“Il quarto cavaliere”: breve storia di epidemie, pestilenze e virus

Un saggio storico sulla convivenza tra l’uomo e malattie infettive, una riflessione sul ruolo delle pestilenze negli equilibri tra le civiltà umane, reso ancor più attuale alla luce degli sconvolgimenti causati dalla recente pandemia.

Uno dei saggi giustamente rimasti più celebri nella recente esegesi storica è “Armi, acciaio e malattie” di Jared Diamond, nel quale, sin dal titolo, un ruolo fondamentale viene assegnato alle epidemie nella evoluzione storica delle civiltà che ci hanno preceduto. Su questo elemento, “Il quarto cavaliere”, facendo riferimento alla celebre metafora dell’Apocalisse, esce adesso negli Oscar Mondadori un saggio specifico di Andrew Nikiforuk che traccia proprio una “breve storia di epidemie, pestilenze e virus”. Si tratta in realtà di uno studio dei primi anni ’90, come chiarisce l’autore in una nota nella quale precisa l’intento etico della sua opera: “Spero di spingere i lettori a condurre una vita più sana e a combattere per comunità più verdi, liberandosi dalle illusioni tecnologiche”. Un motto programmatico piuttosto deciso ed estremo, come si vede, che il giornalista canadese ripete incessantemente nei vari capitoli, spingendosi ad assiomi francamente sconcertanti come quello di annoverare tra “le grandi menzogne del XX secolo” quella che “gli antibiotici, i medici e i vaccini ci abbiano salvato”. Da un lato, insomma, l’autore si schiera decisamente contro lo scientismo e il progresso tecnologico, dall’altro rivanga come epoca aurea quella in cui l’umanità affrontava una vita di mera, dura sopravvivenza: “Gli uomini del passato, raccoglitori di noci con la lancia sotto il braccio, erano esemplari magnifici”, mentre i loro successori coltivatori “relativamente sedentari, erano individui curvi e affamati. Mangiavano troppi carboidrati e i loro denti marcivano”. Tutto questo, dunque, molto prima che arrivassero i fast food…

Se si prescinde da questo tipo di considerazioni, però, il libro è davvero interessante per la messe di informazioni storiche che fornisce in ordine al ruolo che malattie ed epidemie hanno assunto nello squilibrare i rapporti di forza tra gli Stati, le culture e le civiltà umane. Per esempio, quella sorprendente per cui “la malaria ha ucciso la metà degli uomini, donne e bambini che sono deceduti sulla terra” fino all’ultima guerra mondiale. Ciò su cui Nikiforuk ha certamente ragione è che il caso e l’eterogenesi hanno sempre giocato un ruolo determinante nel progresso umano, ad esempio la lebbra è sempre stata condizionata da fattori igienici e dunque, indirettamente, dalla disponibilità di tessuti per potersi cambiare più frequentemente d’abito: fu dunque la peste, diminuendo in modo spaventoso il numero di persone e aumentando le pecore e la lana pro-capite ad aiutare la scomparsa della lebbra in Europa. Tranne quella del Nord, dove essa restò diffusa molto più a lungo, in Norvegia addirittura fino a fine ‘800.

Marco Ferrazzoli

Andrew Nikiforuk, “Il quarto cavaliere” (Mondadori, 2008)

https://www.mondadoristore.it/quarto-cavaliere-Breve-Andrew-Nikiforuk/eai978880457834/

Medici, malati e il miracolo della vita

Le parole e le vicende del dottor Melazzini, che convive dal 2003 con la Sclerosi Laterale Amiotrofica, rappresentano una preziosa testimonianza di resilienza e profonda voglia di vivere.

Nell’ampissima diaristica sulla malattia, anche il filone dei medici-malati è ormai cospicuo. Tra questi particolari testimoni, Mario Melazzini ha assunto una certa notorietà, grazie anche ad alcune partecipazioni televisive in cui ha saputo “bucare” il video, trasferendo agli spettatori l’eroico entusiasmo con cui sopporta la sua condizione di malato di Sclerosi laterale amiotrofica. Oggi Melazzini unisce la presidenza dell’Aisla all’attività presso la Fondazione Maugeri di Pavia e, superato il trauma solo lontanamente immaginabile che ha sconvolto la sua vita di medico sano, di successo e con bella famiglia, con l’handicap ha imparato ad avvicinare i malati ‘dall’altra parte’.

