Canto di Natale

Nel Canto di Natale di Charles Dickens, Tim, bambino storpio, che si aiuta con una stampella per camminare, confida nello spirito natalizio per essere accettato dalla comunità dei fedeli.

Così Marta si nascose ed entrò il piccolo Bob, il padre, con almeno tre piedi di sciarpa, senza contare la frangia, che gli pendeva davanti e i vestiti logori, rammendati e spazzolati che sembravano nuovi, e Tiny Tim sulle spalle. Povero Tim, portava una piccola stampella e aveva le membra sostenute da una struttura di ferro.

[…] <<Come si è comportato Tim?>>, chiese la signora Cratchit, dopo essersi burlata di Bob per la sua credulità e dopo che Bob si fu saziato di tenersi stretta la figlia.

<<Buono come l’oro>>, disse Bob, <<e anche più buono. Qualche volta si mette a pensare, giacchè passa tanto tempo a sedere solo solo, e pensa le cose più strane che si possano immaginare. Tornando a casa, mi ha detto che sperava che la gente lo avesse visto in chiesa, perché era storpio e per loro poteva essere un piacere ricordarsi nel giorno di Natale di Colui che fece camminare gli storpi e vedere i ciechi>>

Nel dire queste parole, la voce di Bob tremava e si mise a tremare ancor più quando disse che Tim stava facendosi forte e coraggioso.

Si udì sul pavimento il rumore della sua piccola stampella, e Tiny Tim tornò indietro prima che fosse stata detta un’altra parola, scortato dal fratello e dalla sorella fino al suo panchetto accanto al fuoco.

[…] <<Dio ci benedica, ciascuno di noi!>>, disse Tim per ultimo. Stava seduto sul suo panchetto vicinissimo al padre, e Bob teneva nella propria la sua esile manina, come se avesse amato quel bambino, desiderato di tenerselo accanto e temuto che potessero portarglielo via.

<<Spirito>>, disse Scrooge, con un interessamento che non aveva mai provato prima di allora, <<dimmi se Tim vivrà.>>

<<Vedo una sedia vuota>> replicò lo Spirito, <<nell’angolo di quel misero caminetto e una gruccia senza proprietario, conservata con ogni cura. Se queste ombre rimangono inalterate nel futuro il bimbo non morirà.>>

<<No, no>>, disse Scrooge. <<Oh no, Spirito buono. Dimmi che sarà risparmiato.>>

<<Se queste ombre rimangono inalterate nel futuro, nessun altro della mia razza>>, replico lo Spirito, <<lo troverò più qui, ma che importa? Se deve morire, è meglio che muoia e faccia diminuire la popolazione in sovrappiù.>>

Nel sentire lo Spirito citare le sue stesse parole, Scrooge chinò la testa e si sentì schiacciato dal pentimento e dal rimorso.

Charles Dickens

Treccani Enciclopedia Online

Charles Dickens, “Canto di Natale” (1843)

Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali

Oliver Sacks presenta sette persone diverse, con le loro peculiarità, il loro vissuto e le straordinarie abilità sviluppate da ciò che per i più è una menomazione. Non casi, ma singoli individui da cui imparare ancora il potenziale creativo derivato dalla patologia.

 

Egli sapeva dire il colore di ogni cosa con una straordinaria precisione (era in grado di indicare non solo il nome del colore, ma anche il numero con il quale era riportato in un catalogo Pantone che aveva usato per anni). E così riusciva a identificare senza esitazione il verde del tavolo da bigliardo di van Gogh. Il signor I. sapeva quali fossero i colori di tutte le sue pitture preferite, ma non poteva più vederli, né con gli occhi, né con la mente: probabilmente la sua conoscenza del colore si fondava ora esclusivamente sulla memoria verbale. […]

In seguito, egli affermò che né «grigio» né «plumbeo» trasmettevano, sia pur lontanamente, le reali sembianze del suo mondo. Ciò che egli percepiva non era il solito «grigio»: si trattava di altre qualità percettive che non hanno equivalenti nell’esperienza e nel linguaggio ordinari. […]

