I danni del Tabacco

Paradossalmente, quello antologizzato è uno dei pochi brani dedicati ai danni del tabacco nel monologo di Cechov. Nel resto dell’opera, infatti, il protagonista Njuchin parlerà del rapporto poco sano con la propria moglie.

Come argomento della mia conferenza odierna ho scelto,
per così dire, il danno che reca all’umanità l’uso del tabacco. Sono fumatore anch’io, ma mia
moglie mi ha ordinato di parlare oggi della nefasta influenza del tabacco, e quindi la cosa non si
discute. Del tabacco, e tabacco sia, per me è del tutto indifferente; a loro, gentili signori,
propongo di rapportarsi alla mia presente conferenza con la dovuta serietà, altrimenti non se ne
caverà nulla. Chi fosse spaventato da un’arida conferenza scientifica, chi non l’apprezzasse, può
non ascoltarla e uscire. (Si aggiusta il gilet).Chiedo particolare attenzione ai signori medici qui
presenti, che potranno trarre dalla mia conferenza molte indicazioni utili, visto che il tabacco,
oltre alle sue nefaste influenze, viene usato anche in medicina. Per esempio, se si chiudesse una
mosca in una tabacchiera, probabilmente creperebbe di esaurimento nervoso. Il tabacco è,
essenzialmente, una pianta… Quando tengo una conferenza, di solito ammicco con l’occhio
destro, ma loro non facciano caso; è l’emozione. Sono una persona molto nervosa, parlando in
generale, ma ad ammiccare ho cominciato nel 1889, il 13 settembre, lo stesso giorno in cui a
mia moglie nacque, in un certo senso, la nostra quarta figlia Varvara. Tutte le mie figlie sono
nate il 13 del mese.

Anton Cechov

Fonte: http://copioni.corrierespettacolo.it/wp-content/uploads/2016/12/CECHOV%20Anton__Sul%20danno%20del%20tabacco__null__U(1)__Monologo__1a.pdf

Zio Vanja

Vanja, guardandosi alle spalle, trova di essere deluso della sua vita: le speranze e le illusioni sono ormai cadute. Per questo motivo nel brano antologizzato tenta il suicidio.

ASTROV (grida adirato)
Smettila! (Addolcendosi).Quelli che vivranno cento, duecento anni dopo di noi, ci disprezzeranno perché abbiamo vissuto le nostre vite in modo così stupido e rozzo; quelli, forse, troveranno il modo per essere felici, ma noi… Tu ed io abbiamo un’unica speranza. La speranza che quando riposeremo nelle nostre tombe, vengano a visitarci visioni, magari piacevoli. (Sospirando).Sì, fratello. In tutto il distretto ci sono state soltanto due persone per bene e intelligenti: io e te. Ma nel giro di una decina di anni, la vita filistea, la vita spregevole ha avuto ragione di noi; con le sue putride esalazione ha avvelenato il nostro sangue, e noi siamo diventati volgari come tutti gli altri. (Vivacemente). Ma io non ci casco, comunque. Restituiscimi ciò che mi hai preso.
VOJNICKIJ
Non ti ho preso niente.
ASTROV
Mi hai preso dalla borsa delle medicine una fiala di morfina.
Pausa.
Ascolta, se tu, a qualunque condizione, hai deciso di farla finita, va’ nel bosco e sparati un colpo là. Rendimi la morfina, se no ci saranno chiacchiere, congetture, penseranno che sia stato io a dartela… Già dovrò farti l’autopsia… Pensi che sia interessante?
(Entra Sonja.)
VOJNICKIJ
Lasciami.
ASTROV (a Sonja)
Sof’ja Aleksandrovna, vostro zio ha sottratto dalla mia borsa una fiala di morfina e non la vuole restituire. Ditegli che non è cosa… intelligente, tutto sommato. E io non ho tempo. Devo partire.
SONJA
Zio Vanja, hai preso la morfina?
Pausa.
ASTROV
L’ha presa. Ne sono certo.
SONJA

Restituiscila. Perché ci vuoi spaventare? (Teneramente). Restituiscila, zio Vanja! Io, forse, non sono meno infelice di te, però non mi abbandono alla disperazione. Sopporto e sopporterò, finché la mia vita non finirà da sola… Sopporta anche tu.
Pausa.
Restituiscila! (Gli bacia le mani).Caro, dolce zio, buono, restituiscila (Piange). Sei buono, avrai pietà di noi e la restituirai. Sopporta, zio! Sopporta!
VOJNICKIJ (estrae da un cassetto del tavolo la fiala e la porge ad Astrov)
To’, prendi! (A Sonia). Bisogna lavorare al più presto, al più presto fare qualcosa, altrimenti non posso… non posso…

Anton Cechov

Robinson Crusoe

Robinson Crusoe a seguito di una pioggia particolarmente fredda contrae una forte febbre che lo porta al delirio.

18 giugno. Ha piovuto per tutto il giorno e sono rimasto in casa. Ho avuto la sensazione che la pioggia fosse  più fredda e ho provato qualche brivido, cosa che mi è parsa alquanto insolita a questa latitudine. 

19 giugno. Sono stato molto malato, con brividi continui, come se improvvisamente facesse molto freddo. 20 giugno. Non ho chiuso occhio per tutta la notte. Febbre e forte mal di testa. 

21 giugno. Sto molto male, e sono disperato e stravolto pensando che mi trovo nella pietosa condizione del  malato privo di qualsivoglia assistenza. Per la prima volta dopo la tempesta al largo di Hull sono tornato a pregare  Iddio, ma senza sapere quel che dicevo perché, essendo la mia mente oltremodo confusa. 