Melazzini è protagonista di tre libri recenti. Il primo è “Un medico, un malato, un uomo”, autobiografia mirata in primis ai colleghi che della loro condizione culturale e di salute fanno un elemento di superiorità nei confronti dei pazienti, distorcendo così l’opportuno distacco che devono mantenere per essere professionalmente efficienti. A tutti, poi, il libro insegna come praticare l’amore verso se stessi e gli altri, godendo ‘ogni minuto del miracolo di essere vivo’: una santità, intesa come completezza dell’essere, cui purtroppo ci avviciniamo solo quando capiamo che tale miracolo non è affatto scontato.

Melazzini è anche prefatore di una collettanea di casi di malati di Sla, uno dei quali purtroppo scomparso prima della pubblicazione, che ribadisce la stessa testimonianza di fede cristiana e umana. Il curatore de “L’inguaribile voglia di vivere”, Massimo Pandolfi, ammette in introduzione, vergognandosene, di avere usato per definire questo lavoro l’espressione di ‘le storie degli anti-Welby’. In realtà non c’è nessuna ostilità verso la scelta di Piergiorgio Welby e degli altri malati che, come lui, chiedono di essere aiutati a morire, ma la volontà di rappresentare la scelta ‘che i mass media non raccontano’ di moltissimi uomini e donne che, inchiodati in un letto, senza poter mangiare né respirare naturalmente e bisognosi di un’assistenza continua, vogliono vivere per ‘aggiungere vita ai giorni e non giorni alla vita’.

Il terzo riferimento editoriale è il capitolo dedicato a Melazzini da Stefano Lorenzetto in “Vita, morte e miracoli”, un’altra raccolta di storie che trattano esperienze di entusiasmo vitale, di fede nell’uomo e in Dio, di speranza che non si arrende neppure davanti alle malattie più gravi, dolorose, invalidanti e incurabili.

Marco Ferrazzoli

Mario Melazzini, Un medico, un malato, un uomo (Lindau, 2007)

Massimo Pandolfi, L’inguaribile voglia di vivere (Ares, 2007)

Stefano Lorenzetto, Vita, morte e miracoli (Marsilio, 2007)

Esordio letterario di un giovane fisico

Un imperdibile romanzo d’esordio, ormai un caso letterario, trasposto nel 2010 in un toccante film.

Paolo Giordano è un giovane fisico, dottorando all’Università di Torino, e più di qualcosa della sua biografia dev’essere impresso nella figura del protagonista del suo romanzo d’esordio: il Mattia di “La solitudine dei numeri primi”, un geniale fisico che lavora come docente e ricercatore presso un’ateneo nordeuropeo. Ma, soprattutto, la formazione scientifica dell’autore si riflette nella precisa ingegneria del libro: la scansione temporale dei capitoli che accompagnano Mattia e la coprotagonista Alice, l’alternanza tra forma diretta e indiretta del racconto, il passaggio dal Bildungsroman (romanzo di formazione) alla storia d’amore, l’inserimento dei personaggi minori. La descrizione della crudeltà che bambini e adolescenti sono capaci di esprimere con i coetanei, ad esempio, è raccontata con efficacissima discrezione.

Ma la miglior riuscita, Giordano la raggiunge nella descrizione dello sgomento con cui gli adulti affrontano le difficoltà di crescita dei ragazzi e in particolare il confronto con l’handicap, tema centrale che il titolo esprime con un’efficace metafora matematica. Mattia, dopo aver provocato la scomparsa della gemella Michela (ritardata mentale), palesa pesanti sintomi autolesionistici e una sindrome autistica descritta in modo un po’ forzato, secondo lo schematismo invalso nella fiction dopo il successo di “Rain Man”. Molto più convincente la descrizione di Alice, anoressica e claudicante dopo un incidente di sci avvenuto da bambina.

La storia si perde solo nella ricerca un po’ sovresposta (per usare un’immagine della professione di Alice, fotografa) della ‘quadra’ finale. Ma, nel complesso, Giordano si candida come l’autorevole erede della narrativa formalmente fredda ma molto intensa nei contenuti che fu del miglior Andrea de Carlo, specialmente dopo gli ultimi e deludenti esiti dello scrittore milanese.

