L’ossimoro della malattia cronica

La forza della medicina narrativa in un libro la cui protagonista, convivente con la sclerosi multipla, si trova ad essere al tempo stesso medico e paziente.

Silvia Bonino è una psicologa, già autrice di numerosi saggi, che a un certo punto della sua esistenza si è trovata vivere la malattia dall’altra parte della barricata, quella del paziente, e che in tale duplice veste ha cercato di fare in modo che il malato e il terapeuta collaborassero ad affrontare insieme il terribile percorso della sclerosi multipla. Il nome della malattia viene a dire il vero citato di rado e con discrezione, mentre è più presente nel saggio-racconto il concetto di “malattia cronica”, cioè non curabile ma neppure immediatamente mortale, che quindi costringe a un’inabilità pesante e prolungata. Una sorta di ossimoro, profondamente contraddittorio per una società salutista come l’attuale, in cui si immaginano soprattutto le condizioni estreme della forma perfetta o della malattia incurabile, accettando come stato intermedio solo menomazioni leggere e temporanee. E’ proprio il radicale cambiamento della propria prospettiva esistenziale che il libro della Bonino pone al centro dell’analisi, a cominciare dal suo impatto iniziale, che si traduce nella domanda senza risposta: “Perché proprio a me?”. Molto condivisibile è, nell’autrice, la sua riflessione sulla impossibilità di trovare una vera ragione a un evento così eterodiretto – “Non avevo già pagato il mio tributo di sofferenza? Non avevo diritto a un po’ di serenità?” – e altrettanto profondamente giusta è la considerazione, ripresa dal diario di Etty Hillesum che costella di citazioni tutto il libro, che “non sono mai le circostanze esteriori” a minacciarci, ma la percezione interiore che ne abbiamo.

Marco Ferrazzoli

Silvia Bonino, “Mille fili mi legano qui” (Laterza, 2008)

https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788842079217

I matti “creativi” di Stampa Alternativa

Due opere pubblicate nel trentennale della legge 180 del 1978, nota come legge Basaglia, in cui le protagoniste raccontano in forma di diario la propria esperienza di malattia mentale.

A breve distanza da “Tanto scappo lo stesso”, il “romanzo di una matta” di Alice Banfi, esce “La schizofrenia non esiste, e se esistesse io vorrei averla” di Gianna Schiavetti. Stampa Alternativa prosegue così, a ritmo incessante, in un filone narrativo nel quale si è affermata con un predominio quasi monopolistico: la diaristica dei malati o ex malati di mente.

I volumi, gran parte dei quali raccolti nella collana Eretica, sono connotati da elementi distintivi precisi: una titolazione battutistica e provocatoria, la cura o la prefazione di psichiatri di scuola basagliana (nei due casi citati Enrico Baraldi e Peppe dell’Acqua) e la tesi, o almeno l’impressione di fondo, che la follia possa essere considerata una visione alternativa della realtà, più o meno valida come quella ortodossa. In tale quadro, la pretesa della medicina di ricondurla ad un paradigma di salute oggettivo, si risolverebbe epistemologicamente – oltre che nella prassi terapeutica, come purtroppo accade spesso – in una coercizione della libertà mentale e della creatività dell’individuo.

Tale visione, molto romantica, si scontra però non soltanto con il vissuto di lacerante sofferenza che le patologie psichiche portano negli individui e nelle famiglie (elemento ben descritto anche nei libri di Stampa Alternativa), ma anche con una sintomatologia che non sempre è quella magari drammatica, ma scenografica, raccontate da queste storie. Spesso il disagio e la alienazione sociale si somatizzano con atteggiamenti depressivi e problematiche di asocialità di nessun fascino e di peso insopportabile.

Marco Ferrazzoli

Alice Banfi, “Tanto scappo lo stesso” (Stampa Alternativa, 2008)

Gianna Schiavetti, “La schizofrenia non esiste, e se esistesse io vorrei averla” (Stampa Alternativa, 2008)

Uccidere per pietà: quando l’handicap è la solitudine

Un libro doloroso, un dramma che testimonia le difficoltà dei familiari di persone portatrici di handicap gravi e sottolinea ancora una volta la necessità di investire sulle strutture sanitarie e sulla rete assistenziale.