22 giugno. Un po’ meglio, ma la malattia continua a farmi una gran paura. 

23 giugno. Di nuovo molto male, con brividi di freddo e un terribile mal di testa. 

24 giugno. Molto meglio. 

25 giugno. Violentissimo attacco di febbre terzana. La crisi è durata sette ore, in un alternarsi di brividi di  freddo e calore, seguito da accessi di sudore e senso di vampate di sfinimento. 

26 giugno. Sto meglio. Ho dovuto imbracciare il fucile, sebbene mi senta molto debole, perché non ho nessuna  scorta di cibo. Ho ucciso una capra e con molta difficoltà l’ho trascinata a casa. Ne ho arrostito un pezzo e l’ho  mangiato. Avrei preferito lessarlo per farmi del brodo, ma non ho pentole. 

27 giugno. Nuovo attacco di febbre terzana, così forte che sono rimasto tutto il giorno a letto senza mangiare  né bere. Mi sembrava di morir di sete, ma ero così debole che non avevo la forza di reggermi in piedi o di prendermi un  po’ d’acqua da bere. Ho pregato di nuovo Iddio, ma non riuscivo a concentrarmi, e anche quando ci riuscivo nella mia  ignoranza non sapevo che cosa dire; me ne stavo disteso sul mio giaciglio esclamando: «Signore, proteggimi! Signore,  abbi pietà di me! Signore, misericordia!» Probabilmente è tutto quel che ho fatto per due o tre ore, finché l’accesso è  passato e mi sono addormentato, per non svegliarmi fino a tarda notte. Al risveglio, mi sono sentito molto ristorato, ma  debolissimo e tormentato dall’arsura; ma in casa non avevo un goccio d’acqua da bere, cosicché sono stato costretto ad  aspettare fino al mattino e mi sono rimesso a dormire. In questo secondo sonno ho fatto un sogno terribile. 

Mi sembrava di sedere per terra, fuori del mio recinto, proprio dove mi trovavo durante l’uragano che era  seguito al terremoto, e di vedere un uomo scendere da una nuvola nera, in una vampa fiammeggiante, e posarsi sulla  terra. Brillava in ogni sua parte come fosse stato di fuoco, tanto che a stento riuscivo a guardarlo. Il suo aspetto era  terrificante, né ci sono parole per descriverlo. E nel momento in cui posò i piedi sul terreno, mi parve che la terra  tremasse, proprio come aveva tremato durante il terremoto, mentre l’aria, con mio grande terrore, pareva riempirsi di  bagliori infuocati. 

Non appena ebbe toccato terra, mosse verso di me impugnando una lunga lancia, o un’arma consimile, per  uccidermi; poi, raggiunta una posizione elevata a una certa distanza da me, prese a parlare, o quantomeno udii una voce  così spaventosa ch’io non potrei mai esprimerne tutto l’orrore. Tutto quello che credo di aver capito sono queste parole:  «Visto che tutto quanto è accaduto non ti ha indotto al pentimento, ora morrai.» Dopo di che mi parve sollevasse la  lancia per uccidermi. 

Daniel Defoe

Fonte:

La psichiatria interroga la fenomenologia. Antichi problemi e nuove prospettive

Il contributo esplora la nascita della disciplina della psicopatologia, e il suo affermarsi come metodo per l’analisi della “complessità” dell’esperienza vissuta.

La psicopatologia fra scienze della natura e scienze dello spirito

Parlare del reale o supposto statuto scientifico o filosofico del pensiero psichiatrico significa, soprattutto, inserirsi profondamente nel dibattito attuale. Questo dibattito sulle condizioni di possibilità della psichiatria come scienza riguarda particolarissimamente i modelli di conoscenza proposti fino ad ora alla psichiatria, modelli costantemente in bilico, per dirla con Dilthey (1883); fra il paradigma delle Scienze della Natura e quello delle Scienze dello Spirito o, per riferirsi ad una dizione più aggiornata e pittoresca, in bilico fra scienze dure e scienze molli. Il nodo problematico che abbiamo indicato come titolo di questo paragrafo ci sembra ben riassunto dalla seguente citazione tratta dagli Studi newtoniani di Koyré (1968):

“…la scienza moderna abbatté le barriere tra cielo e terra, unificando l’universo. E questo è vero. Ma essa realizzò tale unificazione sostituendo al nostro mondo delle qualità e delle percezioni sensibili, un mondo che è il teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo: il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale, sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo. Così il mondo della scienza divenne estraneo e si differenziò profondamente da quello della vita, un mondo quest’ultimo che la scienza non era stata capace di spiegare……” (p. 23).

Queste parole riportano la questione ai due modelli di conoscenza originariamente dicotomici proposti da Dilthey e ripresi da Jaspers (1913): lo “spiegare” (Erklären) e il “comprendere” (Verstehen). Il primo riguarderebbe l’area delle “scienze della natura” (scienze fisico-matematiche, scienze biologiche, ecc.), l’altro l’area delle “scienze dello spirito” o scienze umanistiche (storia, psicologia, sociologia, antropologia, filosofia, psichiatria, ecc.).

È certamente la psicopatologia, come già segnalava Jaspers, una disciplina fra le più coinvolte circa l’uso delle due diverse strategie cognitive: 1) l’approccio rigidamente neutrale, alla ricerca delle cause oggettive e ultime del fenomeno (che orbita intorno al concetto di «spiegazione»); 2) l’approccio comprensivo (che il pensiero ermeneutico definirà, una volta per tutte, interpretativo), che teorizza la storicità, la provvisorietà, la soggettività e la finitezza di ogni progetto conoscitivo.

