Mio fratello rincorre i dinosauri. Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più

Down: una parola straniera? Una notizia travolgente? Un’etichetta? Una sindrome?

Una persona, un fratello, una questione di sguardo.

Abbiamo una cosa da dirvi… Riguarda vostro fratello.

Papà le strinse la mano.

– Vostro fratello… – disse, e fece una pausa. – Ecco, vostro fratello sarà… speciale.

Io e Chiara ci scrutammo l’un l’altra muovendo solo gli occhi.

– Speciale? – disse lei.

– In che senso speciale? – chiesi io.

– Nel senso, – disse papà, – che sarà… diverso. Affettuoso, anzitutto. Molto. Moltissimo. E poi sorridente e gentile. E tranquillo. E con i suoi, ecco, diciamo con i suoi tempi.

Sollevai un sopracciglio: – I suoi tempi?

– E altre cose sue speciali che ancora non sappiamo, – sorrise mamma.

– Quindi è una buona notizia? – chiese Chiara.

– Non è solo una buona notizia, – disse papà serio. Aggrottò la fronte in un modo buffo e la macchina cominciò a gonfiarsi e a sgonfiarsi come se stesse respirando con noi. – È molto di piú, – disse. – È una notizia travolgente –. Poi si girò e accese la radio. […]

– In che senso da dove arriva?

– Non è di questo pianeta. È evidente.

– Te l’avevamo detto, – disse lui, stringendomi la spalla con una mano cosí calda e ferma che con quella mano sulla spalla, giuro, sarei stato capace di andare ovunque nel mondo, affrontare qualunque cosa. – L’avevamo detto che era speciale.

Annuii.

Anzitutto gli occhi. Gli occhi erano cinesi, o venusiani forse, non sapevo decidermi; o di qualche altro pianeta con cristalli luminosi che sbucavano dalla sabbia e dieci lune viola nel cielo. Anch’io ho un taglio degli occhi un po’ orientale, in questo si vede che siamo fratelli, ma i suoi erano proprio tanto orientali. E poi la nuca. La nuca era piatta come una pista di atterraggio per microscopiche navicelle spaziali; se si fosse messo a quattro zampe potevi usarla come vassoio. Ma nulla mi colpí come le dita del piede che era scivolato fuori dalle coperte e che muoveva con scatti elettrici. Perché di dita, Giovanni, in quel piede, ne aveva quattro. O meglio, s’intuiva che potenzialmente erano cinque, ma il quarto e il quinto – il minolo e il pondolo – erano fusi insieme. Come due Kit Kat. […]

Aveva la copertina blu, un blu mogio e polveroso, e l’avevo intercettato già diverse volte, in camera da letto o sulla poltrona in salotto. Cosí, un giorno che stavo ciondolando per casa, finii per avvicinarmi e prenderlo in mano. Lessi l’autore, uno straniero, e il titolo, che conteneva anch’esso una parola straniera, e che quella parola era straniera lo sapevo perché c’era la lettera w. Noi non abbiamo tante lettere w o x nella lingua italiana, pensai. La parola era Down. La lessi pronunciandola: dovn. Prima di quella c’era la parola sindrome. Non sapevo cosa volesse dire sindrome, non sapevo cosa volesse dire Down. Lo aprii e, come sempre accade quando ci sono delle pagine piú spesse, il libro si spalancò su una fotografia.
Sgranai gli occhi. È Giovanni, pensai. […]

Ecco, allo stesso modo, interrogavo i miei genitori sui problemi di Gio. Sui suoi limiti, evidenti come il panino alla Nutella che mangiavo a merenda. E interrogavo soprattutto me stesso. Non mi interessavano piú le cause, quelle ormai erano cose passate. Pensavo piú che altro al suo futuro. Lui che non riusciva a imparare i numeri, come avrebbe fatto a pagare dal panettiere? Lui che aveva impiegato anni per parlare – e avrebbe sempre parlato male – come avrebbe fatto a scrivere? Se non sapeva né contare né scrivere, non avrebbe mai trovato un lavoro. Mi chiedevo perché avesse messo gli occhiali cosí presto: nessun altro bambino li portava. Mi chiedevo perché non ascoltasse niente, perché non capisse niente.
Addirittura – fu la cosa che mi sconvolse di piú – non avrebbe mai potuto fare le capriole. […]