Marco Ferrazzoli

Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori, 2010)

https://www.mondadoristore.it/La-solitudine-dei-numeri-primi-Paolo-Giordano/eai978880458965/

Giovani, vittime del nulla

Un libro sui giovani e sul loro rapporto con famiglia, scuola e società, che sembrano averli confinati in spazi vuoti, senza prospettive. Un invito a valorizzare l’altro e a curare il processo di formazione dell’identità come antidoto al vuoto.

Si utilizzano termini diversi, per definire più o meno lo stesso concetto: depressione, apatia, indifferenza, talvolta ‘antipolitica’ o, di recente, ‘implosione’. Ciò che si vuole esprimere è il nulla che la nostra società sembra avere posto al centro della propria vita. Umberto Galimberti preferisce rimandare al termine più corretto: ‘nichilismo’. Non solo perché deriva appunto da ‘nihil’, niente, ma perché tale processo ha precedenti storico-filosofici precisi, che sono stati codificati proprio con tale termine. Galimberti si dedica alla crisi valoriale contemporanea da molto tempo, con la puntualità quasi quotidiana che le collaborazioni giornalistiche gli consentono e da un duplice punto di vista, filosofico e psicologico. E’ infatti docente di entrambe le discipline presso l’Università di Venezia. Quest’ambivalenza gli consente di non distorcere l’analisi, come agli specialisti dell’uno o dell’altro campo spesso capita, concentrandosi solo sugli aspetti individuali della crisi (il calo di serotonina, per capirci), oppure banalizzando i meccanismi di induzione ed emulazione (la facile eziologia che di volta in volta chiama in causa la famiglia, la scuola, i media). Va anche detto con franchezza che a rendere credibile l’analisi di Galimberti è la sua disinibizione ideologica, che gli permette, senza assumere nessuna posizione ottusamente conservatrice, di rifiutare recisamente la mitologia progressista. Anzi, la ‘razionalizzazione tecnico-scientifica’ e il ‘politeismo dei valori’ sono messi sotto accusa chiaramente, sin dall’inizio de “L’ospite inquietante”, come i correi di quello che possiamo definire, citando Nietzsche, il ‘circolo dei valori superati e lasciati cadere’. L’attenzione del libro si incentra sulle conseguenze provocate dal nichilismo sui giovani, che in quanto più fragili sono le vittime predilette del vuoto, il quale tramite loro paradossalmente costituisce il proprio futuro, le fondamenta del ‘nulla futuro’.

Marco Ferrazzoli

Umberto Galimberti, “L’ospite inquietante” (Feltrinelli, 2007)

https://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/lospite-inquietante/

Medico, parla come curi

La querelle sul ‘medichese’ non è certo nuova. La richiesta di un linguaggio più chiaro e comprensibile da parte dei professionisti della salute è anzi diffusa da tempo. A sostenerla, tra gli altri, il gastroenterologo e divulgatore Giorgio Dobrilla che in questo “Dottore… mi posso fidare?” stila un vero “manuale di medicina comprensibile”. Il problema è complesso e riguarda la necessità di stabilire tra chi fornisce e chi riceve la cura una comunicazione corretta ed efficace, che superi il linguaggio specialistico per stabilire un circolo virtuoso. Il libro è indirizzato al grande pubblico, a medici e studenti. Ma attenzione: non si tratta semplicemente di ‘parlare chiaro’, come se i dottori ‘se la tirassero’, cercando di darsi un tono tramite l’uso di termini esoterici (difetto che forse hanno, condividendolo con molte altre categorie). Come sostiene nella prefazione al volume Silvio Garattini, la medicina deve soprattutto “uscire dall’equivoco delle facili impressioni, per imboccare la difficile strada delle evidenze”, così come nel campo farmacologico “troppe ambiguità e troppi interessi tendono infatti a deformare la percezione dell’efficacia e della tossicità di un farmaco. Innanzitutto, la legislazione tende a privilegiare la visione dei farmaci come beni di consumo, anziché come strumento di salute”.

 

Marco Ferrazzoli

 

Giorgio Dobrilla, “Dottore…mi posso fidare?” (Avverbi, 2007)

Meriti e limiti della rivoluzione basagliana


Le voci delle persone fuoriuscite dai manicomi raccolte dall’autore, testimonianze di vite che rinascono, in un testo che offre un’ampia comprensione di un momento cruciale della storia della psichiatria.

