomi, in opportune sedi specialistiche. “In questa malattia la psiche sembra prendere la sua rivincita: l’immagine del corpo trasfigurato e negato della persona affetta da anoressia, diventa l’urlo di dolore, la raffigurazione del profondo e crescente disagio psicologico della nostra società”, conclude Bonaguidi.

Silvia Mattoni


Fonte: Almanacco CNR – Salute

Il panico di Frascella e Valenti

Il panico quotidiano” di Christian Frascella (Einaudi) si presenta come un vero e proprio diario di un malato, sin dall’incipit: “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”. Ne ‘La fabbrica del panico’ Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con semplicità, i suoi due spunti letterari, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. Tra i precedenti che vengono richiamati alla mente, Paolo Volponi


Si presenta come un vero e proprio diario di un malato più che come un romanzo, ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella (Einaudi). Sin dall’incipit, “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”, fino al finale, uno dei punti più sinceri e sorprendenti del libro.
Nel mezzo, la narrazione lineare e cronologica di un’esistenza segnata da una ‘media’ ma profonda insoddisfazione: per le ambizioni di scrittore fino ad allora frustrate; per il lavoro alla catena di montaggio, in un settore industriale come l’indotto dell’auto piemontese, che nel corso degli anni descritti conosce una grave crisi; per una famiglia d’origine divisa da contrasti profondi quanto inespressi, soprattutto per una serie di relazioni amicali e per un rapporto d’amore che proprio le crisi di panico metteranno in luce nella loro superficialità.
La parte più efficace del libro è quella che descrive – man mano che la malattia avanza – la sensazione di progressivo abbandono, la distanza che si crea con le persone più care, l’impossibilità di condividere un dolore tanto profondo, personale e particolare. Come nel confronto illuminante con l’amico del cuore: “Preoccupato? Io al momento non lo ero. Ma mi resi conto che lui si lo era. E capii che non era preoccupato per me. Era preoccupato per sé. Per se stesso, che ora doveva interagire con un tizio che non ci stava più di tanto con la testa. Fu la prima volta che ebbi a che fare con quella sensazione. Dopo di allora mi è capitato di continuo”.
Del resto, l’ineffabilità delle crisi è reale e il libro stesso si limita, nel descriverle, a espressioni che non riescono a renderne nemmeno una pallida idea: “attacchi feroci, continui”, “non ci sono parole per raccontare agli altri”, “Oddio pensai. Non un’altra volta, non davanti a tutti. Oddio. E più pensavo così più la paura risaliva”.
Analoghe incomprensioni e incertezze, peraltro, il protagonista le incontra tra affidamenti speranzosi, disillusioni e auto prescrizioni, anche a livello sanitario, sperimentando randomicamente, il medico di base, vari psicofarmaci, un Centro di salute mentale, fino a incontrare uno psichiatra ospedaliero che gli farà comprendere, ma ci vorranno anni, come il panico si possa controllare e ci si possa convivere, senza però l’illusione di “guarire”. Un aiuto importante, anche se sporadico, gli arriverà invece dal rapporto stretto con un anziano operaio malato, Tonino Mascia detto “Sissignuri”.
A indebolire il testo è la sciatteria lambita sia nel plot sia soprattutto nello stile, infarcito di espressioni che paiono tratte dalle “emozioni adolescenziali” oggetto delle precedenti opere di Frascella. “Signore, pensai sui gradini della chiesa, non ci frequentiamo più molto ma ci conosciamo da tanto”, “con la passione dov’era andata a finire? Dove se ne va il desiderio quando poi se ne va?”, “Nasconderle le cose? E come avrei potuto fare altrimenti? Non facevamo che nascondercele le cose. Non parlavamo mai, almeno non di noi”. L’editore definisce però ‘Il panico quotidiano’ una prova di “maturità” dell’autore.


