I fratelli Karamazov

Fëdor Pavlovič decide, dopo essere stato abbandonato dalla prima moglie, di risposarsi con Sof ‘ja Ivanovna. L’incompatibilità di due caratteri nettamente distinti genera uno squilibrio emotivo all’interno dell’animo della giovane moglie, conducendola ad una forma di isteria.

Fëdor Pavlovič ben presto si sposò per la seconda volta. Il secondo matrimonio durò circa otto anni. Pescò la sua seconda consorte, Sof ‘ja Ivanovna, anche lei molto giovane, in un altro governatorato nel quale era passato per via di un piccolo appalto in società con un certo ebreo. Sebbene Fëdor Pavlovič gozzovigliasse, bevesse e si desse alla bella vita, tuttavia non smetteva mai di occuparsi di investire il proprio capitale e concludeva sempre con successo i suoi affarucci anche se, ovviamente, senza farsi tanti scrupoli. Sof ‘ja Ivanovna era figlia di un oscuro diacono ed era rimasta orfana e senza parenti sin dall’infanzia; era cresciuta nella ricca casa della sua benefattrice, educatrice e despota, l’illustre vegliarda vedova del generale Vorochov. Non conosco i dettagli, ho solo sentito dire che una volta avevano tolto la mite, placida, umile educanda dal cappio che aveva appeso a un chiodo in un ripostiglio, tanto le riusciva difficile sopportare il carattere bisbetico e gli eterni rimproveri di quella vecchia, che, forse, non era cattiva ma tiranneggiava intollerabilmente il prossimo per noia. Fëdor Pavlovič chiese la mano della ragazza, raccolsero informazioni su di lui e lo cacciarono via e allora lui, come nel primo matrimonio, propose la fuga all’orfanella. È molto, molto probabile che lei stessa non lo avrebbe seguito per nulla al mondo se per tempo ne avesse saputo di più sul suo conto. Ma il fatto accadeva in un altro governatorato e poi che cosa poteva capire una ragazzina di sedici anni che avrebbe preferito annegarsi nel fiume piuttosto che continuare a vivere dalla sua benefattrice? E così la poverina cambiò una benefattrice per un benefattore. Fëdor Pavlovič questa volta non ottenne neanche il becco di un quattrino perché la generalessa montò su tutte le furie, non dette nulla e per di più li maledisse entrambi; questa volta però egli non aveva programmato di ottenere nulla, era stato sedotto esclusivamente dalla straordinaria bellezza dell’innocente fanciulla e, soprattutto, dalla sua aria innocente che aveva un fascino particolare per un lascivo e, fino a quel momento, depravato estimatore solo del tipo più volgare di bellezza femminile. «Quegli occhietti innocenti allora mi tagliarono l’anima come la lama di un rasoio», raccontava in seguito con il suo solito ghigno ripugnante. Del resto, in un uomo depravato come lui anche quello poteva essere motivo di attrazione lasciva. Non avendo ricevuto alcuna ricompensa, Fëdor Pavlovič non fece tante cerimonie con la consorte e, sfruttando il fatto che ella, per così dire, era “in torto” dinanzi a lui e che lui l’aveva quasi “tolta dal cappio” e sfruttando, soprattutto, la straordinaria mitezza e umiltà di lei, egli addirittura calpestò le più elementari regole della decenza matrimoniale. In casa, alla presenza stessa della moglie, c’era un andirivieni di donne di malaffare e si organizzavano orge. Come nota caratteristica dirò che il servo Grigorij, un moralista cupo, ottuso e testardo, che aveva odiato la precedente padrona di casa, questa volta prese le parti della nuova padrona, la difendeva e litigava per lei con Fëdor Pavlovič in un modo quasi inammissibile da parte di un servo; una volta addirittura disperse con la forza un’orgia e tutte le svergognate che vi erano convenute. In seguito a tutto questo, alla disgraziata giovane donna, vissuta nel terrore sin da piccola, venne una specie di malattia nervosa femminile che si riscontra con maggiore frequenza nel popolino, fra le donne di campagna, che, per via di questo male, vengono chiamate klikusi. A causa di questa malattia, che provocava terribili attacchi isterici, la malata di tanto in tanto perdeva persino la ragione.