 

Negli anni ’70, Peppe dell’Acqua è un giovane psichiatra che collabora con Franco Basaglia. Di quella rivoluzione cui partecipò in prima persona, resta una testimonianza ricca e complessa in “Non ho l’arma che uccide il leone” (il titolo prende spunto dall’opera naive di un paziente del manicomio triestino di San Giovanni), un libro che smentisce recisamente il diffuso luogo comune sull’“incurabilità” della malattia mentale, riportando casi di persone tornate ad una vita dignitosa e socialmente accettabile.

In tal modo, però, dell’Acqua conferma anche i due limiti ancora insuperati della riforma basagliana. Intanto, nessuna “guarigione” è possibile senza un contesto disponibile ad accogliere la persona con problemi psichici, eventualmente uscita da un percorso ospedaliero. Psichiatra, terapia e farmaci possono smussare i sintomi, aiutare il paziente a ritrovare e mantenere l’equilibrio, che però rimane fortemente a rischio senza una famiglia, un gruppo amicale, un ambiente di lavoro, un paese, un quartiere o una città che forniscano un supporto sociale e affettivo adeguato. Proprio sulla carenza di tale sponda si è infranta la piena applicazione della Legge 180, spesso limitatasi “italianamente” a scaricare sulle famiglie il peso di persone talvolta pericolose da un punto di vista della sicurezza, propria e altrui. Un problema reso ancor più drammatico dalla deriva che ci sta portando verso una società sempre più alienante e alienata, priva di senso comunitario e di partecipazione.

L’altro importante aspetto documentato dal libro, riproposto da Stampa Alternativa con una prefazione inedita dello stesso Basaglia, è la situazione manicomiale italiana dell’epoca: lager nei quali si praticavano con indifferenza – a volte con sadica superficialità – elettroshock, lobotomia e pratiche contenitive ai limiti della tortura, specie per gli ‘agitati’. E’ qui però l’altro limite dell’esperienza triestina: superato l’orrore del manicomio coattivo, restituita al malato di mente la sua dignità di persona intangibile nei diritti fondamentali, non sappiamo ancora quale sia la “salute” cui possa essere condotto. Oltre a intervenire sulla sintomatologia e sulla sofferenza, la psichiatria cosa può e deve fare?

Il libro, nel rispondere a questa domanda, risente dell’impostazione pericolosamente ambigua riassunta da una frase di Basaglia: ‘La follia è vita, tragedia, tensione. E’ una cosa seria. La malattia mentale, invece, è il vuoto, è il ridicolo”. La malattia mentale, come e più di ogni malattia, è soprattutto dolore. E cosa sia la follia, probabilmente, ancora non lo sappiamo.

 

Marco Ferrazzoli

 

Peppe dell’Acqua, “Non ho l’arma che uccide il leone” (Stampa Alternativa, 2007)

La magia del Sud scoperta da De Martino


Nel 1959 l’equipe guidata dall’antropologo Ernesto De Martino raccolse interviste a donne e uomini colpiti da tarantismo, restituendo uno studio accurato e affascinante del fenomeno e delle sue ritualità.

 

Riletta a mezzo secolo di distanza, l’etnologia di Ernesto De Martino conserva il suo fascino intatto, se non aumentato, ma insieme denuncia la propria vetustà. Non soltanto perché l’oggetto degli studi del maestro napoletano, nel frattempo, è stato completamente stravolto, potremmo dire estirpato, ma soprattutto perché oggi sarebbe impensabile riproporre un approccio scientifico come quello adottato ne ‘La terra del rimorso’.

Il Saggiatore pubblica questo testo in una nuova edizione, arricchita da un dvd contenente la masterizzazione del disco con i commenti demartiniani, originariamente uscito in vinile, un documento sonoro realizzato da Diego Carpitella e il video dello stesso Carpitella nell’edizione restaurata del 1995. ‘La terra del rimorso’ tratta di tarantismo, particolare e misteriosa forma rituale diffusa all’epoca in Puglia, una sorta di danza che viene condotta con accompagnamento di un gruppo di suonatori, dalla motivazione apotropaica e offertoria (al finale si porta la somma raccolta ad una cappella dedicata ad un Santo). L’iter è documentato in un inserto fotografico, altro utile contributo di quest’edizione, insieme con un apparato critico aggiornato.