L’incertezza sullo statuto scientifico della psichiatria deriva dal suo collocarsi all’interno di alcuni nodi problematici irrisolti, o per meglio dire, in alcuni obbligati luoghi di transizione della scienza contemporanea. Per ricordarne alcuni: il rapporto mente/corpo in primis, poi gli intricati rapporti di connessione/disgiunzione fra biologia, scienze sociali, antropologia, filosofia ecc.

Questi nodi problematici definiscono diversi livelli di complessità, o prospettive su diversi livelli di complessità.

Una prospettiva storica sulle “trasformazioni” in psichiatria

La psichiatria italiana negli anni ’50, così come la si apprendeva negli ambiti accademici, era agganciata ad un contesto culturalmente povero, appiattito su modelli meccanicistici, banali e ipersemplificati. I testi attraverso i quali si pretendeva di entrare nel mondo complesso della patologia psichiatrica erano per di più “vulgate”, sintesi ipersemplificate della lezione kraepeliniana. Fra i testi consigliati basta citare un nome per tutti, il compendio di psichiatria del Gozzano, diffuso su larga scala in ambito accademico come unico testo didattico. Un testo, a ripensarlo, che finiva per scoraggiare chi, avvicinandosi alla psichiatria, sperava di affrontare in modo adeguatamente problematico le questioni psicopatologiche. I sintomi psichiatrici a connotazione psicotica venivano osservati sotto una luce esclusivamente comportamentale, privi del benché minimo tentativo di interpretazione della loro eco interiore, del loro vissuto antropologico. Ricordiamo “il segno del cappuccio”, “il segno dello specchio”, l’“insalata di parole” ecc., termini caratterizzati da una loro inesplicabile e inquietante connotazione senza perché.

Da allora, anche attraverso la lettura diretta delle fondamentali opere di Edmund Husserl, di M. Heidegge, di S. Kirkegaard e dei grandi psicopatologi tedeschi e francesi, dei fondamentali contributi psicoanalitici,  l’approccio più umanistico alla clinica psichiatrica volle estrapolare dalla riflessione fenomenologica-dinamica gli strumenti metodologici per un approccio antropologicamente fondato e non riduttivo ai fenomeni psicopatologici. La specificità di una  psichiatria capace di aprirsi a questi orizzonti   consiste proprio nel suo riflettere la complessità bio-psico-sociale della mente umana e della sua patologia. Altre professioni – neurologi e psicologi in particolare – hanno certamente un’identità che viene percepita come meglio definita rispetto allo psichiatra, ma questa apparente maggiore chiarezza della loro sfera di competenza traduce l’unidirezionalità della loro visione, non adatta a riflettere la complessità della patologia mental. La psichiatria nella sua capacità di integrare saperi diversi e approcci diversi, rappresenta in questo senso un esempio di straordinario valore a cui l’intera medicina dovrà prima o poi fare riferimento nei suoi persistenti tentativi di ridefinizione e di aggiornamento delle sue  basi concettuali e metodologiche.

La psicopatologia fenomenologica come metodo

La psicopatologia fenomenologica si configura oggi come l’unica strada metodologica che consenta una comprensione antropologicamente fondata dell’esperienza interiore del mondo normale e  patologico, due mondi fra i quali ristabilisce una assoluta continuità. Libera da preoccupazioni eziologiche e nosografiche essa può occuparsi con impegno totale delle strutture di senso intorno alle quali si organizzano tutti i fenomeni psichici.

Gli strumenti di cui si serve sono l’attenzione partecipe, la descrizione e l’analisi delle esperienze interne quali si danno alla coscienza, e la comprensione dei modi attraverso i quali le esperienze interiori si manifestano nella costruzione di un “immaginario” e di un mondo propri.  Di qui la vocazione della disciplina psichiatrica ad interrogarsi sulla varietà, il senso, la progettualità di mondi antropologici possibili, col compito di comprenderli per poterli in qualche modo abitare.

La psicopatologia  può configurarsi anche e soprattutto come metodo per l’analisi della “complessità” dell’esperienza vissuta.

Senza giungere mai a formulazioni compiute e definitive essa consente piuttosto di intravedere la qualità antropologica nella quale ogni fenomeno clinico si riflette continuamente, in modi infinitamente aperti.

 Così intesa la psicopatologia introduce una tonalità antispeculativa e ribadisce un tratto etico: ciò che si esercita attraverso questa disciplina è in definitiva una capacità di ascolto messa in atto da un’attenzione rigorosa e responsabile. Attitudine all’esercizio dell’intersoggettività potrebbe anche definirsi questa metodologia che rappresenta forse l’unica condizione possibile perché il paziente comunichi  allo psicopatologo qualcosa che segretamente gli appartiene. Per questo  appare sempre più necessario coltivare nel giovane psichiatra quello che Bruno Callieri definisce “la fondamentale passione per l’esistenza”.

Questo modello didattico scuote dalle fondamenta un modello tradizionale di apprendimento. Esso richiede l’esercizio di un pensiero multidimensionale, che cerca un rapporto più complesso e consapevole con il proprio oggetto di osservazione.

Questa prospettiva delinea una conoscenza consapevole della propria finitezza e provvisorietà e scopre possibilità sempre nuove di leggere il mondo, soprattutto quello psicopatologico.