Fëdor Dostoevskij

Fonte: dostoevskij_karamazov

Romanzi medievali d’amore e d’avventura

Il brano è tratto dal romanzo cortese di Chrétien de Troyes, Erec et Enide. Nel testo proposto, i cavalieri si imbattono nella damigella affetta dalla lebbra. Solo attraverso un rituale simbolico molto particolare riesce a guarire, non senza l’intervento dei celebri eroi del ciclo bretone

VII • LA LEBBROSA
I tre cavalieri e la donzella ebbero molte avventure. Un giorno, si ritrovarono lungo una riva profondamente frastagliata e davanti a sé, videro un castello grande ed oscuro, e riconobbero il castello di Carcelois nella marca di Scozia. In questo castello re Artù era ferocemente odiato, ed infatti, appena essi ebbero rivelato la loro identità a quelli del castello, furono subito attaccati. Furono costretti a difendersi e con tanta energia che finirono per massacrare tutti gli abitanti del castello.
Di questa carneficina molto si pente Galaad, credendo di avere uccisi cristiani. Ma sopraggiunge a questo punto un prete, vestito di bianco, che porta il Corpus Domini in un calice. Egli rassicura Galaad, dicendogli che coloro che egli ha uccisi non erano cristiani, ma la gente più sleale che mai fosse vissuta, e che Dio gli sarebbe stato grato perciò che aveva fatto.
Dopo altre avventure, un giorno giunsero ad un altro castello, forte e ben situato. E trovano dei cavalieri ed una damigella che teneva una scodella d’argento in mano. I tre cavalieri volevano proseguire la strada, ma furono costretti a fermarsi, perché gli abitanti del castello volevano imporre loro quello che era il costume: e cioè prendere una scodella di sangue dal braccio destro della sorella di Perceval. I tre eroi cercano di difendersi, e ne segue una battaglia terribile nella quale tuttavia non riescono a venire a capo degli avversari. Infine, gli abitanti del castello li pregano di andare ad alloggiare presso di loro e, dopo averli trattati con la dovuta cortesia, spiegano loro la ragione del costume.
«Vero è,» disse uno di lì dentro, «che vi è qui una damigella alla quale apparteniamo noi e tutti quelli del paese, e questo castello e più di un altro. Avvenne, or sono due anni, che essa cadesse in una malattia per la volontà di Nostro Signore. E quando essa ebbe languito un pezzo, vedemmo che la malattia che aveva era un male che si chiama la lebbra. Allora mandammo a cercare medici in lungo e in largo, ma non ci fu nessuno che potesse guarirla. Venne per ultimo un saggio che disse che se potessimo avere una scodella piena del sangue di una donzella che fosse vergine in volontà ed in opere, purché fosse figlia di re e di regina e sorella di Perceval il puro, la dama se ne sarebbe potuta ungere e sarebbe guarita subito. Quando udimmo questa cosa, stabilimmo che se passasse damigella qui davanti, purché fosse pulzella, avremmo presa una scodella del suo sangue. Ora fate come vi piacerà.»
Allora la damigella chiama i tre compagni e dice:
«Signori, voi vedete che questa damigella è malata e io la posso guarire e se voglio essa non può sfuggire. Or mi dite ciò che farò.»
«In nome di Dio,» dice Galaad, «se voi lo fare, poiché siete giovane e tenera, non potrete non morirne.»
«In fede, se io morissi per questa guarigione, sarebbe ad onore mio e di tutto il mio parentado. E debbo ben farlo, in parte per voi e in parte per loro. E perciò vi dico che io farò la volontà loro. Io vi prego di concedermelo.»
Ed essi ne sono molto dolenti.
Ed allora essa chiamò quelli di dentro e disse loro di essere gioiosi e contenti perché la battaglia era cessata e l’indomani avrebbe fatto quello che è richiesto dalle damigelle.
All’indomani, quando ebbero udito messa, venne la damigella nel palazzo e comandò che le portassero la dama che era malata. Ed essi dissero che l’avrebbero fatto volentieri. Allora andarono a cercarla in una camera dove essa stava. E quando i compagni la videro, si meravigliarono molto, perché essa aveva il viso così disfatto e coperto di bottoni, e così malandato per la lebbra, che era meraviglia che potesse vivere in tale dolore. E quando la videro venire, si levarono in piedi e la fecero sedere. Allora comandò la damigella che le portassero la scodella ed essi gliela portarono. Ed essa trasse fuori il braccio e si fece ferire in una vena con una lametta aguzza e tagliente come rasoio. E il sangue ne esce immantinente e essa si fa il segno della croce e si raccomanda a Nostro Signore e dice alla dama:
«Madonna, sono venuta a morte per vostra guarigione Per Dio, pregate per la mia anima, perché sono alla fine.»
E mentre diceva queste parole, il cuore le venne meno per tutto il sangue che aveva perduto. E i compagni corrono a sostenerla. E quando essa fu rimasta lunga pezza fuori di sé, disse a Perceval:
«Ah! bel fratello Perceval! muoio per la guarigione di questa damigella. Io vi prego che non facciate
seppellire il mio corpo in questo castello, ma non appena sarò morta, mi mettiate in una navicella nel più vicino porto e mi lasciate andare così come mi mena l’avventura. E vi dico che non appena arriverete alla città di Saracenia ove dovrete andare per il Santo Graal, mi troverete arrivata sotto alla torre. E fate seppellire il mio corpo nel palazzo spirituale. E sapete voi perché ve lo chiedo? Perché vi giacerà Galaad e voi con lui.»
Così morì la damigella e la dama guarì, e i compagni le fecero funerali magnifici e là posero su un bel letto in una nave. Al capo del letto Perceval mise uno scritto che diceva chi era quella donna morta e le avventure che essa aveva aiutato a compiere. Poscia spinsero la navicella verso l’alto mare e la seguirono con gli occhi finché non fu trascinata dalle onde.