Rispetto ai tempi di questa “spedizione etnografica”, il Salento è cambiato non solo nella sostanza – l’evoluzione socio-economica, l’industrializzazione, il turismo, la globalizzazione… – ma anche nella stessa rappresentazione di certe tradizioni, ormai adattate (o, forse, omologate) alla società post-moderna. La taranta oggi è oggetto di un Festival ad alto richiamo turistico e costituisce, insieme con i Negramaro (intesi sia come gruppo musicale, sia come vitigno), parte dell’immagine esotica e viscerale, calda e forte che rende quest’angolo di Puglia tanto amato e visitato.

Ai tempi di De Martino, invece, questa terra e la sua religiosità venivano approcciate appunto con atteggiamento ‘etnologico’, volto a verificare i retaggi di tradizioni ancestrali, con la stessa curiosità che si dedicava allo sciamanesimo asiatico o africano. Tant’è che De Martino nella sua missione si fa accompagnare da uno psichiatra, uno psicologo, un musicologo e un sociologo: da un lato dando prova di un atteggiamento multidisciplinare intelligente e anticipatorio, almeno per l’Italia, dall’altro denotando la convinzione che talune forme di contatto con il ‘sacro’ rimandassero a un ambito nel quale si sfumano persino i contorni della sanità mentale. E comunque, il mito in questo caso viene inevitabilmente legato con le crisi reali di latrodectismo, l’avvelenamento causato da vedova nera o malmignatta: il cosiddetto ‘morso della taranta’.

Nel Salento, De Martino e i suoi vanno con la curiosità culturale di rinvenire e registrare un pezzo di “mondo magico”, confermando la permanenza nell’Occidente ‘avanzato’ di un mondo ‘altro’ rispetto a quello delle Chiese ufficiali ma a queste ricondotto: la taranta, infatti, viene in qualche modo assorbita nella ritualità cattolica. Di tale impostazione etnografica resta nel libro, sin dal sottotitolo “Contributo a una storia religiosa del Sud”, una traccia insieme valida e datata.


Marco Ferrazzoli

 

Ernesto De Martino, “La terra del rimorso” (Il Saggiatore, 2009)

https://www.ilsaggiatore.com/libro/la-terra-del-rimorso-4/

Nuove tecnologie, un aiuto contro l’handicap


Le storie raccontate dall’autore, intrecciate alla sua esperienza personale, offrono uno spaccato realistico di come sia possibile realizzare i propri obiettivi e vivere appieno la propria vita, convivendo con un handicap fisico.

 

Davide Cervellin è un imprenditore di successo: la sua azienda, la Tiflosystem, si occupa di tecnologia e servizi per l’autonomia delle persone disabili, categoria alla quale il titolare appartiene in quanto cieco dall’età di sedici anni. Attualmente, Cervellin si occupa anche di produzioni agricole di qualità, di energie rinnovabili e costruzioni biocompatibili.

L’esperienza personale ha portato l’imprenditore a occuparsi in maniera stabile di persone fisicamente handicappate ma capaci di vivere normalmente, conducendo riuscite esperienze famigliari e professionali. Un impegno che sostanzia nel sostegno alle missioni cristiane della onlus CBM Italia, attive nell’aiutare i ciechi in tutto il mondo, e nell’attività editoriale, con libri come “Quando un cieco vede oltre. Come i diversi possono essere utili” e “Disabili. Come trasformare un limite in un’opportunità”. Sempre per Marsilio, esce ora il terzo libro, “Senza maschera”, in cui l’autore traccia un percorso in parte autobiografico. Paolo, il protagonista, dopo l’incidente che lo invalida non rinuncia alla laurea, al matrimonio, al lavoro, all’impegno per cui si sentiva vocato e riesce a ottenere ciò che si prefigge grazie all’aiuto degli amici e delle nuove tecnologie: display braille, sintetizzatori vocali, comunicatori a voce digitalizzata, programmi di didattica riabilitativa.

Nelle storie che Cervellin racconta non appaiono né commiserazione, né certe esaltazioni che a volte pervadono questo tipo di letteratura. Con molto realismo l’autore evidenzia semplicemente come la tecnologia possa aiutare la persona svantaggiata a colmare il gap con la ‘normalità’.