Si vuole ora indicare, per chiarire meglio questo  itinerario, cosa si intende  come esercizio quotidiano e coerente di un approccio fenomenologico-dinamico applicato alla clinica psichiatrica. Si intende soprattutto sottolineare l’importanza della psicopatologia fenomenologica come asse portante della ricerca in psichiatria. In essa si può intravvedere la ricerca di una prospettiva globale sull’esperienza umana come portatrice e donatrice di senso, anche (soprattutto) nelle sue manifestazioni-limite come quelle psicopatologiche. Potremo così recuperare, e anche rilanciare, una istanza fondamentale della antropoanalisi applicata alla psicopatologia: quella di essere una scienza di fenomeni antropologicamente fondati, tesa a scavalcare gabbie disciplinari, riduttive antinomie e frammentari, dispersivi tecnicismi. È possibile così tracciare alcune coordinate fondamentali della psicopatologia fenomenologica:

a)         ricerca del senso e della continuità antropologica nei fenomeni psicopatologici;

b)         rilievo determinante conferito all’esperire soggettivo come sola, vera occasione di conoscenza;

c)         assoluto primato dell’incontro interpersonale.

Fare della psicopatologia fenomenologica significa porsi, ancora ed ancora, la stessa nevralgica domanda capace di dare da pensare ad intere generazioni di futuri psicopatologi. Quale valore antropologico si cela dietro ciò che abitualmente percepiamo, ascoltiamo, esperiamo circa i “fenomeni clinici” che di volta in volta ci offre l’infinito orizzonte dei vissuti psicopatologici? Come decodificare l’assolutamente privato, l’indicibile?

Fare della psicopatologia significa, comunque, cercare la continuità nella discontinuità dei diversi agglomerati psicopatologici e leggere questa discontinuità nell’ottica di una “continuità narrativa” che apra alla comprensione di esperienze, eventi, storie ai margini estremi dell’intellegibilità e, qualche volta, della dicibilità. Solo muovendosi in questa direzione il discorso psicopatologico potrà essere in grado di oltrepassare il dato meramente descrittivo per aprirsi alla genesi strutturale e “storica” del fenomeno clinico.

Un esercizio fenomenologico di grande interesse, inteso a rintracciare continuità narrative in funzione di una continuità antropologico-strutturale, capace di illuminare eventi clinici.

Senza giungere mai a formulazioni compiute e definitive essa consente piuttosto di intravedere la qualità antropologica essenziale di un epifenomeno clinico a cui rimanda continuamente in modi infinitamente aperti. Così intesa essa ha più a che vedere con un’attitudine di pensiero, con un “esercizio” ermeneutico paziente, ma inesauribile. Nel porre in questione la soggettività, la psicopatologia fenomenologica esprime una vocazione verso conoscenze non causalistiche e ribadisce un tratto etico: ciò che si esercita attraverso questa disciplina è in definitiva una capacità di ascolto messa in atto da un’attenzione rigorosa e responsabile. Custodire, salvaguardare, lasciar essere saranno i vertici di questo ascolto che esige una attitudine all’astensione e alla attesa. Come scrive Rovatti: “Un simile atteggiamento di ascolto non è un arresto dello sguardo quanto piuttosto una riscoperta del visibile”.

La fenomenologia scuote dalle fondamenta il modello tradizionale di apprendimento. Il pensiero complesso e multidimensionale, che cerca un rapporto più consapevole con il proprio oggetto di osservazione, delinea un nuovo profilo della conoscenza, che nella consapevolezza della propria finitezza e provvisorietà scopre possibilità sempre nuove di leggere il mondo. Questo processo, così lontano dalle forme di apprendimento tradizionali del pensiero scientifico, legate ad un modello del pensare neutrale, affermativo ed onnipotente.

 Il lavoro psicopatologico consiste proprio nella disponibilità a smarrire questa chiarezza non appena la si è acquisita come saldo punto di riferimento”. L’apprendimento di questo metodo e di questa attitudine di pensiero può realizzarsi solo all’interno di una dimensione interpersonale, nello spazio di una relazione che interessi lo psicopatologo e il paziente, l’allievo e il maestro.

La figura del maestro acquista nella prospettiva di una formazione non solo tecnica, ma soprattutto etica, un valore ineguagliabile. Solo il maestro può risvegliare l’allievo ad un problema, solo il maestro ha la capacità di ricreare il problema nella mente del discente e dargli l’essenziale consapevolezza che ogni vera conoscenza è conoscenza personale. E questo vale soprattutto per lo psichiatra.

P. Scudellari, Istituto di Psichiatria “P. Ottonello”, Università di Bologna

 Indicazioni bibliografiche

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Muscatello, C.F., Scudellari, P. 1993 “Indicibilità e ascolto” , Riv.Sper. Fren., Vol. CXVII, 784-790, .

Ricoeur, P. 1974. La sfida semeiologica, Roma, Armando.

Ricoeur, P. 1986. Dal testo all’azione, Milano, Jaca Book, 1989.

Rovatti, P.A. 1989. “Le parole della divergenza”, Aut Aut, 234, nov-dic.

Scholem, G.G. 1982. La cabala, Roma, Edizioni Mediterranee.

Trevi, M. 1983. “Sé: soggetto, oggetto, orizzonte”, in Il narcisismo, a cura di N. Ciani, Roma, Borla.

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Vattimo, G.; Rovatti, P. L. (a cura di). 1983. Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli.

Fisiognomica e maschere ceroplastiche di Tenchini

Sebbene le origini della fisiognomica siano antichissime, è solo nel ‘500, con gli studi di Leonardo Da Vinci, che si sviluppa la fisiognomica moderna. Successivamente, con il diffondersi della psicanalisi, la disciplina perde valenza conoscitiva, fino al lavoro di ricerca del medico e antropologo Cesare Lombroso (1835-1909), considerato fondatore dell’antropologia criminale, la moderna criminologia.