Angela Bianchini

Angela Bianchini, “Romanzi d’amore e d’avventura” (Garzanti, 2003)

Vedi anche: scheda sul sito Garzanti

Una sincera, spudorata storia di sla

La cruda e realistica autobiografia di una malata di sla: “L’ultima estate” è un’opera a metà tra diario e letteratura, una collezione di fatti, persone e pensieri raccontati con spudorata sincerità.

Il caso editoriale del 2008 è stato quello di Paolo Giordano con ‘La solitudine dei numeri primi’, quello di quest’anno, Cesarina Vighy de ‘L’ultima estate’: due esordienti. Un fattore comune non infrequente, si pensi a come torni anche in ‘Mille anni che sto qui’ di Mariolina Venezia e per la Benedetta Cibrario di ‘Rossovermiglio’. È chiaro che le opere prime conservano una freschezza letteraria che gli ‘scrittori di professione’ facilmente perdono, preferendo (loro o gli editori) riciclare i cliché rivelatisi vincenti. Ed ecco dunque l’incetta di premi: il quartetto citato ha fatto strage di Campiello e Strega.

Ma il caso della Vighy ha una particolarità, curiosamente opposta a quella di Giordano: ad un giovanissimo è infatti succeduta una signora over 70. Le due ‘rivelazioni’ sono agli antipodi non solo per l’anagrafe: all’aitante ricercatore che ha dimostrato grande equilibrio, anche nel gestire l’immediato ed eclatante risultato, si contrappone una malata di sla, cui proprio l’approssimarsi della fine ha impresso la spinta risolutiva per darsi alla letteratura; a un romanzo nel quale la malattia (psichica) dei protagonisti viene trattata con estrema freddezza (è questo l’aspetto che ha talvolta respinto i lettori de ‘La solitudine dei numeri primi’), fa pendant la scelta della Vighy redigere una cruda e realistica autobiografia partendo dalla situazione di paziente irrecuperabile.

Quest’ultimo aspetto, però, è prevalso eccessivamente nelle interpretazioni di molti critici e commentatori. ‘L’ultima estate’ non è uno dei tanti ‘diari’ di malati che ormai si stipano nelle proposte editoriali (un genere nel quale gli affetti da sla sono particolarmente presenti). È vero che il rapporto con le progressive difficoltà fisiche e con le cure tornano spesso nelle pagine e riempiono quelle finali, ma la cifra del libro sta più in generale nella sua spudorata sincerità, possiamo dire semmai che l’età e le cattive condizioni rendono l’autrice efficacemente disinibita.