Molti ricorderanno un caso che, pur nell’ormai quasi routinaria concitazione della cronaca nera domestica, ha colpito fortemente gli italiani che ne ebbero notizia: nel 2003 un borghesissimo medico romano uccise il figlio autistico, dopo l’ennesima giornata di vessazioni alle quali il ragazzo sottoponeva costantemente i genitori, nella totale solitudine familiare. Poco tempo dopo, relativamente ai tempi non fulminei della magistratura italiana, il padre, condannato per omicidio, veniva graziato dal presidente della Repubblica.

In questo libro che rievoca la storia della famiglia, basandosi soprattutto sugli appunti e sulle riflessioni disperate e dolenti dell’uomo, si intersecano numerosi piani di lettura. Uno, il più convincente, riguarda appunto la solitudine in cui vengono lasciate le famiglie degli handicappati gravi. Solitudine va qui inteso in un significato molto concreto e complesso: la forma autistica di Sergio, nato negli anni ’60, viene diagnosticata con un ritardo dovuto alla scarsa informazione del sistema sanitario italiano su questa patologia. Purtroppo, tale ritardo viene colmato, essendo la sintomatologia del bambino assai precoce ed eclatante, da una serie di valutazioni e terapie errate e costose. Ma anche dopo avere individuato che, purtroppo, Sergio soffre della forma più grave e aggressiva di questo ritardo mentale, l’appoggio delle strutture sanitarie pubbliche e private alla famiglia è irrisorio, spesso irritante e offensivo.

Molto meno convincente è la valutazione che l’autore de “Il mondo di Sergio” fa prendendo le mosse non dall’episodio dell’assassinio ‘per pietà’ ma dalla grazia concessa al padre dal Quirinale. Mauro Paissan estende infatti il concetto della pietà ‘pubblica’ alle richieste, spesso mosse in questi ultimi anni, di consentire l’eutanasia o il ‘suicidio assistito’ degli handicappati e dei malati incurabili. In realtà, l’esperienza di papà Salvatore e di sua moglie attestano che la morte non è il rimedio necessario, laddove si sollevino i cari dei malati dall’onere totale della cura e in particolare dall’angosciante domanda del ‘dopo di noi’: l’atto estremo raccontato nel libro avviene non tanto per l’esasperazione delle percosse, dei soldi dilapidati, della distruzione materiale e morale della casa, ma soprattutto perché il genitore si vede giunto a un’età nella quale la sua possibilità di accudire il figlio va esaurendosi, senza che le strutture prospettino all’ormai quarantenne Sergio una assistenza civile e dignitosa.

Marco Ferrazzoli

Mauro Paissan, “Il mondo di Sergio” (Fazi, 2008)

“Il quarto cavaliere”: breve storia di epidemie, pestilenze e virus

Un saggio storico sulla convivenza tra l’uomo e malattie infettive, una riflessione sul ruolo delle pestilenze negli equilibri tra le civiltà umane, reso ancor più attuale alla luce degli sconvolgimenti causati dalla recente pandemia.

Uno dei saggi giustamente rimasti più celebri nella recente esegesi storica è “Armi, acciaio e malattie” di Jared Diamond, nel quale, sin dal titolo, un ruolo fondamentale viene assegnato alle epidemie nella evoluzione storica delle civiltà che ci hanno preceduto. Su questo elemento, “Il quarto cavaliere”, facendo riferimento alla celebre metafora dell’Apocalisse, esce adesso negli Oscar Mondadori un saggio specifico di Andrew Nikiforuk che traccia proprio una “breve storia di epidemie, pestilenze e virus”. Si tratta in realtà di uno studio dei primi anni ’90, come chiarisce l’autore in una nota nella quale precisa l’intento etico della sua opera: “Spero di spingere i lettori a condurre una vita più sana e a combattere per comunità più verdi, liberandosi dalle illusioni tecnologiche”. Un motto programmatico piuttosto deciso ed estremo, come si vede, che il giornalista canadese ripete incessantemente nei vari capitoli, spingendosi ad assiomi francamente sconcertanti come quello di annoverare tra “le grandi menzogne del XX secolo” quella che “gli antibiotici, i medici e i vaccini ci abbiano salvato”. Da un lato, insomma, l’autore si schiera decisamente contro lo scientismo e il progresso tecnologico, dall’altro rivanga come epoca aurea quella in cui l’umanità affrontava una vita di mera, dura sopravvivenza: “Gli uomini del passato, raccoglitori di noci con la lancia sotto il braccio, erano esemplari magnifici”, mentre i loro successori coltivatori “relativamente sedentari, erano individui curvi e affamati. Mangiavano troppi carboidrati e i loro denti marcivano”. Tutto questo, dunque, molto prima che arrivassero i fast food…