                                                    

La fisiognomica si prefiggeva di indagare l’animo umano e le caratteristiche psicologiche di un individuo tramite lo studio del suo aspetto fisico esteriore.

 Si ritiene che le origini della fisiognomica siano antichissime: Platone definiva il corpo come tomba o prigione dell’anima, mentre per Aristotele l’anima era la capacità che consente all’organismo di vivere e non può essere separata dal corpo stesso. Entrambi concepivano il corpo come riflesso dell’anima.

 Tuttavia, la fisiognomica moderna nasce nel ‘500, con Leonardo Da Vinci (1452-1519), grazie ai suoi studi sui “Moti dell’animo” a partire dai tratti del volto. Leonardo, nella parte terza del suo “Trattato della Pittura”, al punto 290, sottolinea l’importanza del sapere esprimere i moti interiori nell’arte e scrive:

“Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile”.

Tra il 1500  e il 1505 anche Albrecht Dürer (1471 – 1528) si concentra sullo studio della teoria delle proporzioni umane e di conseguenza si avvicina alla fisiognomica. Si era reso conto che le informazioni fornite da Vitruvio nel “De architectura” non erano sufficienti per stabilire leggi di proporzione universalmente valide.  Nel 1512/1513 pubblica il suo trattato scientifico Quattro Libri sulle Proporzioni. Scritto, progettato e curato dall’artista stesso, è il primo tentativo di applicare la scienza delle proporzioni anatomiche umane all’estetica. Il lavoro rivela almeno una trentina di fisionomie corporee diverse per uomini, donne, bambini e soggetti anziani, che mostrano l’unicità delle forme corporee o, come diceva Durer:

“…molte forme di bellezza relativa… condizionata dalla diversità di educazione,vocazione e predisposizione naturale”… e quindi presentare “i limiti più vasti della natura umana e… tutti i tipi di figure possibili: figure “nobili” o “rustiche”, femminili o volpine, timide o allegre”.  

 Questi studi su lineamenti, espressioni del viso e proporzioni corporee accompagnarono teorie e idee della scienza psicologica fino alla fondazione della psicoanalisi, che fece perdere valenza conoscitiva alla fisiognomica. Tuttavia, la fisiognomica fu ripresa dal medico e antropologo Cesare Lombroso (1835-1909), considerato fondatore dell’antropologia criminale, la moderna criminologia. Lombroso affermava che alcune caratteristiche fisiche particolari (grandi mandibole, naso schiacciato, zigomi sporgenti), potessero essere tipiche dei criminali, cui si associavano aspetti di scarso senso morale, cinismo, apatia. E’ interessante notare che,  nella sua opera sull’Uomo Delinquente, Lombroso fornisce un atlante fotografico di ritratti che diventarono modelli di riferimento delinquenziale per decenni, inaugurando l’uso delle fotografie segnaletiche, una pratica poi standard nell’identificazione e schedatura dei criminali.

Tuttavia, le fotografie bidimensionali e in bianco e nero presentano alcune limitazioni interpretative mentre vi è evidenza che studiare su preparati anatomici a grandezza naturale e quasi totalmente rispondenti alla realtà aumenta la capacità di riconoscimento del soggetto. Plausibilmente, questa è una delle ragioni alla base delle Maschere Fisiognomiche dell’anatomico e psichiatra Lorenzo Tenchini, di cui Cesare Lombroso fu professore all’Università di Pavia, durante la sua formazione in Medicina e Chirurgia.

 La metodologia usata dal Tenchini per le sue Maschere è rimasta un mistero per oltre 120 anni e solo nell’ultimo decennio studi internazionali del gruppo del Prof. Roberto Toni del DIMEC-UNIPR sulle Maschere Fisiognomiche della Collezione conservata a Parma hanno definitivamente fatto luce sul verosimile procedimento di preparazione, alquanto peculiare, di cui è possibile avere dettagli nelle pubblicazioni specialistiche menzionate nella Bibliografia di presentazione della Collezione Tenchini di questa Esposizione (v. sito web specifico) e nel Catalogo della Mostra Internazionale tenutasi a Parma nel 2017 proprio sulla Collezione Tenchini (in vendita presso l’area espositiva delle Maschere al primo piano del Rettorato).

Un’affascinante connessione con il lavoro fisiognomico di Tenchini si può rintracciare nell’opera di Madame Tussaud, che aveva iniziato come artista della cera circa 100 anni prima, durante la Rivoluzione Francese. I suoi ritratti in cera, oggi visibili a Londra, miravano a tracciare la cronaca degli eventi del suo tempo, comportando anche una valenza didattica, come le maschere di Tenchini avrebbero voluto essere “fotografie segnaletiche tridimensionali”, utili per riconoscimento e prevenzione di devianze e crimini.

Roberta Ballestriero, Accademia di Belle Arti di Venezia        

Vecchio a chi?