Agghiacciante, ad esempio, la rievocazione della “visita alle faiseuses d’anges”, l’aborto giovanile che viene così descritto: “Pallida, seduta ingloriosamente sul bidè, non sembravo certo una regina” (e omettiamo la macabra espulsione del feto). Con lo stesso tono, la Vighy collaziona fatti e persone non memorabili – “Cleopatro Colabianchi, l’unico uomo al mondo che portasse questo nome” – ricorrendo a qualche insistita civetteria letteraria: “spencolandomi tra i banchi alla ricerca della mia preziosa matita col gommino”. Il rischio della banalità, insomma, non sempre viene evitato: “E’ così che, nelle famiglie, si diventa prigionieri uno dell’altro, legati in una rete robustissima che non sai se fatta più d’amore o di odio”; “continuavo a piangere: non per il dolore che non c’era più, ma per la perdita, il lutto”.

Una lettura piacevole, ma non di più, grazie soprattutto alla sua trasversalità di genere. Solo, non si capisce l’illuminazione di cui questo libro ha goduto rispetto ad altri, contemporanei, connotati dalla medesima capacità di intersecare dato biografico e letterario. Ad esempio il piacevolissimo ‘Mondo privato e altre storie’ di Marta Dassù (Bollati Boringhieri, pp. 149, 10 euro): un “taccuino poco diplomatico” “scritto per insonnia” da una esperta di relazioni internazionali, insieme diario rivolto a un ipotetico “dottore” e anamnesi della complicata evoluzione identitaria della sinistra italiana.

Marco Ferrazzoli

Cesarina Vighy, “L’ultima estate” (Fazi, 2009)

Il libro sul sito di Fazi Editore

L’incomprensibile suicidio di Edouard Levé

La vicenda editoriale legata a questo libro è tanto nota quanto drammatica: poco dopo aver consegnato il racconto per la pubblicazione, l’autore si è tolto la vita. Un atto imprevedibile, che si è trasformato in una terribile azione promozionale, rendendo il libro una sorta di diario ‘in tempo reale’ di una persona avviata verso il suo gesto estremo.

‘“Suicidio” rende tanti altri libri vani e inutili’, scrive L’Express in una delle recensioni che hanno segnato il clamoroso successo del libro di Edouard Levé, indissolubilmente legato all’esito imprevedibile e drammatico della vicenda editoriale: poco dopo aver consegnato il racconto per la pubblicazione, l’autore si è tolto la vita. Un atto imprevedibile, che si è trasformato in una terribile azione promozionale, rendendo il libro una sorta di diario ‘in tempo reale’ di una persona avviata verso il suo gesto estremo.

Lo spunto per il libro era giunto a Levé dal suicidio compiuto da un conoscente molti 25 anni prima: l’uomo era rientrato in casa con una scusa, mentre si stava recando ad una partita di tennis con la moglie che, udito lo sparo, era rientrata trovandolo senza vita. Lo scrittore cerca di immedesimarsi con l’amico, tenta di fornire una spiegazione a quella scelta, ma l’impressione che si ricava dalla lettura che in simili frangenti non si possa dire nulla di significativo. Il suicida resta incomprensibile all’autore, come Levé lo è, doppiamente, per noi.

Da un lato Levé, con la retorica di alcune espressioni, sembra ammantare il suicida della scontata mitologia che accompagna queste persone: ‘Nell’arte togliere equivale a migliorare. Scomparendo ti sei perpetuato in una bellezza negativa’; ‘Il tuo suicidio è stato un’azione a effetto inverso: una vitalità che produce morte’. Dall’altro lato, pare condividere l’accusa di egocentrismo che spesso viene rivolta a chi si uccide: ‘Non potevi accettare di mentire a quella semplice domanda: come stai?’, ‘Ti stupiva che i tuoi stati d’animo potessero essere tanto mutevoli senza che nessuno se ne accorgesse’.

Ma probabilmente il suicida non è un ragazzino immaturo né un eroe romantico. E forse, più dei suicidi, è facile spiegare i suicidi ‘mancati’. Più di questo libro ci appare vicina, nella sua inconsolabile tristezza, l’ingenuità dell’adolescente che scrive a uno psicologo da settimanale: ‘L’unico motivo per cui non oso togliermi la vita non è la paura. È che non so come si sta dopo’.

Marco Ferrazzoli

Edouard Levé, “Suicidio” (Bompiani, 2007)

Quanto costa curare un anziano?

Da un medico di base con oltre trent’anni di pratica, una riflessione sull’esperienza del distacco e sul tema dei costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti.