Prima di quel giorno pensavo che il silenzio fosse assenza di rumore. Invece il silenzio è un suono, e c’è silenzio e silenzio. In quella mezz’ora, il silenzio mi parlò: mi disse che Gio aveva bisogno di me, costante bisogno di me; e io capii che ormai, senza Gio, non ci volevo piú stare a questo mondo. I suoi problemi erano i miei. E i miei problemi? A quelli ci avrei pensato da solo, senza disturbare; avrei trovato una soluzione. O almeno ci speravo. […]

Fu come il sole di mattina, quando filtra attraverso la tapparella che cerca di chiuderlo fuori e lui no, liquido e imprescindibile non si lascia imbrigliare, s’infila in ogni buco, in ogni fessura. Pensai ad Alice, alla sua reazione di fronte al bambino con il fucile. Pensai a Chiara, a quando aveva detto lascialo fare, che non è detto che le storie debbano sempre finire come sono state scritte. Ecco. Chi è che aveva scritto la nostra storia? Chi è che aveva sceneggiato la relazione tra me e Giovanni, e tra me, lui e il mondo, chi? Nessuno. Eravamo noi gli scrittori. Mia poi era la responsabilità di decidere come sarebbe finita la nostra storia. Nessuno instillava la paura del giudizio nel mio cuore, ero io a nutrirla.

Giacomo Mazzariol

Giacomo Mazzariol, “Mio fratello rincorre i dinosauri”, Einaudi, Torino, 2016

 

Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali

Oliver Sacks presenta sette persone diverse, con le loro peculiarità, il loro vissuto e le straordinarie abilità sviluppate da ciò che per i più è una menomazione. Non casi, ma singoli individui da cui imparare ancora il potenziale creativo derivato dalla patologia.

 

Egli sapeva dire il colore di ogni cosa con una straordinaria precisione (era in grado di indicare non solo il nome del colore, ma anche il numero con il quale era riportato in un catalogo Pantone che aveva usato per anni). E così riusciva a identificare senza esitazione il verde del tavolo da bigliardo di van Gogh. Il signor I. sapeva quali fossero i colori di tutte le sue pitture preferite, ma non poteva più vederli, né con gli occhi, né con la mente: probabilmente la sua conoscenza del colore si fondava ora esclusivamente sulla memoria verbale. […]

In seguito, egli affermò che né «grigio» né «plumbeo» trasmettevano, sia pur lontanamente, le reali sembianze del suo mondo. Ciò che egli percepiva non era il solito «grigio»: si trattava di altre qualità percettive che non hanno equivalenti nell’esperienza e nel linguaggio ordinari. […]

Il signor I. non rappresentava solo un caso relativamente puro di acromatopsia cerebrale (quasi non contaminato da altri difetti nella percezione della forma, del movimento o della profondità), ma era anche un testimone esperto dotato di un’intelligenza superiore, capace di disegnare e di riferire quel che vedeva. […]

 

Quando lo videro, furono travolti dall’orrore: il loro ragazzo, che ricordavano snello e con i capelli lunghi, era diventato grasso e calvo; aveva stampato sul volto un perenne sorriso «ebete» (questo fu almeno il termine usato dal padre per descriverlo); continuava a borbottare brevi frammenti di canzoni o di versi, o commenti «idioti», mostrando ben poche emozioni profonde («come se fosse stato svuotato, senza più niente dentro» disse il padre); aveva perso interesse per gli eventi del presente; era disorientato – e completamente cieco. […]

Greg fu ricoverato in ospedale, visitato e trasferito in neurochirurgia. Gli esami avevano evidenziato un enorme tumore in posizione mediana, che stava distruggendo l’ipofisi, il chiasma e i tratti ottici e andava estendendosi in tutte le direzioni, verso i lobi frontali, i lobi temporali e il diencefalo. In sede chirurgica si scoprì che il tumore era un meningioma di natura benigna, che però era cresciuto fino ad avere le dimensioni di un piccolo pompelmo o di un’arancia; sebbene i chirurghi fossero riusciti a rimuoverlo quasi del tutto, non poterono cancellare il danno che esso aveva già arrecato. […]