La giovanilistica società di oggi influenza il nostro modo di percepire la “terza età”: da fase esistenziale della saggezza e dell’agognato riposo, conquistato dopo anni di lavoro, è talvolta temuta come momento di decadimento fisico, solitudine, disagio per la mancanza di autonomia. Anche a causa dell’aumento della longevità e dell’età media. Tuttavia, i progressi della medicina dovrebbero farci affrontare questo periodo con più serenità rispetto al passato


“A Peppì nun me coprì quelle rughe che c’ho messo tanto tempo a falle!”. Anna Magnani, emblema del cinema neorealistico, sul set così si rivolse a un truccatore, confermando il suo personale modo di intendere l’arte come vita, oltre a un carattere schietto, capace di guardare in faccia la realtà. Tale reazione oggi suona come una beffa al dilagare dei rimedi per contrastare i segni dello scorrere del tempo sul nostro corpo e in particolare sul viso: dagli interventi chirurgici all’uso di prodotti dermatologici, alle ore dedicate all’esercizio fisico. “La paura di invecchiare è drammaticamente doversi confrontare con l’immagine che ci siamo costruiti di noi stessi e che gradualmente cambia. Questa lettura la facciamo soprattutto sul territorio di confine mondo esterno-interno che è la pelle con i suoi annessi cutanei: capelli, peli, unghie, ghiandole sudoripare, sebacee”, spiega Gennaro Spera già dermatologo del Consiglio nazionale delle ricerche. “Pensiamo ad esempio al primo segnale di invecchiamento che è l’incanutimento o in altri casi, soprattutto maschili, alla calvizie. E poi l’attenzione si accentua sulle rughe”.

Tale paura, al di là di un fatto estetico, può celare ansie più profonde come quella di essere abbandonati, di perdere l’autonomia o la gradevolezza agli occhi degli altri, finendo per essere emarginati. Tali problematiche sono racchiuse nel termine gerascofobia che interessa una popolazione sempre più ampia, anche a causa  del calo demografico e dell’aumento della popolazione nella “terza età”. In contrapposizione a questo trend, la società contemporanea esalta l’efficientismo, la carriera, il giovanilismo e il corpo fino al parossismo, mettendo in crisi anche  quella fase della vita in cui “la frenesia della vita giovanile si zittisce in riflessioni sul senso delle cose, in un riflettere che riassume una lunga esperienza e che forse arriva a rispondere alle tante domande che si suole fare in gioventù”, afferma lo scrittore Michel Houellebecq, che mette in luce la crisi di valori dell’Occidente  nel romanzo “La possibilità di un’isola” (2005 Bompiani), dove ha indagato  la relazione tra gioventù e terza età, bellezza e decadenza fisica.

Fino all’epoca preindustriale la vecchiaia era l’equivalente di saggezza, ponderatezza esperienza da elargire alle nuove generazioni, valori testimoniati ad esempio nei celebri film “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi e in “Novecento” di Bernardo Bertolucci. Andando indietro nel tempo, in epoca romana la dignità della figura dell’anziano era un valore condiviso nella società, soprattutto in età repubblicana dove la sua parola aveva un grande peso nelle scelte. Cicerone nel “De Senectute”, trattato scritto nel 44 a.C., si serve della figura di Catone il Vecchio per difendere le virtù della senilità, opponendosi ai luoghi comuni che la definiscono come periodo di decadenza. A partire dall’età imperiale, i poeti elegiaci guardano il tempo che passa inesorabilmente sottraendoci i piaceri e la bellezza, e la satira, come quella di Marziale, diventa caustica nei confronti di coloro che non si rassegnano alle conseguenze dell’età e si crogiolano in atteggiamenti esuberanti.

L’iconografia artistica ha sempre celebrato la bellezza, la grazia, l’armonia del corpo. Nelle scene che ritraggono la Visitazione, come quella dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni o nel gruppo Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino dipinto da Leonardo da Vinci (Museo del Louvre, 1510-1513), Marta e Anna, entrambe avanti negli anni, hanno sempre un aspetto nobile che delicatamente suggerisce un età più matura. Donatello rompe questa consuetudine proponendo una Maddalena (Museo dell’Opera del Duomo, 1453-55) emaciata, consunta dall’età e dalla povertà: ossuta e sdentata  comunica il senso del riscatto cristiano nella sofferenza. Allude invece alla vanità “La vecchia” di Giorgione (Gallerie dell’Accademia a Venezia,1506), figura che regge un cartiglio con il motto “Col tempo”, e, passando per il realismo rivoluzionario di Caravaggio, notiamo come  il  pittore olandese Rembrandt van Rijn, tra i molti autoritratti che eseguì ebbe il coraggio di rappresentarsi anche nella fase meno esaltante della sua vita (Autoritratto del 1669 nel museo Mauritshuis, L’Aja), appesantito dalle rughe e incorniciato dalla canizie. La pittura del Novecento enfatizza il senso di disagio, la solitudine, il declino fisico: ne “Le tre età della donna” di Gustav Klimt (Galleria nazionale d’srte moderna di Roma,1905) l’anziana si copre gli occhi con la mano in un gesto di vergogna; Angelo Morbelli (1853-1919) offre una tematizzazione della senilità con un ciclo di opere ritraendo persone dentro ospizi. Passando ai ritratti di Lucian Freud (1922-2011), osserviamo che la forza espressionistica dell’artista indugia anche sulla crudezza di particolari di volti non più giovani.

Oggi la cura del corpo è diventata una voce attiva del marketing. “L’industria cosmetica in Italia ha un fatturato di circa 10.000 milioni di euro, di cui le sole tinture dei capelli 300”, commenta Spera. “La psicosomatica dermatologica ha da sempre sottolineato come la pelle è il territorio dove avviene la ‘superficializzazione’ di situazioni conflittuali nascoste. Sulle rughe cosiddette di espressione si cerca di agire con la tossina che ‘paralizza’ e toglie una parte della nostra mimica; altro presidio sono i filler ‘riempitivi’ che ‘spianano’ gli antiestetici solchi nel volto. C’è poi l’intervento più invasivo che è il lifting, che nella mente dell’individuo spesso viene considerato come rimedio che fissa per sempre la propria immagine. Bisogna però ricordare che la nostra fisicità è data non solo dalle fattezze morfologiche, ma anche dal complesso della mimica, della gestualità e di molte altre componenti. Pertanto ogni intervento di contrasto all’invecchiamento deve essere attuato cercando di preservare al massimo la propria identità”.