Iona Heath è un medico di base con oltre trent’anni di pratica in uno dei quartieri più poveri di Londra.

Da questo suo libro sui “Modi di morire”, pertanto, ci si attenderebbe soprattutto il senso di un’esperienza ‘vissuta’ (per quanto quest’espressione possa apparire involontariamente ironica) rispetto all’evento finale e assoluto che, ogni anno, tocca 56 milioni di persone direttamente e indirettamente circa 300 milioni, cioè il 5 per cento della popolazione umana.

‘I costi del trattamento sanitario cui l’avevano appena sottoposta erano stati uno spreco inutile e penoso’, scrive ad esempio il dottor Heath dopo la scomparsa di una paziente novantenne. Ora, che dal dibattito sul diritto di decidere della propria sorte e di rifiutare ogni accanimento terapeutico, si passi a questionare sui costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti, appare una deriva di tipo salutistico e anagrafico piuttosto rischiosa.

E’ vero che la convinzione ‘di avere diritto a una salute perfetta’ è pericolosa, che anima ‘pretese eccessive’, tra le quali si possono annoverare anche le diffuse esagerazioni in merito all’utilità della ‘medicina preventiva’. Ma da qui a stabilire che gli anziani possano essere abbandonati senza cure, ce ne passa.

Marco Ferrazzoli

Iona Heath, “Modi di morire” (Bollati Boringhieri, 2008)

La scheda sul sito dell’editore

Un cancro chiamato Cameo

La storia di un uomo nel suo percorso di rievocazione e autoanalisi di fronte al cancro che lo ha colpito: un destino che lo porta inevitabilmente a ripercorrere la propria esistenza.

“Cameo” di Raffaele Crovi è un’opera di mestiere, godibilissima alla lettura, ma priva di una forza narrativa autentica, perennemente indecisa e oscillante tra la contemplazione descrittiva e il malcelato intento autobiografico.

Protagonista ne è Nando Mortara: ebreo, convertito per opportunità (nel 1939: i genitori sarebbero stati deportati e uccisi) e poi tornato alla fede originaria per ‘protesta’, di formazione psichiatra ma senza essere mai riuscito ad affrontare l’impegno di una attività terapeutica ospedaliera.

Un ‘non personaggio’, tipico di molta narrativa minimalista, che non a caso nel corso del libro sembra pigramente, rassegnatamente lasciare il posto al cancro che lo ha colpito: un destino, più che una disgrazia, davanti al quale ripercorrere la propria esistenza è inevitabile, quasi scontato.

Marco Ferrazzoli

Raffaele Crovi, “Cameo” (Mondadori, 2006)

La scheda sul sito dell’editore

Un tunnel psicanalitico mitteleuropeo

Un’opera che rappresenta un viaggio personale e al tempo stesso storico, popolata da un dedalo di personaggi testimoni della complessità e delle atrocità del ventesimo secolo.

Un uomo rimasto solo al mondo si rivolge a una chiromante per entrare in contatto con il padre e il fratello defunti. La truffatrice lo imbroglia, sottraendogli tutti i beni, ma il protagonista riesce a rifarsi una vita in capo a cinque anni di duro lavoro. L’11 agosto 1999, assiste all’ultima eclissi solare del millennio. Poi ricorre alla psicanalisi.

È quasi dadaista, la trama di ‘Nel regno oscuro’ di Giorgio Pressburger. Il lettore che vuol affrontare il libro deve accettarne il plot caleidoscopico, degno delle scale di Escher. Per dare almeno una dimensione quantitativa della complessità di quest’opera, si tenga conto che in 330 pagine si ammassano ben 902 note. Viene in mente, a tratti, il ben più lineare ‘La malattia chiamata uomo’ di Ferdinando Camon, e il collegamento non dev’essere casuale, considerato che si tratta di due scrittori mitteleuropei, dunque provenienti della koinè che ci ha dato anche Svevo, Freud e Basaglia.