Ne “La fabbrica del panico” Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con una semplicità encomiabile, due spunti letterari che hanno dato seguito a filoni cospicui, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. I precedenti che vengono richiamati alla mente sono diversi, oltre a Paolo Volponi che viene esplicitamente richiamato nella nota editoriale: da ‘Acciaio’ di Silvia Avallone a ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella. Il protagonista racconta in modo asciutto, quasi cronachistico, lasciando ai fatti il compito di sgomentare il lettore, la realtà dei “morti d’amianto” attraverso la vicenda del padre operaio e pittore: “La pittura non esisteva senza la fabbrica, la fabbrica non esisteva senza la pittura. Se non fosse stato per la fabbrica non avrebbe avuto la necessità di evadere nella pittura. Se non fosse stato per la pittura, non avrebbe avuto la necessità di guadagnarsi da vivere in fabbrica. Invece di morire ogni giorno dentro quello stabilimento, sarebbe potuto tornare in montagna nei boschi a raccogliere funghi, a coltivare l’orto”.
La morte arriva qualche giorno dopo l’inizio della chemioterapia e dopo anni di un lavoro con cui l’uomo “guadagnava appena il necessario a non morire di fame. Non di più, non di meno” e per il quale “faceva cose che non avrebbe mai fatto in vita sua. Obbediva a ordini a cui non avrebbe mai obbedito”. La fabbrica è, per l’operaio assunto quale simbolo, la causa di un malessere mortale, fatto di “crisi d’ansia… una colite ulcerosa… stanchezza e inappetenza”, che il cronometrista e il caposquadra catalogano “traducendolo in numeri”. Un Fantozzi davvero tragico, che ritiene legittimo perdere o non avere quella salute che non considera un proprio diritto.
Tra il padre e il figlio, che ne eredita le crisi di panico, si interpone però la coscienza sindacale di Cesare, delle riunioni, del “Comitato”, delle manifestazioni, come quella in cui vengono lanciate “decine di palloncini colorati. Ogni palloncino porta il nome di un compagno di lavoro morto”. Nonostante l’ingenuità e la parzialità ideologica di questa coscienza, che si muove sulle note dell’Internazionale e di ‘Bandiera rossa’, non si può non rileggerne la storia con un moto di paradossale rimpianto, accentuato dalla constatazione che la conflittualità della fabbrica contro proprietà e dirigenza, la drammaticità delle sue storie di infortuni, mutilazioni volontarie, “movimenti uguali senza sosta” e tempi di lavoro insostenibili, appaiono quasi un lusso rispetto al nulla occupazionale e civile dello scenario odierno.
In mezzo, tra ieri e oggi, c’è il solco inaccettabile dell’amianto omicida, anzi stragista, delle morti “a catena” – “Cento operai su cento soffrono di disturbi alle prime vie respiratorie… Sessanta operai su cento soffrono d’ansia… Ventidue operai su cento soffrono di silicosi” – della teoria terribile di diagnosi cliniche, dall’asbestosi al carcinoma bilaterale ai polmoni, delle vertenze e delle sentenze.
Il romanzo, conclude l’autore, “deve essere pertanto inteso come un’opera di fantasia basata su fatti realmente accaduti”.

Marco Ferrazzoli


Stefano Valenti, “La fabbrica del panico”, La Feltrinelli (2013)
Christian Frascella, “Il panico quotidiano”, Einaudi (2013)


Fonti:
Almanacco CNR – Diario di una malattia ineffabile
Almanacco CNR – Il tragico “Fantozzi” delle morti d’amianto


Treccani: Volponi, Paolo

Fondazione Bo, per la letteratura europea moderna e contemporanea – Paolo Volponi
“Urbino, i nostri ieri” di Paolo Volponi (Fondazione Bo) (pdf)

Il Nudo e il complesso edipico in Corporale di Paolo Volponi (word)