Il signor I. non rappresentava solo un caso relativamente puro di acromatopsia cerebrale (quasi non contaminato da altri difetti nella percezione della forma, del movimento o della profondità), ma era anche un testimone esperto dotato di un’intelligenza superiore, capace di disegnare e di riferire quel che vedeva. […]

 

Quando lo videro, furono travolti dall’orrore: il loro ragazzo, che ricordavano snello e con i capelli lunghi, era diventato grasso e calvo; aveva stampato sul volto un perenne sorriso «ebete» (questo fu almeno il termine usato dal padre per descriverlo); continuava a borbottare brevi frammenti di canzoni o di versi, o commenti «idioti», mostrando ben poche emozioni profonde («come se fosse stato svuotato, senza più niente dentro» disse il padre); aveva perso interesse per gli eventi del presente; era disorientato – e completamente cieco. […]

Greg fu ricoverato in ospedale, visitato e trasferito in neurochirurgia. Gli esami avevano evidenziato un enorme tumore in posizione mediana, che stava distruggendo l’ipofisi, il chiasma e i tratti ottici e andava estendendosi in tutte le direzioni, verso i lobi frontali, i lobi temporali e il diencefalo. In sede chirurgica si scoprì che il tumore era un meningioma di natura benigna, che però era cresciuto fino ad avere le dimensioni di un piccolo pompelmo o di un’arancia; sebbene i chirurghi fossero riusciti a rimuoverlo quasi del tutto, non poterono cancellare il danno che esso aveva già arrecato. […]

Per me, questo aspetto della cecità di Greg, la sua singolare inconsapevolezza della propria condizione, il suo non sapere più il significato di parole come «vedere» o «guardare», erano fonte di grande perplessità. Tutto questo sembrava indicare la presenza di qualcosa di più strano e più complesso di un semplice «deficit»; sembrava piuttosto testimoniare una qualche alterazione radicale della struttura stessa della conoscenza, della coscienza e dell’identità. […]

I lobi frontali sono la parte più complessa del cervello; essi infatti non sono interessati alle funzioni «inferiori» del movimento e della sensazione, ma a quelle superiori di integrazione complessiva del giudizio e del comportamento, dell’immaginazione e dell’emozione; in altre parole, alla formazione di quell’identità unica che siamo soliti chiamare «personalità» o «sé». […]

 

Incontrai per la prima volta il dottor Carl Bennett a una conferenza scientifica sulla sindrome di Tourette che si teneva a Boston. Il suo aspetto era impeccabile: sulla cinquantina, di corporatura media, con barba e baffi appena brizzolati, sobriamente vestito con un abito scuro; impeccabile, sì, finché d’improvviso non si lanciava in un affondo, si allungava a toccare il pavimento o cominciava a sobbalzare e a saltellare. Fui colpito sia dai suoi tic bizzarri, sia dalla sua calma dignitosa. Quando espressi la mia incredulità sulla professione che aveva scelto, Bennett mi invitò ad andarlo a trovare e a trattenermi un po’ da lui, a Brànford, nella Columbia Britannica, dove egli viveva ed esercitava; così avrei potuto seguirlo nei giri di visite e in sala operatoria, l’avrei visto in azione. […]

 

Ma quando Virgil aprì il suo occhio dopo essere stato cieco per quarantacinque anni, e avendo alle spalle quasi soltanto l’esperienza visiva di un bambino di pochi mesi (peraltro ormai da tempo dimenticata), non c’erano ricordi visivi che potessero sostenere la sua percezione; non c’era alcun mondo di esperienza e significato ad attenderlo. Virgil vedeva, ma ciò che vedeva non aveva coerenza alcuna. La sua rètina e il suo nervo ottico erano attivi, trasmettevano impulsi, ma il suo cervello non riusciva a comprenderli; come dicono i neurologi, Virgil era agnosico. […]

Il comportamento di Virgil non era certo quello di un vedente, e tuttavia non era più nemmeno quello di un cieco. […]

 