 

Marco Ferrazzoli

 

Davide Cervellin, “Senza maschera” (Marsilio, 2007)

La pecora nera


Attraverso il protagonista Nicola, l’autore fa rivivere le memorie dei manicomi, tra pianto e risate, luci ed ombre.

 

Ascanio Celestini è, con Marco Paolini e Duccio Camerini, uno degli affabulatori più efficaci del nostro teatro. La sua grande capacità narrativa poggia su un uso ‘gaddiano’ del romanesco, che accentua la immediatezza del racconto senza ridurlo in termini localistici, e un tono apparentemente svagato e sopra le righe.

Una caratteristica comune a questi attori, peraltro, è proprio il porsi come personaggi ai confini, border-line, voci di un’umanità marginale che, altrimenti, verrebbe ridotta al silenzio.

L’intento diviene particolarmente evidente con questo ‘La pecora nera’, un percorso creativo dentro la malattia mentale in cui Celestini ha voluto fare da cicerone mediante il protagonista Nicola e il suo doppio, tra le illuminazioni e le confusioni di un percorso scavato nel buio. Attraverso le testimonianze e le memorie di infermieri, medici e pazienti, l’autore spiega non solo che l’istituzione manicomiale è di fatto ancora attiva, ma soprattutto che le parole e le paure dei ‘matti’ sono ben vive dentro ognuno.

Le storie raccontate in questo libro hanno il proposito di commuovere e divertire, senza remore nello sfruttare l’appeal comico della follia, che qualcuno ritiene erroneamente politicamente scorretto, mentre invece, da sempre, la risata è uno dei ponti possibili per instaurare il dialogo tra i mondi della ‘normalità’ e della malattia mentale.

 

Marco Ferrazzoli

 

Ascanio Celestini, “La pecora nera” (Einaudi editore, 2006)

https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/la-pecora-nera-ascanio-celestini-9788806184018/

Pronto soccorso? Non serve il Dr. House


Nel suo richiamo alla medicina di Ippocrate, il dottor Carlucci vede l’alleanza e l’ascolto tra operatore sanitario e paziente al centro del percorso terapeutico, a partire dai reparti di emergenza.

 

Per la sanità, l’immaginario cine-televisivo è diventato il punto di riferimento per le valutazioni del sistema reale. La regola vale sia nel bene, cioè nel valorizzare la straordinaria funzione che il sistema sanitario svolge in un paese che voglia dirsi civile, sia nel male, cioè nel comparare alla retorica della fiction le assai meno esaltanti performance dei medici in camice, carne ed ossa.

“Lottare insieme per la vita” di Michele Carlucci, primario dell’Unità Operativa di Pronto Soccorso del San Raffaele di Milano, intende contrastare questa seconda tendenza. Il Pronto Soccorso e la ‘buonasanità’ di cui l’autore parla non sono quelli di “E.R.”, “Grey’s Anatomy”, né tantomeno quelli del dottor House, che Carlucci contesta con particolare veemenza, convinto che il personaggio interpretato da Hugh Laurie rappresenti ‘l’incarnazione quasi perfetta di quello che, ai miei occhi, un medico non dovrebbe essere’.

‘Decidere, comprendere, comunicare’ sono invece le tre regole d’oro alle quali, secondo il primario dell’Istituto Scientifico Universitario milanese, si deve conformare la ‘buona sanità’ di un reparto di emergenza. Quando un paziente arriva all’ospedale non può esservi spazio per incertezze, né per quella freddezza che trasforma i pazienti in numeri o li riduce alla malattia di cui soffrono, né per il silenzio mascherato di sacralità professionale, il mero affidamento alla pur indispensabile tecnologia.

Nella medicina ippocratica di Carlucci, operatore sanitario e paziente sono due instancabili alleati contro la malattia. L’unica domanda che ci sorge spontanea è se e quanto questa medicina ideale, nei reparti di emergenza delle nostre strutture reali, sia più vera di quella dell’insopportabile quanto infallibile dr. House.

 

Marco Ferrazzoli

 

Michele Carlucci, “Lottare insieme per la vita. Il Pronto Soccorso e la buonasanità” (Editrice San Raffaele, 2008)