Se si prescinde da questo tipo di considerazioni, però, il libro è davvero interessante per la messe di informazioni storiche che fornisce in ordine al ruolo che malattie ed epidemie hanno assunto nello squilibrare i rapporti di forza tra gli Stati, le culture e le civiltà umane. Per esempio, quella sorprendente per cui “la malaria ha ucciso la metà degli uomini, donne e bambini che sono deceduti sulla terra” fino all’ultima guerra mondiale. Ciò su cui Nikiforuk ha certamente ragione è che il caso e l’eterogenesi hanno sempre giocato un ruolo determinante nel progresso umano, ad esempio la lebbra è sempre stata condizionata da fattori igienici e dunque, indirettamente, dalla disponibilità di tessuti per potersi cambiare più frequentemente d’abito: fu dunque la peste, diminuendo in modo spaventoso il numero di persone e aumentando le pecore e la lana pro-capite ad aiutare la scomparsa della lebbra in Europa. Tranne quella del Nord, dove essa restò diffusa molto più a lungo, in Norvegia addirittura fino a fine ‘800.

Marco Ferrazzoli

Andrew Nikiforuk, “Il quarto cavaliere” (Mondadori, 2008)

https://www.mondadoristore.it/quarto-cavaliere-Breve-Andrew-Nikiforuk/eai978880457834/

Medici, malati e il miracolo della vita

Le parole e le vicende del dottor Melazzini, che convive dal 2003 con la Sclerosi Laterale Amiotrofica, rappresentano una preziosa testimonianza di resilienza e profonda voglia di vivere.

Nell’ampissima diaristica sulla malattia, anche il filone dei medici-malati è ormai cospicuo. Tra questi particolari testimoni, Mario Melazzini ha assunto una certa notorietà, grazie anche ad alcune partecipazioni televisive in cui ha saputo “bucare” il video, trasferendo agli spettatori l’eroico entusiasmo con cui sopporta la sua condizione di malato di Sclerosi laterale amiotrofica. Oggi Melazzini unisce la presidenza dell’Aisla all’attività presso la Fondazione Maugeri di Pavia e, superato il trauma solo lontanamente immaginabile che ha sconvolto la sua vita di medico sano, di successo e con bella famiglia, con l’handicap ha imparato ad avvicinare i malati ‘dall’altra parte’.

Melazzini è protagonista di tre libri recenti. Il primo è “Un medico, un malato, un uomo”, autobiografia mirata in primis ai colleghi che della loro condizione culturale e di salute fanno un elemento di superiorità nei confronti dei pazienti, distorcendo così l’opportuno distacco che devono mantenere per essere professionalmente efficienti. A tutti, poi, il libro insegna come praticare l’amore verso se stessi e gli altri, godendo ‘ogni minuto del miracolo di essere vivo’: una santità, intesa come completezza dell’essere, cui purtroppo ci avviciniamo solo quando capiamo che tale miracolo non è affatto scontato.

Melazzini è anche prefatore di una collettanea di casi di malati di Sla, uno dei quali purtroppo scomparso prima della pubblicazione, che ribadisce la stessa testimonianza di fede cristiana e umana. Il curatore de “L’inguaribile voglia di vivere”, Massimo Pandolfi, ammette in introduzione, vergognandosene, di avere usato per definire questo lavoro l’espressione di ‘le storie degli anti-Welby’. In realtà non c’è nessuna ostilità verso la scelta di Piergiorgio Welby e degli altri malati che, come lui, chiedono di essere aiutati a morire, ma la volontà di rappresentare la scelta ‘che i mass media non raccontano’ di moltissimi uomini e donne che, inchiodati in un letto, senza poter mangiare né respirare naturalmente e bisognosi di un’assistenza continua, vogliono vivere per ‘aggiungere vita ai giorni e non giorni alla vita’.

Il terzo riferimento editoriale è il capitolo dedicato a Melazzini da Stefano Lorenzetto in “Vita, morte e miracoli”, un’altra raccolta di storie che trattano esperienze di entusiasmo vitale, di fede nell’uomo e in Dio, di speranza che non si arrende neppure davanti alle malattie più gravi, dolorose, invalidanti e incurabili.

Marco Ferrazzoli

Mario Melazzini, Un medico, un malato, un uomo (Lindau, 2007)

Massimo Pandolfi, L’inguaribile voglia di vivere (Ares, 2007)

Stefano Lorenzetto, Vita, morte e miracoli (Marsilio, 2007)

Esordio letterario di un giovane fisico

Un imperdibile romanzo d’esordio, ormai un caso letterario, trasposto nel 2010 in un toccante film.

Paolo Giordano è un giovane fisico, dottorando all’Università di Torino, e più di qualcosa della sua biografia dev’essere impresso nella figura del protagonista del suo romanzo d’esordio: il Mattia di “La solitudine dei numeri primi”, un geniale fisico che lavora come docente e ricercatore presso un’ateneo nordeuropeo. Ma, soprattutto, la formazione scientifica dell’autore si riflette nella precisa ingegneria del libro: la scansione temporale dei capitoli che accompagnano Mattia e la coprotagonista Alice, l’alternanza tra forma diretta e indiretta del racconto, il passaggio dal Bildungsroman (romanzo di formazione) alla storia d’amore, l’inserimento dei personaggi minori. La descrizione della crudeltà che bambini e adolescenti sono capaci di esprimere con i coetanei, ad esempio, è raccontata con efficacissima discrezione.

Ma la miglior riuscita, Giordano la raggiunge nella descrizione dello sgomento con cui gli adulti affrontano le difficoltà di crescita dei ragazzi e in particolare il confronto con l’handicap, tema centrale che il titolo esprime con un’efficace metafora matematica. Mattia, dopo aver provocato la scomparsa della gemella Michela (ritardata mentale), palesa pesanti sintomi autolesionistici e una sindrome autistica descritta in modo un po’ forzato, secondo lo schematismo invalso nella fiction dopo il successo di “Rain Man”. Molto più convincente la descrizione di Alice, anoressica e claudicante dopo un incidente di sci avvenuto da bambina.

La storia si perde solo nella ricerca un po’ sovresposta (per usare un’immagine della professione di Alice, fotografa) della ‘quadra’ finale. Ma, nel complesso, Giordano si candida come l’autorevole erede della narrativa formalmente fredda ma molto intensa nei contenuti che fu del miglior Andrea de Carlo, specialmente dopo gli ultimi e deludenti esiti dello scrittore milanese.

Marco Ferrazzoli

Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori, 2010)

https://www.mondadoristore.it/La-solitudine-dei-numeri-primi-Paolo-Giordano/eai978880458965/

Giovani, vittime del nulla

Un libro sui giovani e sul loro rapporto con famiglia, scuola e società, che sembrano averli confinati in spazi vuoti, senza prospettive. Un invito a valorizzare l’altro e a curare il processo di formazione dell’identità come antidoto al vuoto.

Si utilizzano termini diversi, per definire più o meno lo stesso concetto: depressione, apatia, indifferenza, talvolta ‘antipolitica’ o, di recente, ‘implosione’. Ciò che si vuole esprimere è il nulla che la nostra società sembra avere posto al centro della propria vita. Umberto Galimberti preferisce rimandare al termine più corretto: ‘nichilismo’. Non solo perché deriva appunto da ‘nihil’, niente, ma perché tale processo ha precedenti storico-filosofici precisi, che sono stati codificati proprio con tale termine. Galimberti si dedica alla crisi valoriale contemporanea da molto tempo, con la puntualità quasi quotidiana che le collaborazioni giornalistiche gli consentono e da un duplice punto di vista, filosofico e psicologico. E’ infatti docente di entrambe le discipline presso l’Università di Venezia. Quest’ambivalenza gli consente di non distorcere l’analisi, come agli specialisti dell’uno o dell’altro campo spesso capita, concentrandosi solo sugli aspetti individuali della crisi (il calo di serotonina, per capirci), oppure banalizzando i meccanismi di induzione ed emulazione (la facile eziologia che di volta in volta chiama in causa la famiglia, la scuola, i media). Va anche detto con franchezza che a rendere credibile l’analisi di Galimberti è la sua disinibizione ideologica, che gli permette, senza assumere nessuna posizione ottusamente conservatrice, di rifiutare recisamente la mitologia progressista. Anzi, la ‘razionalizzazione tecnico-scientifica’ e il ‘politeismo dei valori’ sono messi sotto accusa chiaramente, sin dall’inizio de “L’ospite inquietante”, come i correi di quello che possiamo definire, citando Nietzsche, il ‘circolo dei valori superati e lasciati cadere’. L’attenzione del libro si incentra sulle conseguenze provocate dal nichilismo sui giovani, che in quanto più fragili sono le vittime predilette del vuoto, il quale tramite loro paradossalmente costituisce il proprio futuro, le fondamenta del ‘nulla futuro’.

Marco Ferrazzoli

Umberto Galimberti, “L’ospite inquietante” (Feltrinelli, 2007)

https://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/lospite-inquietante/

Medico, parla come curi

La querelle sul ‘medichese’ non è certo nuova. La richiesta di un linguaggio più chiaro e comprensibile da parte dei professionisti della salute è anzi diffusa da tempo. A sostenerla, tra gli altri, il gastroenterologo e divulgatore Giorgio Dobrilla che in questo “Dottore… mi posso fidare?” stila un vero “manuale di medicina comprensibile”. Il problema è complesso e riguarda la necessità di stabilire tra chi fornisce e chi riceve la cura una comunicazione corretta ed efficace, che superi il linguaggio specialistico per stabilire un circolo virtuoso. Il libro è indirizzato al grande pubblico, a medici e studenti. Ma attenzione: non si tratta semplicemente di ‘parlare chiaro’, come se i dottori ‘se la tirassero’, cercando di darsi un tono tramite l’uso di termini esoterici (difetto che forse hanno, condividendolo con molte altre categorie). Come sostiene nella prefazione al volume Silvio Garattini, la medicina deve soprattutto “uscire dall’equivoco delle facili impressioni, per imboccare la difficile strada delle evidenze”, così come nel campo farmacologico “troppe ambiguità e troppi interessi tendono infatti a deformare la percezione dell’efficacia e della tossicità di un farmaco. Innanzitutto, la legislazione tende a privilegiare la visione dei farmaci come beni di consumo, anziché come strumento di salute”.

 

Marco Ferrazzoli

 

Giorgio Dobrilla, “Dottore…mi posso fidare?” (Avverbi, 2007)

Meriti e limiti della rivoluzione basagliana


Le voci delle persone fuoriuscite dai manicomi raccolte dall’autore, testimonianze di vite che rinascono, in un testo che offre un’ampia comprensione di un momento cruciale della storia della psichiatria.

 

Negli anni ’70, Peppe dell’Acqua è un giovane psichiatra che collabora con Franco Basaglia. Di quella rivoluzione cui partecipò in prima persona, resta una testimonianza ricca e complessa in “Non ho l’arma che uccide il leone” (il titolo prende spunto dall’opera naive di un paziente del manicomio triestino di San Giovanni), un libro che smentisce recisamente il diffuso luogo comune sull’“incurabilità” della malattia mentale, riportando casi di persone tornate ad una vita dignitosa e socialmente accettabile.

In tal modo, però, dell’Acqua conferma anche i due limiti ancora insuperati della riforma basagliana. Intanto, nessuna “guarigione” è possibile senza un contesto disponibile ad accogliere la persona con problemi psichici, eventualmente uscita da un percorso ospedaliero. Psichiatra, terapia e farmaci possono smussare i sintomi, aiutare il paziente a ritrovare e mantenere l’equilibrio, che però rimane fortemente a rischio senza una famiglia, un gruppo amicale, un ambiente di lavoro, un paese, un quartiere o una città che forniscano un supporto sociale e affettivo adeguato. Proprio sulla carenza di tale sponda si è infranta la piena applicazione della Legge 180, spesso limitatasi “italianamente” a scaricare sulle famiglie il peso di persone talvolta pericolose da un punto di vista della sicurezza, propria e altrui. Un problema reso ancor più drammatico dalla deriva che ci sta portando verso una società sempre più alienante e alienata, priva di senso comunitario e di partecipazione.

L’altro importante aspetto documentato dal libro, riproposto da Stampa Alternativa con una prefazione inedita dello stesso Basaglia, è la situazione manicomiale italiana dell’epoca: lager nei quali si praticavano con indifferenza – a volte con sadica superficialità – elettroshock, lobotomia e pratiche contenitive ai limiti della tortura, specie per gli ‘agitati’. E’ qui però l’altro limite dell’esperienza triestina: superato l’orrore del manicomio coattivo, restituita al malato di mente la sua dignità di persona intangibile nei diritti fondamentali, non sappiamo ancora quale sia la “salute” cui possa essere condotto. Oltre a intervenire sulla sintomatologia e sulla sofferenza, la psichiatria cosa può e deve fare?

Il libro, nel rispondere a questa domanda, risente dell’impostazione pericolosamente ambigua riassunta da una frase di Basaglia: ‘La follia è vita, tragedia, tensione. E’ una cosa seria. La malattia mentale, invece, è il vuoto, è il ridicolo”. La malattia mentale, come e più di ogni malattia, è soprattutto dolore. E cosa sia la follia, probabilmente, ancora non lo sappiamo.

 

Marco Ferrazzoli

 

Peppe dell’Acqua, “Non ho l’arma che uccide il leone” (Stampa Alternativa, 2007)

La magia del Sud scoperta da De Martino


Nel 1959 l’equipe guidata dall’antropologo Ernesto De Martino raccolse interviste a donne e uomini colpiti da tarantismo, restituendo uno studio accurato e affascinante del fenomeno e delle sue ritualità.

 

Riletta a mezzo secolo di distanza, l’etnologia di Ernesto De Martino conserva il suo fascino intatto, se non aumentato, ma insieme denuncia la propria vetustà. Non soltanto perché l’oggetto degli studi del maestro napoletano, nel frattempo, è stato completamente stravolto, potremmo dire estirpato, ma soprattutto perché oggi sarebbe impensabile riproporre un approccio scientifico come quello adottato ne ‘La terra del rimorso’.

Il Saggiatore pubblica questo testo in una nuova edizione, arricchita da un dvd contenente la masterizzazione del disco con i commenti demartiniani, originariamente uscito in vinile, un documento sonoro realizzato da Diego Carpitella e il video dello stesso Carpitella nell’edizione restaurata del 1995. ‘La terra del rimorso’ tratta di tarantismo, particolare e misteriosa forma rituale diffusa all’epoca in Puglia, una sorta di danza che viene condotta con accompagnamento di un gruppo di suonatori, dalla motivazione apotropaica e offertoria (al finale si porta la somma raccolta ad una cappella dedicata ad un Santo). L’iter è documentato in un inserto fotografico, altro utile contributo di quest’edizione, insieme con un apparato critico aggiornato.

Rispetto ai tempi di questa “spedizione etnografica”, il Salento è cambiato non solo nella sostanza – l’evoluzione socio-economica, l’industrializzazione, il turismo, la globalizzazione… – ma anche nella stessa rappresentazione di certe tradizioni, ormai adattate (o, forse, omologate) alla società post-moderna. La taranta oggi è oggetto di un Festival ad alto richiamo turistico e costituisce, insieme con i Negramaro (intesi sia come gruppo musicale, sia come vitigno), parte dell’immagine esotica e viscerale, calda e forte che rende quest’angolo di Puglia tanto amato e visitato.

Ai tempi di De Martino, invece, questa terra e la sua religiosità venivano approcciate appunto con atteggiamento ‘etnologico’, volto a verificare i retaggi di tradizioni ancestrali, con la stessa curiosità che si dedicava allo sciamanesimo asiatico o africano. Tant’è che De Martino nella sua missione si fa accompagnare da uno psichiatra, uno psicologo, un musicologo e un sociologo: da un lato dando prova di un atteggiamento multidisciplinare intelligente e anticipatorio, almeno per l’Italia, dall’altro denotando la convinzione che talune forme di contatto con il ‘sacro’ rimandassero a un ambito nel quale si sfumano persino i contorni della sanità mentale. E comunque, il mito in questo caso viene inevitabilmente legato con le crisi reali di latrodectismo, l’avvelenamento causato da vedova nera o malmignatta: il cosiddetto ‘morso della taranta’.

Nel Salento, De Martino e i suoi vanno con la curiosità culturale di rinvenire e registrare un pezzo di “mondo magico”, confermando la permanenza nell’Occidente ‘avanzato’ di un mondo ‘altro’ rispetto a quello delle Chiese ufficiali ma a queste ricondotto: la taranta, infatti, viene in qualche modo assorbita nella ritualità cattolica. Di tale impostazione etnografica resta nel libro, sin dal sottotitolo “Contributo a una storia religiosa del Sud”, una traccia insieme valida e datata.


Marco Ferrazzoli

 

Ernesto De Martino, “La terra del rimorso” (Il Saggiatore, 2009)

https://www.ilsaggiatore.com/libro/la-terra-del-rimorso-4/