Per me, questo aspetto della cecità di Greg, la sua singolare inconsapevolezza della propria condizione, il suo non sapere più il significato di parole come «vedere» o «guardare», erano fonte di grande perplessità. Tutto questo sembrava indicare la presenza di qualcosa di più strano e più complesso di un semplice «deficit»; sembrava piuttosto testimoniare una qualche alterazione radicale della struttura stessa della conoscenza, della coscienza e dell’identità. […]

I lobi frontali sono la parte più complessa del cervello; essi infatti non sono interessati alle funzioni «inferiori» del movimento e della sensazione, ma a quelle superiori di integrazione complessiva del giudizio e del comportamento, dell’immaginazione e dell’emozione; in altre parole, alla formazione di quell’identità unica che siamo soliti chiamare «personalità» o «sé». […]

 

Incontrai per la prima volta il dottor Carl Bennett a una conferenza scientifica sulla sindrome di Tourette che si teneva a Boston. Il suo aspetto era impeccabile: sulla cinquantina, di corporatura media, con barba e baffi appena brizzolati, sobriamente vestito con un abito scuro; impeccabile, sì, finché d’improvviso non si lanciava in un affondo, si allungava a toccare il pavimento o cominciava a sobbalzare e a saltellare. Fui colpito sia dai suoi tic bizzarri, sia dalla sua calma dignitosa. Quando espressi la mia incredulità sulla professione che aveva scelto, Bennett mi invitò ad andarlo a trovare e a trattenermi un po’ da lui, a Brànford, nella Columbia Britannica, dove egli viveva ed esercitava; così avrei potuto seguirlo nei giri di visite e in sala operatoria, l’avrei visto in azione. […]

 

Ma quando Virgil aprì il suo occhio dopo essere stato cieco per quarantacinque anni, e avendo alle spalle quasi soltanto l’esperienza visiva di un bambino di pochi mesi (peraltro ormai da tempo dimenticata), non c’erano ricordi visivi che potessero sostenere la sua percezione; non c’era alcun mondo di esperienza e significato ad attenderlo. Virgil vedeva, ma ciò che vedeva non aveva coerenza alcuna. La sua rètina e il suo nervo ottico erano attivi, trasmettevano impulsi, ma il suo cervello non riusciva a comprenderli; come dicono i neurologi, Virgil era agnosico. […]

Il comportamento di Virgil non era certo quello di un vedente, e tuttavia non era più nemmeno quello di un cieco. […]

 

Proprio mentre doveva prendere la tormentosa decisione, Franco fu colpito da una strana malattia, che infine lo portò al ricovero in un sanatorio. Ancora oggi, è tutt’altro che chiaro di quale malattia si trattasse. Certo ci fu la crisi della decisione, accompagnata da speranza e paura; ma ci furono anche febbre alta, delirio, dimagrimento e forse convulsioni; fu fatta l’ipotesi che Franco soffrisse di una tubercolosi, o di una psicosi, o di qualche disturbo neurologico. Ma nessuno comprese mai davvero che cosa fosse accaduto, e la natura della patologia rimane tuttora un mistero. Quel che è certo, comunque, è che al culmine della malattia, con il cervello forse stimolato dall’agitazione e dalla febbre, Franco cominciò ad avere, ogni notte e per tutta la notte, sogni straordinariamente realistici. […]

Per quanto dotato di una grandissima immaginazione, Franco non aveva mai avuto prima di allora visioni di tale intensità – immagini sospese in aria come apparizioni che gli promettevano una «riappropriazione» di Pontito. Ora esse sembravano dirgli: «Dipingici. Rendici reali». […]

 

Oggi è chiaro che la condizione patologica che chiamiamo autismo è sempre esistita e, pur essendo poco frequente, ha mietuto le sue vittime in tutte le epoche e le culture, suscitando sempre nella mente popolare un’attenzione ora divertita, ora timorosa o perplessa (e forse anche generando archetipi e personaggi mitici: quello dell’individuo strano e diverso, del bambino portato dalle fate, o di quello stregato da un incantesimo). […]

In quella via, dunque, ci imbattemmo in un’auto la cui targa si leggeva «autism» (c’era una probabilità su un milione, che potesse capitare). La indicai a Stephen: «Che cosa c’è scritto?».

Faticosamente, Stephen lesse una lettera alla volta: «A-U- T-I-S-M-2».