Proprio mentre doveva prendere la tormentosa decisione, Franco fu colpito da una strana malattia, che infine lo portò al ricovero in un sanatorio. Ancora oggi, è tutt’altro che chiaro di quale malattia si trattasse. Certo ci fu la crisi della decisione, accompagnata da speranza e paura; ma ci furono anche febbre alta, delirio, dimagrimento e forse convulsioni; fu fatta l’ipotesi che Franco soffrisse di una tubercolosi, o di una psicosi, o di qualche disturbo neurologico. Ma nessuno comprese mai davvero che cosa fosse accaduto, e la natura della patologia rimane tuttora un mistero. Quel che è certo, comunque, è che al culmine della malattia, con il cervello forse stimolato dall’agitazione e dalla febbre, Franco cominciò ad avere, ogni notte e per tutta la notte, sogni straordinariamente realistici. […]

Per quanto dotato di una grandissima immaginazione, Franco non aveva mai avuto prima di allora visioni di tale intensità – immagini sospese in aria come apparizioni che gli promettevano una «riappropriazione» di Pontito. Ora esse sembravano dirgli: «Dipingici. Rendici reali». […]

 

Oggi è chiaro che la condizione patologica che chiamiamo autismo è sempre esistita e, pur essendo poco frequente, ha mietuto le sue vittime in tutte le epoche e le culture, suscitando sempre nella mente popolare un’attenzione ora divertita, ora timorosa o perplessa (e forse anche generando archetipi e personaggi mitici: quello dell’individuo strano e diverso, del bambino portato dalle fate, o di quello stregato da un incantesimo). […]

In quella via, dunque, ci imbattemmo in un’auto la cui targa si leggeva «autism» (c’era una probabilità su un milione, che potesse capitare). La indicai a Stephen: «Che cosa c’è scritto?».

Faticosamente, Stephen lesse una lettera alla volta: «A-U- T-I-S-M-2».

«Sì,» lo incoraggiai «e si legge…?».
«U… U… Utism» balbettò.
«Quasi, ma non proprio. Non “utism”: autism. Che cos’è l’autismo?».
«È quello che c’è sulla targa di quell’auto» rispose, e non si andò oltre. […]

 

È strano, ma moltissime persone, quando parlano di autismo, si riferiscono solo ai bambini e mai agli adulti, come se a un certo punto – non si sa come – i bambini sparissero dalla faccia della terra. Ma se è vero che all’età di due o tre anni l’autismo può comportare un quadro devastante, è anche vero che alcuni ragazzini autistici, contrariamente alle aspettative, riescono pian piano ad acquisire discrete capacità di linguaggio e qualche abilità sociale, perfino a conseguire apprezzabili risultati intellettuali; possono, insomma, diventare esseri umani autonomi, capaci di una vita almeno in apparenza piena e normale (anche se sotto la superficie può persistere un’individualità autistica profonda). […]

Temple mi disse che riusciva a comprendere le emozioni «semplici, forti, universali», ma che era sconcertata da quelle più complesse o simulate. «Molto spesso» mi confidò «mi sento come un antropologo su Marte».

 

Oliver Sacks

 

Oliver Sacks, “Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali”, Adelphi Edizioni, Milano, 1995.

https://www.adelphi.it/libro/9788845911453

Gert Hofmann – La parabola dei ciechi

A circa quattrocento anni  dall’omonimo dipinto di Bruegel, Gert Hofmann decise di narrare il quadro, raccontando l’umanità dei personaggi, sull’ipotesi che  si possa spiegare un’immagine a partire dalla prospettiva di un gruppo di sei persone cieche.

 

I sei mendicanti ciechi che devono fare da “modelli” a Bruegel per il quadro eponimo del libro affrontano il viaggio per recarsi dal pittore dove si fermano a posare. Lo stile è una curiosa prima persona plurale, che accentua il carattere straniato, precario, incerto, l’immobilità e la vaghezza del romanzo. Probabilmente influenza teatrale brechtiana (e anche Beckett) ma soprattutto sensazione di cecità narrativa, per così dire. Sono un soldato, un ladro, un credente, un ipovedente, Ripolus, che li guida. Tra l’altro si affidano a un bambino, affrontano lo scherno, mangiano, fanno i propri bisogni.