Non è questa, però, la sede nella quale indagare le complesse ragioni per le quali l’ex ombelico del mondo ha prodotto – durante la sua crisi epocale, che chiude non solo l’impero asburgico ma il predominio europeo sul pianeta – una fioritura culturale così ombelicale, lo studio tanto appassionato del sé e delle sue contraddizioni. Limitiamoci a segnalare, a chi ne fosse attratto, quest’opera nella quale il Novecento prende la forma di un inferno dantesco, popolato da persone imprigionate, uccise, torturate, suicide, sofferenti. Un tunnel che però prelude a una uscita insperata: il protagonista si avvia lentamente verso la guarigione, intravedendo nell’ultima seduta psicanalitica i suoi cari scomparsi.

Chi abbia una anche minima dimestichezza con tali questioni, sa bene che si tratta di un messaggio di straordinario ottimismo, anche se (anzi: proprio perché) in calce a un’opera tanto cupa, rispetto a una casistica reale che vede spesso i percorsi analitici non approdare a nessun risultato concreto.

Marco Ferrazzoli

Giorgio Pressburger, “Nel regno oscuro” (Bompiani, 2008)

https://www.bompiani.it/catalogo/nel-regno-oscuro-9788845261602

“Il quarto cavaliere”: breve storia di epidemie, pestilenze e virus

Un saggio storico sulla convivenza tra l’uomo e malattie infettive, una riflessione sul ruolo delle pestilenze negli equilibri tra le civiltà umane, reso ancor più attuale alla luce degli sconvolgimenti causati dalla recente pandemia.

Uno dei saggi giustamente rimasti più celebri nella recente esegesi storica è “Armi, acciaio e malattie” di Jared Diamond, nel quale, sin dal titolo, un ruolo fondamentale viene assegnato alle epidemie nella evoluzione storica delle civiltà che ci hanno preceduto. Su questo elemento, “Il quarto cavaliere”, facendo riferimento alla celebre metafora dell’Apocalisse, esce adesso negli Oscar Mondadori un saggio specifico di Andrew Nikiforuk che traccia proprio una “breve storia di epidemie, pestilenze e virus”. Si tratta in realtà di uno studio dei primi anni ’90, come chiarisce l’autore in una nota nella quale precisa l’intento etico della sua opera: “Spero di spingere i lettori a condurre una vita più sana e a combattere per comunità più verdi, liberandosi dalle illusioni tecnologiche”. Un motto programmatico piuttosto deciso ed estremo, come si vede, che il giornalista canadese ripete incessantemente nei vari capitoli, spingendosi ad assiomi francamente sconcertanti come quello di annoverare tra “le grandi menzogne del XX secolo” quella che “gli antibiotici, i medici e i vaccini ci abbiano salvato”. Da un lato, insomma, l’autore si schiera decisamente contro lo scientismo e il progresso tecnologico, dall’altro rivanga come epoca aurea quella in cui l’umanità affrontava una vita di mera, dura sopravvivenza: “Gli uomini del passato, raccoglitori di noci con la lancia sotto il braccio, erano esemplari magnifici”, mentre i loro successori coltivatori “relativamente sedentari, erano individui curvi e affamati. Mangiavano troppi carboidrati e i loro denti marcivano”. Tutto questo, dunque, molto prima che arrivassero i fast food…

Se si prescinde da questo tipo di considerazioni, però, il libro è davvero interessante per la messe di informazioni storiche che fornisce in ordine al ruolo che malattie ed epidemie hanno assunto nello squilibrare i rapporti di forza tra gli Stati, le culture e le civiltà umane. Per esempio, quella sorprendente per cui “la malaria ha ucciso la metà degli uomini, donne e bambini che sono deceduti sulla terra” fino all’ultima guerra mondiale. Ciò su cui Nikiforuk ha certamente ragione è che il caso e l’eterogenesi hanno sempre giocato un ruolo determinante nel progresso umano, ad esempio la lebbra è sempre stata condizionata da fattori igienici e dunque, indirettamente, dalla disponibilità di tessuti per potersi cambiare più frequentemente d’abito: fu dunque la peste, diminuendo in modo spaventoso il numero di persone e aumentando le pecore e la lana pro-capite ad aiutare la scomparsa della lebbra in Europa. Tranne quella del Nord, dove essa restò diffusa molto più a lungo, in Norvegia addirittura fino a fine ‘800.

Marco Ferrazzoli

Andrew Nikiforuk, “Il quarto cavaliere” (Mondadori, 2008)

https://www.mondadoristore.it/quarto-cavaliere-Breve-Andrew-Nikiforuk/eai978880457834/