«Sì,» lo incoraggiai «e si legge…?».
«U… U… Utism» balbettò.
«Quasi, ma non proprio. Non “utism”: autism. Che cos’è l’autismo?».
«È quello che c’è sulla targa di quell’auto» rispose, e non si andò oltre. […]

 

È strano, ma moltissime persone, quando parlano di autismo, si riferiscono solo ai bambini e mai agli adulti, come se a un certo punto – non si sa come – i bambini sparissero dalla faccia della terra. Ma se è vero che all’età di due o tre anni l’autismo può comportare un quadro devastante, è anche vero che alcuni ragazzini autistici, contrariamente alle aspettative, riescono pian piano ad acquisire discrete capacità di linguaggio e qualche abilità sociale, perfino a conseguire apprezzabili risultati intellettuali; possono, insomma, diventare esseri umani autonomi, capaci di una vita almeno in apparenza piena e normale (anche se sotto la superficie può persistere un’individualità autistica profonda). […]

Temple mi disse che riusciva a comprendere le emozioni «semplici, forti, universali», ma che era sconcertata da quelle più complesse o simulate. «Molto spesso» mi confidò «mi sento come un antropologo su Marte».

 

Oliver Sacks

 

Oliver Sacks, “Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali”, Adelphi Edizioni, Milano, 1995.

https://www.adelphi.it/libro/9788845911453

La grande poesia di Piersanti, tra natura e malattia

Nostalgia e ricordo, dolore di un padre e incomunicabilità di un figlio: i sentimenti profondamente autentici, tracciati dalla penna dell’autore in una emozionante raccolta poetica.

Capita raramente di imbattersi in un libro di poesia che, come “L’albero delle nebbie” di Umberto Piersanti, ci riavvicini alla grande sorgente classica e alla non meno grande tradizione otto-novecentesca italiana. Una poesia in cui si colgono echi di Ovidio, Pascoli, Carducci… una volta per una citazione, un’altra per lo stile o per il tema: ma tutto questo senza che si profili mai l’ombra del plagio, al contrario, in una rielaborazione personalissima, intima nell’afflato e nel ricordo eppure oggettiva fino al cinismo nella descrizione della realtà.

I temi affrontati nel libro sono due: le Cesane che hanno fatto da sfondo ad altri libri di Piersanti e il figlio Jacopo, malato di un’incomunicabilità inaccessibile anche per i suoi affetti più vicini. Nei versi più legati alla terra natìa, la particolare campagna appenninica del Montefeltro, l’autore si dispiega in una serie di indicazioni e descrizioni storiche, famigliari ed ambientali: dalla guerra ai riti domestici, fino alla dolce litania di specie animali e vegetali. E’ soprattutto nel paesaggio che il ricordo reale si fonde con un immaginario evocativo, profondamente nostalgico. Nella parte dedicata al figlio, invece, emerge lo strazio di un padre impotente che pure trova, dentro la propria sofferenza, la forza e la ragione sufficienti per vivere. I due temi, poi, si mescolano progressivamente, fino quasi a rincorrersi l’un l’altro nella terza parte del libro.

E’ davanti a opere come queste che si spiega come Piersanti abbia ottenuto una candidatura al Nobel per la letteratura.

Marco Ferrazzoli

Umberto Piersanti, “L’albero delle nebbie” (Einaudi, 2008)

Il signor Parkinson, inquilino abusivo

L’autobiografia dell’incontro tra lo psicologo D’Antuono e il signor P. svela la malattia e la sottrae allo stigma del silenzio.

Tra le descrizioni della malattia come invasione fisica del nostro corpo, resta insuperato l’incipit de “Il cancro” di Giorgio Gaber: ‘E ti lasciano libero / con questa cosa dentro / con quel milione di molecole / che non ti ubbidiscono più’. “L’inquilino dentro” utilizza la stessa metafora, in modo però più leggero.

L’autore, Francesco D’Antuono, è uno psicologo che è stato colpito a soli 35 anni dal Parkinson, morbo che nella descrizione letteraria realizzata con il giornalista Giovanni Piazza diventa un occupante abusivo, il quale ‘si è impadronito della parte migliore del condominio’, cioè l’attico e l’impianto elettrico, il cervello e la dopamina. Il protagonista decide però di incontrare il ‘signor P’, di affrontarlo e combatterlo, usando come arma principale l’umorismo, l’ironia, talvolta un sarcasmo che appare persino eccessivo e imbarazzante per il lettore: ‘Come shakero i cocktail, nemmeno Tom Cruise’.