Si parte dal proverbio “Quando un uomo cieco ne guida un altro, ambedue cadranno nella fossa” portando la situazione all’estremo

“Forse sembriamo una famiglia, ma non lo siamo. Un giorno siamo sbucati, uno dopo l’altro, fuori dal bosco, e poiché nessuno aveva in mente qualcosa di preciso, abbiamo proseguito insieme, questo è quanto è successo. Da allora la gente pensa che siamo un tutt’uno.”

il gruppo diviene un individuo unico, indistinguibile e perso

“E abbiamo la sensazione che qui, dove noi adesso urliamo e dove deve esserci anche lo stagno, abbia fine una regione del mondo, si trasformi in un’altra. E su questo confine stiamo noi, rivolti verso l’altra regione, e dentro questo paesaggio immaginato da tutti noi insieme e separatamente urliamo con le bocche spalancate, che tutti coloro che hanno occhi per vedere possono studiare su di noi.”

M. Ferrazzoli

 

Gert Hoffman

La parabola dei ciechi

Editore Racconti, collana Gli scarafaggi

 

Link: https://culturificio.org/la-parabola-dei-ciechi-di-gert-hofmann/

Guglielmo Petroni – Le macchie di Donato

L’approccio alla cecità in modo opposto: cosa significa riprendere la vista? E’ sempre una rivelazine, un miglioramento…oppure no?

 

Nel racconto “le macchie di Donato” Petroni  tratta  di un accessorio essenziale ma poco citato: gli occhiali: “Mi hai rovinato”, è la frase dell’amico Pilade che richiama dopo una serie di insulti. L’amico, vero amico, corre a trovarlo per capire. “Si mise una mano in tasca e tirò fuori un paio d’occhiali in un astuccio di pelle. ‘Vedi, dopo tanti anni ho seguito il tuo consiglio… Quando sono uscito dall’ottico e mi sono messo gli occhiali, per prima cosa ho veduto gli alberi di piazza Cavour. Tu sai quanto ami il verde e tutti gli aspetti della natura, ma questa volta ne sono rimasto rivoltato: le belle masse sfumate col cielo, con le cose circostanti, le sfumature di colore, i tenui passaggi che ho tanto amato non esistevano più… Un mondo così crudo mi è venuto incontro, volgare in confronto a quello che io conosco”. E’ un’ironia leggera, poiché riferita all’acquisto degli occhiali, ma che in forma più  grave si ritrova anche in chi ritrova la vista dopo la cecità, e si deve confrontare con un mondo sconosciuto, e nn sempre positivo.

 

Guglielmo Petroni

Le macchie di Donato

1968, Editore Bietti, collana il girasole

Giovanni Pascoli – Myricae

La cecità è un tema molto presente nelle poesie di Giovanni Pascoli, e fa parte di “tristezze” all’interno della raccolta Myricae del 1891

 

XII

I ciechi

Siedono lungo il fosso, al solleone,
fuor dello stormeggiante paesello.
Passa un trotto via via tra il polverone,
una pesta, un alterco, uno stornello:

e da terra una grave salmodia
si leva, una preghiera, al lor cospetto.
— Il nostro pane — gemono via via:
il nostro, il nostro: tu, Gesù, l’hai detto.

 

Si nota la rappresentazione dolente dei ciechi, ignorati dai passanti, con la loro preghiera chiedono agli occhi di Gesù di essere considerati come tutti gli altri, ed avere diritto al pane quotidiano cme tutti, come clor dai quali vengono ignorati.