La poetica follia di Celestini

Ascanio Celestini è l’autore de “La pecora nera”. Lo potremmo definire un multimediale dedicato alla follia. Uno spettacolo culto che per anni è stato portato in tournée nei teatri di tutta Italia, un’edizione in Dvd, un libro, un taccuino, un film del 2010 scritto, diretto ed interpretato da  Celestini, con Giorgio Tirabassi e Maya Sansa. “La pecora nera” raccoglie frammenti di diario, racconti inediti e testimonianze: Nicola, con i suoi 35 anni di degenza in manicomio, mescola realtà e fantasia, comico e tragico; Adriano Pallotta è stato infermiere al Santa Maria della Pietà di Roma, uno tra i più grandi manicomi d’Europa; Alberto Paolini, entrato a quindici anni al Santa Maria della Pietà, ci è rimasto per quarantadue anni


Il manicomio è un condominio di santi. So’ santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex- voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo». Così ci racconta Nicola i suoi 35 anni di «manicomio elettrico», e nella sua testa scompaginata realtà e fantasia si scontrano producendo imprevedibili illuminazioni. Nicola è nato negli anni Sessanta, «i favolosi anni Sessanta», e il mondo che lui vede dentro l’istituto non è poi così diverso da quello che sta correndo là fuori – un mondo sempre più vorace, dove l’unica cosa che sembra non potersi consumare è la paura.
[…]
Raccolgo memorie di chi ha conosciuto il manicomio un po’ come facevano i geografi del passato. Questi antichi scienziati chiedevano ai marinai di raccontargli com’era fatta un’isola, chiedevano a un commerciante di spezie o di tappeti com’era una strada verso l’Oriente o attraverso l’Africa. Dai racconti che ascoltavano cercavano di disegnare delle carte geografiche. Ne venivano fuori carte che spesso erano inesatte, ma erano anche piene dello sguardo di chi i luoghi li aveva conosciuti attraversandoli. Così io ascolto le storie di chi ha viaggiato attraverso il manicomio non per costruire una storia oggettiva, ma per restituire la freschezza del racconto e l’imprecisione dello sguardo soggettivo, la meraviglia dell’immaginazione e la concretezza delle paure che accompagnano un viaggio.
[…]
Il manicomio è un condominio di santi. So’ santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo.


L’anoressia si vince con gli altri

Roma, una ragazza, una donna, un diario. L’incontro tra Domitilla e Lucia. Bastano questi elementi, alla giornalista scientifica Margherita De Bac, per costruire il suo ultimo romanzo “Per fortuna c’erano i pinoli”. Domitilla è una ragazza di 24 anni, riservata. Lucia è un’avvocata quarantenne. Il racconto svela a poco a poco il segreto di Domitilla: senza bisogno di nominarla, l’anoressia entra nel racconto pian piano


Roma, una ragazza, una donna, un diario. L’incontro tra Domitilla e Lucia. Bastano questi elementi, alla giornalista scientifica Margherita De Bac, per costruire il suo ultimo romanzo “Per fortuna c’erano i pinoli”.

Domitilla è una ragazza di 24 anni, riservata, dal carattere “legnoso”, una di quelle persone che “non sono gradite alla massa… perché vanno comprese e la comprensione non è una qualità comune”. Per questo ha pochi amici e preferibilmente adulti, che “sanno ascoltare”. Lucia è un avvocato quarantenne, una divorzista che ama scrutare la vita degli altri e ascoltarli, perché “a volte gli individui compiono azioni sorprendenti senza rendersene conto”.
Il racconto svela a poco a poco il segreto di Domitilla: senza bisogno di nominarla, l’anoressia entra nel racconto pian piano, accompagnata da stralci di un diario a tratti ossessivo e a tratti disperato. Ci si potrebbe fermare qui, pensando di aver letto un libro che, prendendo a pretesto l’incontro tra due donne, racconta una tra le più insidiose malattie sociali: il disturbo del comportamento alimentare.
Ma Margherita De Bac non parla solo della malattia. Racconta anche del potere delle relazioni umane, come fossero l’altra faccia della patologia. Il disagio di Domitilla dipende dalla sua sensibilità e da un profondo senso di inadeguatezza, perché il suo “specchio sono gli altri” e l’approvazione degli altri “è un bisogno necessario”. È così che “l’eterna ricerca di conferme” condiziona i suoi rapporti. Innanzitutto quello con se stessa e con la sua disperata ricerca della normalità e dalla propria identità.
C’è poi il rapporto di Domitilla con Lucia, la donna adulta che aiuta la giovane protagonista a uscire dalla sua gabbia senza aver paura di essere giudicata. E ancora quello con Marco, due personalità diverse che finalmente si riconoscono. Stima, amicizia, amore.
Solo passando attraverso queste esperienze affettive, solo aprendosi al rapporto con gli altri la ragazza riesce a sciogliere il rapporto con sé e a controllare il suo disturbo senza averne più paura.

Monica Di Fiore


Margherita De Bac, “Per fortuna c’erano i pinoli”, Newton Compton (2014)


Fonte: Almanacco CNR


Newton Compton – Persona: Margherita De Bac

Corriere della Sera – L’incontro: Un libro contro l’anoressa di Margherita De Bac


Briciole. Storia di un’anoressia

Alessandra Arachi, nata a Roma nel 1964, giornalista al Corriere della Sera, con Feltrinelli ha
pubblicato: “Briciole. Storia di un’anoressia” (1994), da cui è stato tratto l’omonimo film per tv con la regia
di Ilaria Cirino (2004). Ne pubblichiamo un breve stralcio. Le altre sue opere sono: “Leoncavallo
blues” (1995), “Unico indizio: la normalità. L’Italia a sud dell’Italia” (1997), “Coriandoli nel deserto” (2012). Ha pubblicato inoltre “Non più briciole” (Longanesi 2015), “Lunatica. Storia di una mente bipolare” (Rizzoli, 2006) e il romanzo “E se incontrassi un uomo perbene?” (Sonzogno, 2007)


« Comincia con tre polpette al sugo questa storia. Tre polpette di carne di vitello vomitate nel bagno di casa con la porta spalancata. “Anoressia mentale”, sarebbe stata la diagnosi psichiatrica. Mio padre non avrebbe mai voluto crederlo.
[…]
Gambe lunghe, ma non magre. Non a sufficienza per me che soltanto scheletrica avrei potuto avere il
mondo ai miei piedi.
[…]
È difficile credere all’anoressia mentale. Chi la osserva da fuori non riesce a concepire che il cibo possa
diventare un nemico all’improvviso. Chi la vive non capisce più come sia possibile per le persone riuscire a
mangiare senza pensieri, senza ansia, senza angoscia.
[…]
E ho scoperto quanto è meravigliosa la vita quando al mattino apri gli occhi e riesci a vedere che fuori dalle finestre c’è la luce. E che è una luce chiara, limpida. Finalmente ho vinto. Ho vinto io. »


La Repubblica – Il dramma dell’ anoressia



Taras Bul’ba

Un koševoj dà utili consigli ai militari per gestire le ferite della guerra: si tratta di un utile prontuario e contemporaneamente di una testimonianza della medicina nei campi militari al tempo di Gogol.

«Ispezionate, ispezionate tutto per bene!», così diceva. «Riparate i carri e gli ingrassatori dei mozzi, provate le armi. Non prendete molto vestiario con voi: una camicia e due paia di brache per ogni cosacco e un vaso di farina d’avena e di miglio macinato – che nessuno ne abbia di più! Sui carri ci saranno tutte le provviste che occorrono. Che

ogni cosacco abbia un paio di cavalli. E che si prendano un duecento coppie di buoi, perché ai guadi e nei luoghi paludosi occorreranno i buoi. Ma soprattutto, panove, mantenete l’ordine. Io so che tra voi vi sono alcuni che, non appena Dio manda qualche bottino, subito si mettono a lacerar seta e preziosi broccati per farsene pezze da piedi. Smettete questa maledetta abitudine, gettate lontano ogni sorta di sottane, prendete soltanto le armi, se ne capitano di buone, e le monete d’oro o d’argento perché occupano poco posto e fanno comodo in ogni caso. E poi, panove, ve lo dico in anticipo: se qualcuno durante la campagna si ubriaca, per lui non ci sarà giudizio. Come un cane ordinerò che sia attaccato al carro per il collo, chiunque egli sia, foss’anche il cosacco più valoroso di tutto l’esercito. Sarà fucilato sul posto come un cane e sarà abbandonato senza sepoltura in pasto agli uccelli, perché chi si dà all’ubriachezza durante la campagna è indegno della sepoltura cristiana. Giovani, obbedite in tutto agli anziani! Se vi scalfisce una pallottola o se vi scuoiano la testa o qualcos’altro con la sciabola, non fate gran caso a ciò. Mescolate una carica di polvere in una tazza di sivucha, bevetela d’un fiato e vi passerà tutto, non vi verrà neppure la febbre; e sulla ferita, se non è troppo grande, metteteci semplicemente della terra, dopo averla impastata con la saliva nel palmo della mano, e la ferita si seccherà. Orsù, dunque, al lavoro, al lavoro, ragazzi, senza affrettarvi, mettetevi per benino al lavoro!».

Nikolaj Vasil’evič Gogol’

Fonte:


Questo e altro, in tavola rotonda

L’autore tedesco Enzensberger mostra una società che ha deciso di non usare gli occhi per vedere.

[…] essere vittoriosi

Diventa compito dei veggenti

Coloro che hanno un occhio solo

L’hanno preso su di sé

Conquistato il potere

E nominato re il cieco

Alle frontiere sbarrate stanno poliziotti che giocano a mosca cieca

Ogni tanto acchiappano un oculista 

Cui si dà la caccia

Per attività contro lo stato

Tutti i signori dirigenti portano

Un cerottino nero

Sopra l’occhio destro 

Negli uffici oggetti rivenuti ammuffiscono

Forniti dai cani per ciechi

Lenti e occhiali senza padrone.

Solerti giovani astronomi

Si fanno applicare occhi di vetro 

Lungimiranti genitori

Insegnano ai loro figli a tempo debito

L’arte progressista del guardare di sbieco

Il nemico introduce acqua borica a mercato nero

Per la congiuntiva dei suoi agenti

Ma i borghesi perbene non si fidano 

Per cautela delle condizioni

Dei loro occhi.

Hans Magnus Enzensberger

Enciclopedia Treccani online

Cosa ci insegna la solitudine (dei numeri primi)

Una ricercatrice del Dipartimento di scienze biomediche (Dsb) del Cnr, alla richiesta di identificare un romanzo in risonanza con la sua materia di studio, indica “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano. “Rileggendo qualche passaggio di questa bellissima storia che lessi anni fa, mi sono resa conto di come sia anche perfettamente in simbiosi con il momento particolarmente difficile e sofferente che stiamo vivendo a causa del Covid-19”


Quando mi è stato chiesto di identificare un testo che fosse in risonanza con la materia del Dipartimento di scienze biomediche (Dsb) del Cnr mi è venuto in mente il libro “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori) di Paolo Giordano e, rileggendo qualche passaggio di questa bellissima storia che lessi anni fa, mi sono resa conto di come sia anche perfettamente in simbiosi con il momento particolarmente difficile e sofferente che stiamo vivendo a causa del Covid-19.
Il libro, pubblicato nel 2008 dall’esordiente Paolo Giordano, ha ricevuto numerosi premi, tra cui lo Strega e il Campiello opera prima. La trama, orchestrata sui due fili paralleli delle vite dei due protagonisti, che con un primo colpo di scena si intrecciano quando Alice e Mattia incrociano i propri sguardi ancora al liceo, descrive l’esistenza dei due giovani torinesi, accompagnandoli dall’infanzia all’età matura. Alice è una bambina obbligata dal padre a frequentare la scuola di sci. E una mattina di nebbia fitta, persa nella nebbia, staccata dai compagni, se la fa addosso. Umiliata, cerca di scendere, ma finisce fuori pista spezzandosi una gamba. Rimane sulla neve credendo che morirà assiderata. Invece si salva, ma resterà zoppa e segnata per sempre.
Mattia è un bambino molto intelligente, ma ha una gemella, Michela, ritardata. La presenza di Michela umilia Mattia di fronte ai suoi compagni e, per questo, la prima volta che un compagno di classe li invita entrambi alla sua festa, Mattia abbandona Michela nel parco, con la promessa che lei lo aspetterà. Mattia non ritroverà più Michela. In quel parco, Michela si perde per sempre. Le vite di Alice e di Mattia, due esistenze segnate, si incroceranno. Diventeranno, Alice e Mattia, adolescenti, giovani, adulti. Continueranno a perdersi e ritrovarsi per finire con un’ennesima separazione, senza che riescano veramente a trovarsi e abbiano il coraggio di restare insieme.
La trama si dirama in un’alternanza esclusiva tra le storie dei due personaggi principali, parafrasi del rapporto fra Mattia e Alice, due “numeri primi” – a loro fa riferimento il titolo – per la loro unicità rispetto a tutti gli altri, ma anche “numeri primi gemelli”, che, come due numeri primi vicini ma divisi da un solo numero intero che si frappone tra loro, sono sostanzialmente simili ma non arrivano mai a toccarsi. Pertanto, in senso metaforico, i numeri primi rimandano alla solitudine, lo spazio tra l’io e il nulla è lo spazio della solitudine, quello che occupano i protagonisti di questo romanzo.
Sono due personaggi che non riescono a incontrarsi, due anime gemelle che si amano ma che non riescono a stare insieme. Questo romanzo tocca in questo modo tematiche molto importanti, come la solitudine insormontabile e le problematiche legate alla socialità, ma anche le difficoltà dei giovani moderni, dalla fuga all’estero per trovare lavoro all’anoressia e alla depressione. Il romanzo riflette in modo amaro sul mondo contemporaneo del benessere, in cui i giovani hanno tutto ciò che è materiale ma sono abbandonati alla loro solitudine.
I protagonisti, segnati da traumi che non riescono a superare, si rifugiano in sé stessi, autoescludendosi dal mondo. La solitudine è allora ciò che li accomuna ma che, per definizione, li allontana anche l’uno dall’altra.
È una lettura che segna il cuore, che riesce a trasportare nel baratro del silenzio e del dolore insieme ai protagonisti, che fa percepire l’oscurità della solitudine e del male di vivere. Un romanzo d’esordio estremamente maturo per la compiutezza del contenuto e per l’alta tensione emotiva sviluppata; un crescendo di sensazioni avviluppante l’anima del lettore, tra momenti di tenerezza, di tristezza e di speranza.
Il tema principale del romanzo riflette la tanta solitudine comparsa durante il confinamento da Covid-19: solitudini latenti ed emerse, solitudini dell’animo nonostante l’interconnessione virtuale con il mondo, solitudini degli anziani senza connessioni, solitudini delle città che rimbombano in un silenzio assordante, solitudine dei morenti… solitudine di chi non si è mai guardato dentro e non ha mai speso il proprio tempo immerso nella gioia della lettura. Ci si può augurare che questo tempo sia stato proficuo per far scoprire la lettura a chi non l’aveva mai considerata, rivelando che la libertà, le emozioni, le sensazioni, i colori, i viaggi, i profumi sono solo una piccola parte di quanto possa procurare la propria immaginazione durante la lettura di un bel libro, trasportando il lettore fuori di casa.

Elsa Fortuna


Libro: Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi”, Mondadori (2008)


Fonte: Almanacco CNR – Focus, consigli di lettura

Il bestseller di Paolo Giordano diventa film

Saverio Costanzo, alla sua terza prova da regista, si cimenta nell’impresa di portare su grande schermo “La solitudine dei numeri primi”. Il libro subisce nella trasposizione cinematografica inevitabili modifiche, peraltro condivise dall’autore, che ha collaborato alla sceneggiatura. Protagonisti del film sono Alice e Mattia, due giovani introversi e solitari. Mattia si ferisce per punirsi della morte della sorella, affetta da problemi psichici, che da bambino aveva abbandonato per partecipare a una festa. Alice è claudicante a causa di una caduta sugli sci, durante una discesa a cui era stata costretta dal padre


Saverio Costanzo, alla sua terza prova da regista, si cimenta nell’impresa di portare su grande schermo il bestseller di Paolo Giordano, ‘La solitudine dei numeri primi’. Vincitore del premio Strega 2008, il libro del fisico torinese subisce nella trasposizione cinematografica inevitabili modifiche, peraltro condivise dall’autore che ha collaborato alla sceneggiatura.
Protagonisti del film sono Alice e Mattia, due giovani resi introversi e solitari dalle vicende personali rivelate dai continui flashback. Mattia si ferisce per punirsi della morte della sorella, minorata mentale, che da bambino aveva abbandonato per partecipare a una festa. Alice è zoppa a causa di una caduta con gli sci, durante una discesa a cui l’aveva costretta il padre.
Per i due incontrarsi vuol dire sottrarsi all’isolamento, ma il legame si spezza quando il giovane, divenuto un brillante ricercatore, si trasferisce in Germania per lavoro. La separazione accentua i loro disagi portando Mattia all’obesità e Alice all’anoressia. “L’anoressia nervosa fa parte dei disturbi del comportamento alimentare (Dca)”, spiega Gianvincenzo Barba dell’Istituto di scienze dell’alimentazione (Isa) del Cnr di Avellino. “Semplificando, si può dire che in presenza di una predisposizione individuale su base genetica e/o biologica, ne possono scatenare la comparsa fattori psicologici o ambientali: una violenza, traumi familiari, difficoltà a essere accettati. L’adolescente deve allora ‘difendersi'”, prosegue l’esperto del Cnr, “e per mostrare di controllare la situazione concentra la propria attenzione sul corpo, piegandolo alla propria volontà come invece non riesce a fare per l’evento scatenante. Anche nei casi in cui il giovane si sottopone a una dieta eccessiva per adeguarsi a un canone estetico, alla base, esiste un disagio non riconosciuto”.

Quali sono i sintomi del disturbo e quali le conseguenze? “Dapprima si evitano tutti i cibi ritenuti grassi, preferendo alimenti ‘sani’, con attenzione ossessiva alle calorie e alla bilancia, fino a concentrare la propria vita totalmente sul cibo, con riduzione di interesse e entusiasmo verso le normali attività della vita”, spiega Barba. “Nelle ragazze in età fertile, all’aggravarsi dello stato di malnutrizione si associa l’amenorrea, ovvero la perdita del ciclo mestruale. La malnutrizione spinta comporta un rischio di vita, in particolare un danno cardiaco da ipopotassiemia (carenza di potassio). Nel lungo termine, gli effetti della pregressa malnutrizione sono danni a organi e tessuti, soprattutto all’apparato scheletrico. La diagnosi precoceè il presupposto per la guarigione, che passa per il contrasto delle abitudini errate, il recupero funzionale completo, la prevenzione delle recidive e la ricostituzione di un benessere psico-fisico che comunque risulta minato”.
Ricco di scenografie suggestive e con una fotografia curata, la pellicola mostra una regia matura, capace di risolvere con abilità situazioni narrative complesse. Bravi tutti gli attori, in particolare i due protagonisti nelle varie età: da adulti a Mattia dà corpo Luca Marinelli mentre Alice è Alba Rohrwacher.

Rita Bugliosi


Film: di Saverio Costanzo, “La solitudine dei numeri primi”, Medusa Film (2010)