È però senz’altro condivisibile l’obiettivo generale del racconto, cioè svelare questa patologia senza infingimenti, poiché è proprio dal suo riconoscimento pubblico che nasce la possibilità per il malato di mantenere la propria dignità. Fondamentale, in tal senso, la testimonianza di Giovanni Paolo II: ‘I suoi predecessori avrebbero cercato di mascherare la faccenda, magari apparendo in pubblico il meno possibile. Lui invece l’ha mostrato urbi et orbi’; ‘Non so ancora come, ma qualcosa mi dice che ha steso il suo signor P. con quella manata data al leggio durante l’ultimo Angelus’. Essenziale è anche ricordare – come il libro fa, grazie ai contributi di alcuni medici – che il morbo di Parkinson è una malattia molto compromettente, ben al di là della sintomatologia più nota del tremore, e le sempre migliori prospettive che la ricerca offre oggi ai malati.

Marco Ferrazzoli

Francesco D’Antuono, Giovanni Piazza, “L’inquilino dentro” (Aracne, 2008)

http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/pubblicazione.html?item=9788854819399

L’ossimoro della malattia cronica

La forza della medicina narrativa in un libro la cui protagonista, convivente con la sclerosi multipla, si trova ad essere al tempo stesso medico e paziente.

Silvia Bonino è una psicologa, già autrice di numerosi saggi, che a un certo punto della sua esistenza si è trovata vivere la malattia dall’altra parte della barricata, quella del paziente, e che in tale duplice veste ha cercato di fare in modo che il malato e il terapeuta collaborassero ad affrontare insieme il terribile percorso della sclerosi multipla. Il nome della malattia viene a dire il vero citato di rado e con discrezione, mentre è più presente nel saggio-racconto il concetto di “malattia cronica”, cioè non curabile ma neppure immediatamente mortale, che quindi costringe a un’inabilità pesante e prolungata. Una sorta di ossimoro, profondamente contraddittorio per una società salutista come l’attuale, in cui si immaginano soprattutto le condizioni estreme della forma perfetta o della malattia incurabile, accettando come stato intermedio solo menomazioni leggere e temporanee. E’ proprio il radicale cambiamento della propria prospettiva esistenziale che il libro della Bonino pone al centro dell’analisi, a cominciare dal suo impatto iniziale, che si traduce nella domanda senza risposta: “Perché proprio a me?”. Molto condivisibile è, nell’autrice, la sua riflessione sulla impossibilità di trovare una vera ragione a un evento così eterodiretto – “Non avevo già pagato il mio tributo di sofferenza? Non avevo diritto a un po’ di serenità?” – e altrettanto profondamente giusta è la considerazione, ripresa dal diario di Etty Hillesum che costella di citazioni tutto il libro, che “non sono mai le circostanze esteriori” a minacciarci, ma la percezione interiore che ne abbiamo.

Marco Ferrazzoli

Silvia Bonino, “Mille fili mi legano qui” (Laterza, 2008)

https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788842079217

La vita: conoscere per giudicare

Dal genetista internazionale Edoardo Boncinelli, un vademecum completo e di grande chiarezza espositiva sui meccanismi dello sviluppo embrionale, fondamentale per affrontare con consapevolezza un tema delicato al centro del pubblico dibattito.

Edoardo Boncinelli, a lungo docente dell’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, ha condotto una lunga e prestigiosa carriera di genetista, che l’ha portato anche a lavorare a lungo al Cnr: prima borsista presso l’Istituto internazionale di genetica e biofisica di Napoli, poi direttore di ricerca del Centro per lo studio della farmacologia cellulare e molecolare.

Il grande pubblico, però, probabilmente lo conosce soprattutto per altre due attività importanti, quella di editorialista del Corriere della Sera e quella di autore di libri divulgativi.

In quest’ultima veste, Boncinelli ha dato alle stampe un saggio agile su “L’etica della vita”, un tema che insieme ad alcuni altri occupa il dibattito tra non specialisti e, dunque, rende quanto mai opportuno un minimo grado di diffusa e corretta informazione.

Il libro risponde a tale richiesta con un excursus molto completo ma di grande semplicità espositiva, grazie anche al glossarietto posto in appendice, che associa con grande equilibrio la descrizione asettica dei meccanismi genetici fondamentali e qualche incursione di carattere filosofico, inevitabilmente più soggettiva.

Ad esempio, ritornando alla propria primissima infanzia, l’autore fa coincidere identità e coscienza della persona: ‘Dal momento dei primi ricordi continuativi, io sono io’.

Siamo del resto in un terreno insidioso, dove anche l’affermazione apparentemente più innocua rischia di aprire dilemmi dilanianti, ma Boncinelli per la gran parte del testo offre soprattutto un prezioso servizio, fornendo sinteticamente gli elementi utili all’effettiva comprensione di termini ed espressioni di uso ormai corrente, quali ‘staminali embrionali’ o ‘diagnosi genetica pre-impianto’.

Il manualetto da un lato chiarisce meccanismi fondamentali dello sviluppo embrionale, senza contezza dei quali si rischiano nel giudizio deflagranti confusioni (pensiamo solo ai blastomeri e alla blastocisti); dall’altro lato, ci consente di ripescare qualche termine più piano ma sepolto tra le reminiscenze scolastiche, come gamete e zigote.

Un buon vademecum, insomma, se ci si vuol avvicinare al comunque non banale percorso della vita cellulare.

Il quesito finale, o fondamentale, di tutta la questione viene affrontato dall’autore nelle ultimissime pagine, dove si spiega che la diagnosi pre-impianto ‘sembrerebbe quindi il metodo ideale’ per impedire ‘la nascita di bambini gravemente malati’ evitando ‘il trauma dell’aborto terapeutico’, ma è disapprovata da chi considera il mancato impianto ‘come distruzione di vite umane’.

Analogo dilemma ‘squisitamente etico’ si pone su tutta una gamma di opportunità che la scienza sembra dischiudere in ordine alla durata, alla qualità e dunque alla ‘verità’ della vita.

Boncinelli, nell’ambito di questo dibattito, si sforza di lavorare per la comprensione tra le diverse posizioni, spesso abissalmente distanti.

Marco Ferrazzoli

Edoardo Boncinelli, “L’etica della vita” (Rizzoli, 2008)

La scheda sul sito dell’editore

Uccidere per pietà: quando l’handicap è la solitudine

Un libro doloroso, un dramma che testimonia le difficoltà dei familiari di persone portatrici di handicap gravi e sottolinea ancora una volta la necessità di investire sulle strutture sanitarie e sulla rete assistenziale.

Molti ricorderanno un caso che, pur nell’ormai quasi routinaria concitazione della cronaca nera domestica, ha colpito fortemente gli italiani che ne ebbero notizia: nel 2003 un borghesissimo medico romano uccise il figlio autistico, dopo l’ennesima giornata di vessazioni alle quali il ragazzo sottoponeva costantemente i genitori, nella totale solitudine familiare. Poco tempo dopo, relativamente ai tempi non fulminei della magistratura italiana, il padre, condannato per omicidio, veniva graziato dal presidente della Repubblica.

In questo libro che rievoca la storia della famiglia, basandosi soprattutto sugli appunti e sulle riflessioni disperate e dolenti dell’uomo, si intersecano numerosi piani di lettura. Uno, il più convincente, riguarda appunto la solitudine in cui vengono lasciate le famiglie degli handicappati gravi. Solitudine va qui inteso in un significato molto concreto e complesso: la forma autistica di Sergio, nato negli anni ’60, viene diagnosticata con un ritardo dovuto alla scarsa informazione del sistema sanitario italiano su questa patologia. Purtroppo, tale ritardo viene colmato, essendo la sintomatologia del bambino assai precoce ed eclatante, da una serie di valutazioni e terapie errate e costose. Ma anche dopo avere individuato che, purtroppo, Sergio soffre della forma più grave e aggressiva di questo ritardo mentale, l’appoggio delle strutture sanitarie pubbliche e private alla famiglia è irrisorio, spesso irritante e offensivo.

Molto meno convincente è la valutazione che l’autore de “Il mondo di Sergio” fa prendendo le mosse non dall’episodio dell’assassinio ‘per pietà’ ma dalla grazia concessa al padre dal Quirinale. Mauro Paissan estende infatti il concetto della pietà ‘pubblica’ alle richieste, spesso mosse in questi ultimi anni, di consentire l’eutanasia o il ‘suicidio assistito’ degli handicappati e dei malati incurabili. In realtà, l’esperienza di papà Salvatore e di sua moglie attestano che la morte non è il rimedio necessario, laddove si sollevino i cari dei malati dall’onere totale della cura e in particolare dall’angosciante domanda del ‘dopo di noi’: l’atto estremo raccontato nel libro avviene non tanto per l’esasperazione delle percosse, dei soldi dilapidati, della distruzione materiale e morale della casa, ma soprattutto perché il genitore si vede giunto a un’età nella quale la sua possibilità di accudire il figlio va esaurendosi, senza che le strutture prospettino all’ormai quarantenne Sergio una assistenza civile e dignitosa.

Marco Ferrazzoli

Mauro Paissan, “Il mondo di Sergio” (Fazi, 2008)

Medici, malati e il miracolo della vita

Le parole e le vicende del dottor Melazzini, che convive dal 2003 con la Sclerosi Laterale Amiotrofica, rappresentano una preziosa testimonianza di resilienza e profonda voglia di vivere.

Nell’ampissima diaristica sulla malattia, anche il filone dei medici-malati è ormai cospicuo. Tra questi particolari testimoni, Mario Melazzini ha assunto una certa notorietà, grazie anche ad alcune partecipazioni televisive in cui ha saputo “bucare” il video, trasferendo agli spettatori l’eroico entusiasmo con cui sopporta la sua condizione di malato di Sclerosi laterale amiotrofica. Oggi Melazzini unisce la presidenza dell’Aisla all’attività presso la Fondazione Maugeri di Pavia e, superato il trauma solo lontanamente immaginabile che ha sconvolto la sua vita di medico sano, di successo e con bella famiglia, con l’handicap ha imparato ad avvicinare i malati ‘dall’altra parte’.

Melazzini è protagonista di tre libri recenti. Il primo è “Un medico, un malato, un uomo”, autobiografia mirata in primis ai colleghi che della loro condizione culturale e di salute fanno un elemento di superiorità nei confronti dei pazienti, distorcendo così l’opportuno distacco che devono mantenere per essere professionalmente efficienti. A tutti, poi, il libro insegna come praticare l’amore verso se stessi e gli altri, godendo ‘ogni minuto del miracolo di essere vivo’: una santità, intesa come completezza dell’essere, cui purtroppo ci avviciniamo solo quando capiamo che tale miracolo non è affatto scontato.

Melazzini è anche prefatore di una collettanea di casi di malati di Sla, uno dei quali purtroppo scomparso prima della pubblicazione, che ribadisce la stessa testimonianza di fede cristiana e umana. Il curatore de “L’inguaribile voglia di vivere”, Massimo Pandolfi, ammette in introduzione, vergognandosene, di avere usato per definire questo lavoro l’espressione di ‘le storie degli anti-Welby’. In realtà non c’è nessuna ostilità verso la scelta di Piergiorgio Welby e degli altri malati che, come lui, chiedono di essere aiutati a morire, ma la volontà di rappresentare la scelta ‘che i mass media non raccontano’ di moltissimi uomini e donne che, inchiodati in un letto, senza poter mangiare né respirare naturalmente e bisognosi di un’assistenza continua, vogliono vivere per ‘aggiungere vita ai giorni e non giorni alla vita’.

Il terzo riferimento editoriale è il capitolo dedicato a Melazzini da Stefano Lorenzetto in “Vita, morte e miracoli”, un’altra raccolta di storie che trattano esperienze di entusiasmo vitale, di fede nell’uomo e in Dio, di speranza che non si arrende neppure davanti alle malattie più gravi, dolorose, invalidanti e incurabili.

Marco Ferrazzoli

Mario Melazzini, Un medico, un malato, un uomo (Lindau, 2007)

Massimo Pandolfi, L’inguaribile voglia di vivere (Ares, 2007)

Stefano Lorenzetto, Vita, morte e miracoli (Marsilio, 2007)