 

link: http://myricaepoesie.blogspot.com/2013/06/myricae-27.html

Ippolito Nievo – Confessioni di un italiano

In forma di autobiografia,  il protagonista Carlo Altoviti, racconta le vicende del Risorgimento Italiano e dell’Unità d’Italia. Sottolineiamo qui la descrizione di Carlino, un patriota cieco, per cui la ripresa della vista è metafora della ripresa della visione del paese Italia

 

Carlino è un patriota che ha perso la vista in carcere. “Il quarto mese cominciai a vedere quel pezzetto di mondo traverso una nebbia. Al quinto cominciò a calare un gran buio”. Data l’infermità, viene graziato della pena e si reca in esilio, a Londra, dove viene curato da un medico, Vianello, anch’egli profugo. Lo accompagna la Pisana, che gli si dedica con un eroismo che giunge al sacrificio: “Si sentiva morire e parlava di convalescenza, aveva il fuoco d’una febbre micidiale e compativa il mio male come se il suo non fosse degno che se ne parlasse… Quanto avrei pagato un barlume di luce per intravvedere le sue sembianze”. Il medico, l’amico, il compagno Lucilio è un realista: “Son invecchiato nella professione eppure ancora ieri mattina ho lasciato un malato che sembrava in via di miglioramento e la sera l’ho trovato morto”. Le premesse non sembrerebbero ottimistiche, ma l’operazione riesce: “Lucilio esaminò attentamente i miei occhi e dettomi che erano coperti da cateratte e che entro pochi mesi sarebbero maturate per l’operazione della quale non dubitava punto che sarebbe meravigliosamente riuscita… Oh il gran dono è la luce! Non l’apprezza degnamente che chi l’ha perduta”. Così, nella malattia si stringe un sodalizio politico, si cementa una fede comune, tornare a vedere come tornare in Italia.

M.Ferrazzoli

 

Confessioni di un italiano

Ippolito Nievo

 

Link: https://www.ibs.it/confessioni-d-italiano-libro-ippolito-nievo/e/9788811379577

Nel paese dei ciechi

In una comunità delle Ande ecuadoriane abitata solo da persone non vedenti, è il protagonista a diventare ‘minorato’: oltre a essere molto meno abile nell’uso di altre facoltà quali tatto e udito, non riesce a spiegare in cosa consista la facoltà della vista, che solo lui possiede.

Racconto ostentatamente, forse eccessivamente, allegorico, ‘Nel Paese dei Ciechi’ racconta la breve avventura di un vedente che, vagando per le Ande ecuadoriane, capita in una vallata abitata solo da persone che non vedono e che hanno costruito la loro comunità sull’uso degli altri sensi, nei quali sono diventati tanto abili da poter condurre tutte le normali attività sociali.

La mancanza della vista li ha però indotti a un sovvertimento del ritmo giorno-notte, che per loro consiste in caldo-freddo, inducendoli a preferire il secondo per il lavoro, e alla totale amputazione, dal loro orizzonte concettuale, delle stesse idee per noi legate alla percezione e alla rappresentazione visiva.

Per questo, il contatto con lo straniero vedente si trasforma in un paradossale capovolgimento: è lui il ‘minorato’, non solo perché è molto meno abile nell’uso del tatto o dell’udito, ma anche perché i tentativi del protagonista di spiegare in cosa consista questa facoltà che solo lui possiede vengono interpretate come stravaganze oniriche, fantasie di un disturbato mentale, psicosi fuorvianti.

Persino nel confronto fisico, Nuñez fatica a imporre il vantaggio fornitogli dalla sua particolarità. L’unica abitante del Paese dei Ciechi ad apprezzare la sua originalità è Medina-saroté, non a caso considerata dai suoi concittadini una ‘svantaggiata’, poiché ancora conserva tracce dei bulbi oculari che, nella loro curiosa ‘evoluzione’, gli altri abitanti ormai non possiedono più e che, proprio per questo, è considerata da Nuñez l’unica ragazza apprezzabile.

La breve favola triste di Wells termina nella stessa cupezza che ne connota tutto lo sviluppo e il significato. In essa, come nelle altre sue più celebri opere, su tutte ‘La guerra dei mondi’, lo scienziato e narratore inglese trasferisce le proprie competenze naturalistiche in una visione surreale, onirica, inquietante.

Marco Ferrazzoli

Herbert George Wells, Il Paese dei ciechi (Adelphi, 2008 – quinta edizione)

La scheda sul sito dell’editore