Se non è possibile ostacolare il processo naturale, possiamo affrontare con più serenità la terza età grazie ai progressi della medicina e al miglioramento dello stile di vita. “Nel 1970, l’aspettativa di vita era di 69 anni per l’uomo e di 75 per la donna. Nel 2019, prima della pandemia, eravamo arrivati rispettivamente a 81 e a 85,5; questo traguardo si deve a vari fattori, quali la netta riduzione dei fumatori, l’aumento delle persone che praticano attività fisica, la capacità di diagnosi strumentali sempre più esatte e precoci, farmaci a nostra disposizione, tecniche chirurgiche che hanno reso fattibili e più sicuri interventi che apparivano complessi o, addirittura, non praticabili”, spiega Roberto Volpe dell’Unità prevenzione e protezione del Cnr. “Certo, purtroppo, la maggiore longevità non si accompagna sempre ad anni in salute fisica e/o mentale e, anzi, facilmente si assiste a un decadimento cerebrale, come  la demenza legata a fattori di rischio, combattendo i quali possiamo provare a prevenirla. A tal riguardo, va ricordato come la Dieta mediterranea, apportando vitamine e polifenoli ad azione antiossidante, appare in grado di contrastare i danni dei radicali liberi causa di un invecchiamento patologico e, presentando un buon contenuto in acidi grassi monoinsaturi (presenti nell’olio di oliva) e in grassi omega-3 (pesce, noci), concorre al mantenimento della struttura delle membrane delle cellule nervose. Ma anche l’attività fisica è fondamentale nella terza età: anche un esercizio fisico moderato come il camminare o fare la cyclette può stimolare l’ippocampo, la struttura del cervello deputata alla memoria, e migliorarla. Pertanto, una longevità di qualità è possibile”.

Insomma, se si sopportano bene gli acciacchi dell’età, “vecchio è chi ci si sente”, per dirla con la regina di Inghilterra che a 95 anni ha rifiutato un premio per gli anziani dalla rivista britannica “The Oldie”.

Sandra Fiore

Fonte: Almanacco CNR-Focus-Vecchio a chi?

Attraverso l’arte e le discipline umanistiche è possibile conoscere lo sviluppo dei metodi di cura e i ruoli degli operatori sanitari nel corso dei secoli. Tale bagaglio è un prezioso patrimonio per la professione medico e sanitaria, perché crea empatia e una corretta relazione con il paziente. Il volume di Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma, illustra la storia di questa complessa materia e le sue applicazioni


Le Medical humanities cosa sono e a cosa servono? Lo spiega il volume “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria” (Aracne editore), scritto da Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma e pioniera nell’insegnamento di questa disciplina che è una “sinergia” di materie di studio assai differenti. “La definizione, utilizzata in un campo interdisciplinare della medicina e in generale della cura, include la letteratura, filosofia, storia e religione, le scienze sociali (antropologia, psicologia e sociologia), le arti (letteratura, teatro, film e arti visive) e la loro applicazione sia nell’educazione medica che nella pratica clinica”, spiega l’autrice. Già nel 1994, in un articolo scientifico apparso negli Stati Uniti, veniva sottolineato che l’assistenza infermieristica non può svilupparsi da un background basato esclusivamente sulle scienze fisiche e sociali. Il personale sanitario, grazie a questi studi, può ridurre il gap nel rapporto con i pazienti e “umanizzare” la cura, superando una visione esclusivamente biomedica della professione. Dal 2014 è stata istituito presso l’Università di Roma un gruppo di ricerca per applicare il metodo nell’ambito della Medical education, cui è dedicato un laboratorio diretto dalla stessa Ferrara; è stata attivata una sperimentazione nei corsi di laurea in Medicina, Scienze infermieristiche e nella formazione specifica in Medicina generale.

Nello scorrere le pagine del libro sorprende rilevare quanto resti archeologici, sculture, dipinti, possano testimoniare lo sviluppo della scienza medica e l’affinarsi dello sguardo dell’artista nel ritrarre anche le imperfezioni del corpo umano, elementi che consentono di comprendere la diffusione di alcune patologie nel passato, campo di indagine dell’icodiagnostica. Basta andare nell’antica Grecia, dove gli anatomisti chiedevano aiuto agli artisti, “la dissezione era praticata sui corpi degli animali, mentre era vietato esplorare l’anatomia umana per motivi sociali e religiosi… Solo due medici ellenistici, che hanno operato ad Alessandria d’Egitto circa tra il 330 e il 240 a.C., sono noti non solo per l’uso della dissezione sistematica dei cadaveri, ma anche per la pratica della vivisezione sperimentale condotta sui condannati a morte: Erofilo ed Erasistrato”.

Nel Discobolo (copia del secolo II d.C. da originale greco del V secolo a.C.), conservato al Museo nazionale romano in Palazzo Massimo, ammiriamo i gruppi muscolari dell’atleta ritratti nell’atto di partecipare al movimento. Nei corso dei secoli, molti pittori – da Leonardo da Vinci a Michelangelo a Raffaello – hanno approfondito l’esame delle parti del corpo. Nel XVI secolo Bartolomeo Passarotti realizzò il dipinto “Lezione di anatomia per artisti” (Galleria Borghese, Roma) e Rembrandt nel 1632 raffigurò il dottor Tulp mentre mostra l’anatomia del braccio di un condannato a morte (Mauritshuis, L’Aia). L’autrice cita altri esempi di legame tra arte e medicina, che si traducono nelle modalità di riprodurre e conservare i corpi, quali la ceroplastica anatomica e la recente plastinazione, messa a punto da Gunther von Hagens. La rappresentazione della cura nell’arte, conclude Ferrara, è stimolante anche per lo sviluppo dell’empatia e della relazione tra personale di cura e paziente.

Sandra Fiore



Vincenza Ferrara, “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria”, Aracne (2020)

Fonte Almanacco CNR-Recensioni-Le Humanities per la pratica medica

L’arte vista con occhio clinico



Prosegue il viaggio di Giorgio Weber, professore ordinario e direttore dell’Istituto di anatomia e istologia patologica nell’Università di Siena dal 1968 al 1993, nell’indagine dell’arte vista non con l’occhio del critico e dell’esteta, ma con quello dell’anatomopatologo


Dopo il primo volume del 2011, ‘Mal d’arte’ in cui aveva cominciato il suo percorso di contaminazione tra l’ambito scientifico e quello artistico, Weber torna con ‘Le voci della materia. Patologo tra gli artisti’ a porre ulteriori interrogativi e osservazioni, sottolineando come la malattia abbia un ruolo chiave nella resa emozionale delle opere.

L’attenzione si focalizza quindi sullo storpio dell’affresco inserito da Masaccio nella Cappella Brancacci, sul corpo del putto del Chiostro Verde in Santa Maria Novella a Firenze, sulle mani segnate dall’artrite nel ritratto con cui Pontormo omaggia Cosimo il Vecchio e sul pallore sinistramente cianotico che caratterizza il celebre volto della Venere di Botticelli.

L’analisi dell’anatomopatologo, oltre a coinvolgere artisti come Albrecht Dürer, Paolo Uccello, Lucien Freud e Francis Bacon, si concentra sulle produzione letterarie di autori come Ariosto, Omero e Petrarca. L’intento è quello di creare un ponte tra la raffigurazione estetica e l’evoluzione scientifica, in maniera provocatoria e coinvolgente.

Weber Giorgio, Le voci della materia. Patologo tra gli artisti, Mauro Pagliai Editore

Alla ricerca dell’arte perduta

Tate e Channel4, con l’appoggio dell’Arts & Humanities Research Council britannico, hanno deciso di dare vita a un nuovo progetto culturale: raccogliere, in un’esposizione virtuale, le opere dell’arte contemporanea non più visibili, per illustrare, attraverso il tema dell’oblio, della perdita, volontaria o involontaria, il rapporto dell’arte contemporanea con il tempo


Tate e Channel4, con l’appoggio dell’Arts & Humanities Research Council britannico, hanno deciso di dare vita a un nuovo progetto culturale: raccogliere, in un’esposizione virtuale, le opere dell’arte contemporanea non più visibili, per illustrare, attraverso il tema dell’oblio, della perdita, volontaria o involontaria, il rapporto dell’arte contemporanea con il tempo. Da questa idea è nato il sito web ‘Gallery of lost art‘, sviluppato in tecnologia Flash, elegante e artisticamente molto curato.

Gallery of lost art‘ si presenta con una landing page che rappresenta un grande open space, visto dall’alto, navigabile come una mappa di Google. Una serie di aree tracciate sul pavimento circoscrive alcuni piani di lavoro, attorno ai quali si aggirano figure umane. A terra e sui tavoli sono raggruppate le immagini delle opere d’arte in base alle cause di sparizione: distrutte, rifiutate, effimere, rubate, perdute, etc.

Cliccando sull’immagine di un’opera, si accede alla sua scheda informativa: immagini, testo e contenuti multimediali. Possiamo così informarci non solo sulla scomparsa di ‘Fountain’ di Duchamp, il famoso orinatoio proposto nel 1917 alla mostra inaugurale della Society of Independent Artists di New York, diventato pilastro e simbolo del dadaismo, ma anche sulla scomparsa di opere di Frida Kahlo e Lucian Freud, e sull’incredibile furto del colossale bronzo ‘Reclining Figure’ di Henry Moore, sottratto la notte dell’1 dicembre 2005 dai giardini dell’Henry Moore Foundation, valutato circa 3 milioni di sterline, fuso dai ladri per il mero valore del bronzo.

Gallery of lost art‘ è un sito in progressivo allestimento: intende aggiungere un nuovo pezzo a settimana. Terminato il suo periodo di vita, stabilito in 12 mesi, svanirà, replicando l’oblio proprio delle forme d’arte che ospita.

In questo secolo senza più assoluti, dominato da una sempre più vistosa precarietà esistenziale, l’arte e la sua concezione intellettuale cedono sempre più a quel sentimento di provvisorietà che tutto pervade. Se l’artista, per Michaux, era colui che resiste con tutte le sue forze alla pulsione fondamentale di non lasciare tracce, questa consapevolezza viene ormai meno, e l’arte, e chi ne ragiona, pare aver ormai deciso di non persistere oltre nella difesa della perennità.

Claudio Barchesi


Gallery of lost art, Multimediale, editore Tate e Channel4

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 1827

Nei Promessi sposi due capitoli, il XXXI e il XXXII, sono interamente dedicati alla peste. Don Rodrigo, a Milano, scopre di essere ammalato. Il Griso lo consegna ai monatti per derubarlo, poi si ammala a sua volta e muore. Renzo, sempre rifugiato nel Bergamasco, guarisce e decide di andare a Milano per cercare Lucia.


E mentre – dice il Ripamonti – i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città come un solo mortorio c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! La mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio

[…] Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; chè infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacchè era ancor più facile prendera in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.

[…] Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo. L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzeretto.