“Mandatemi pensieri positivi” – Fedez dopo il tumore

Attraverso i suoi canali social Fedez ha fatto sapere di essersi sottoposto a nuovi accertamenti clinici, che hanno scongiurato lo spettro di una recidiva del tumore al pancreas affrontato mesi fa

Proprio come aveva scelto di fare lo scorso marzo, quando annunciò di avere un raro tumore endocrino, il marito di Chiara Ferragni ha continuato la narrazione della sua malattia sul web, aggiornando amici e follower sulle sue buone condizioni di salute.

IlGiornale.it

“Non si scherza con il cancro, ma un sorriso aiuta”

L’attrice Geppi Cucciari con i suoi spettacoli contro la disinformazione

Geppi Cucciari è da dieci anni ambasciatrice Airc, con un costante impegno nella valorizzazione del ruolo di ricerca e prevenzione per cui ha ricevuto il premio “Credere nella Ricerca 2021” durante l’annuale cerimonia dedicata alla Fondazione alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Il cancro dal “brutto male” all’outing. E all’alba delle Car-T

Riportiamo dal sito dell’Associazione Culturale Clara Maffei un articolo sulla Notte dei ricercatori che si è svolta venerdì 27 settembre 2019 in tutta Europa e, in particolare, su Ern Apulia, uno dei progetti approvati dall’Unione Europea per questa grande manifestazione di divulgazione scientifica, svoltosi a Lecce, nella splendida cornice del complesso monastico degli Olivetani. Nell’ambito delle conferenze organizzate per la Notte da Cnr-Nanotec e Unisalento, si è svolta una presentazione della mostra sulla “Rappresentazione della medicina e della malattia nella letteratura e nell’arte”


Nell’ambito della Notte dei ricercatori che si è svolta venerdì 27 settembre in tutta Europa, e in particolare di Ern Apulia, uno dei progetti approvati dall’Unione Europea per questa grande manifestazione di divulgazione scientifica, si è svolta a Lecce, nella splendida cornice degli Olivetani, un complesso monastico che è divenuto l’hub degli exhibit e delle conferenze organizzate per la Notte da Cnr-Nanotec e Unisalento, una presentazione della mostra sulla “Rappresentazione della medicina e della malattia nella letteratura e nell’arte”. L’esposizione – composta da sei stanze con 18 pannelli e da teche con oggetti del Museo di Storia della medicina dell’Università di Roma La Sapienza – è stata allestita per il Festival della scienza di Genova 2018, e accolta con un successo merito soprattutto delle molte collaborazioni che hanno consentito di realizzarla, a partire da quelle degli Uffici stampa e comunicazione, informazione e Urp del Cnr. La mostra è poi stata oggetto di una tesi di laurea discussa da Rossella Casciello presso la cattedra di Teoria e tecnica della divulgazione della conoscenza, all’Università di Roma Tor Vergata, ed è stata allestita successivamente a Pisa in occasione del 50nnale dell’Istituto di fisiologia clinica Cnr.

Il tema rientra nella cosiddetta medicina narrativa e sintetizza un materiale quasi sterminato, un archivio di centinaia di fonti che partono ovviamente da latini e greci, in particolare da questi secondi per i quali la parola peste aveva anche il significato più ampio di epidemia. I classici guardano alla peste con una duplice ottica: di nemesi (secondo Omero le divinità diffondono l’epidemia come punizione per punire le infrazioni commesse dagli uomini) ma anche naturale, potremmo dire scientifica. Si pensi alla precisione con cui Tudicidide, ma anche Lucrezio, descrivono oggettivamente gli aspetti epidemiologici e somatici delle malattie contagiose. Non a caso Susan Sontag, in uno dei libri più celebri in questo ambito, parla di “malattia come metafora”. Questa connotazione concreta e simbolica assieme rimane peraltro anche nelle epoche successive, per esempio in Boccaccio e Manzoni (che fa della peste il Deus ex machina della sua opera: la celebre “scopa” di Don Abbondio), anche quando il rischio legato al contagio viene contrastato dalle sempre migliori misure igieniche, sanitarie, terapeutiche. La cosa diviene evidente nel ‘900 con autori quali Camus, Malaparte, Mann, dove la peste assurge a simbolo del nazismo, della guerra e dell’abbrutimento morale.
Una svolta nella medicina narrativa avviene con la rivoluzione freudiana, di cui si sta tornando a discutere in questo periodo, in occasione dell’80esimo dalla morte di Sigmund Freud: la profonda revisione critica della psicanalisi, ad opera soprattutto delle neuroscienze e dell’imaging, che hanno ricondotto a cause organiche e chimico-fisiche gran parte dei processi che un tempo definivamo “mentali” e psichici, non inficia l’importanza della riflessione sul valore della parola nel rapporto tra terapeuta e paziente, sulla “parola che cura”, alla quale la psicanalisi ci ha spinto. Una riflessione che – nella psichiatria – si è anche tradotta in senso politico con la riforma Basaglia, che nella seconda metà del ‘900 ha portato l’Italia all’avanguardia rispetto alle pratiche del contenimento, della reclusione, del nascondimento e delle vere e proprie torture cui venivano sottoposti i malati di mente, che in qualche modo Basaglia trasforma da “pazzi da legare” a “pazzi con cui parlare”.

Di questa rivoluzione sociale e terapeutica, direttamente e indirettamente, si sono resi protagonisti letterari autori come Svevo, Berto, Pirandello, Campana: talvolta lambendo – per esempio con Alda Merini – una sorta di “mistica della follia”, di mitologia della “pazzia creativa”, intrepretata come stato “altro” e alternativo, se non addirittura superiore, alla “normalità”. In realtà il mondo della sofferenza psichica è reale e doloroso almeno quanto quello della malattia organica. Peraltro, il medico-scrittore Mario Tobino ha sempre sostenuto, a livello letterario e clinico, la possibilità di un diverso modello di cura ospedaliera, purché si concedessero alle strutture i mezzi e il personale necessari, in opere quali “Le libere donne di Magliano”. E comunque, a distanza di decenni, resta irrisolto lo scarico di gran parte del peso della cura e dell’assistenza dei malati sulle famiglie: il disagio psichico è forse il primo caso con cui si è posto il problema dei caregiver, oggi esploso con l’aumento dell’età media e delle malattie neurodegenerative.
Anche con la cecità, altra “stanza” della mostra illustrata a Lecce, ci troviamo a metà tra realtà e metafora. Omero è cieco, Tiresia è un non vedente, per quanto riguarda gli occhi del corpo, ma come profeta è stato dotato dagli dèi della vista del futuro: in realtà si tratta di due disgrazie che non si compensano, ma si sommano tra loro. Sul piano letterario, questo handicap dà il “la” dal punto di vista letterario a un’esplosione del registro simbolico – Saramago, Borges, Wells con il “Paese dei ciechi”, Hofmann con la “Parabola dei ciechi”… – ma soprattutto patetico, solo che si pensi alle opere di Dickens e Bronte (nel “Jane Eyre”, di nuovo, la malattia è il Deus ex machina che consente il lieto fine dell’opera).

Nella narrativa è però sempre possibile un doppio registro, persino quando si parla dei bambini e di una branca della medicina perturbante come poche, quale la pediatria. Collodi vs de Amicis, potremmo dire, contrapponendo “Cuore” e “Pinocchio”. Ma pensiamo anche alla distanza che corre tra Dickens e Cronin da un lato e Molière dall’altro. Oppure a “Braccialetti rossi”, seriale televisivo di grande successo che in fondo– se guardassimo aridamente al plot – potremmo ridurre a una serie di storie d’amore adolescenziali, che sceneggiatori e produttori hanno però avuto il coraggio di ambientare in un reparto di oncologia pediatrica. Con “Braccialetti rossi” arriviamo alla rivoluzione comunicativa odierna, seguendo un percorso che va dal “brutto male” all’“outing”. Il cancro è un tema molto presente in letteratura con scrittori quali Buzzati, Verga e Solzenicyn, che nelle loro opere focalizzano il terribile “momento zero” della diagnosi, quando le parole diventano pietre ed è davvero difficile trovare “le parole per dirlo”.

Nonostante ciò, anche in questo caso c’è chi riesce a fare del geniale sarcasmo come Luis Bunuel, regista che in una scena de “II fantasma della libertà” trasforma surrealmente il rifiuto della diagnosi da parte del paziente. Per lungo tempo in oncologia hanno prevalso l’eufemismo, le perifrasi, il silenzio, da parte di malati e famiglie, e i tecnicismi come lesione, neoplasia, nodulo da parte dei medici. Oggi siamo in una fase del tutto diversa, quella del coming outing di Nadia Toffa ma anche di Emma Marrone, Mihailovic, Lea Pericoli (la tennista fu il primo personaggio pubblico ad aver reso pubblica la propria condizione di malata): una scelta, ormai una tendenza, che ha le sue contraddizioni e rischia di indurre ottimismo eccessivo, di confondere i termini e i concetti, che lambisce la retorica del “dono”, della malattia che “migliora”. Ma che induce anche a condividere, che esorta alla sincerità e questo è un progresso importante della comunicazione.

Con queste considerazioni la parola è passata ad Attilio Guarini, ematologo all’Istituto tumori Giovanni Paolo II di Bari, che ha parlato delle CAR-T (Chimeric Antigens Receptor Cells-T), cellule modificate in laboratorio a partire dai linfociti T: una nuova strategia di cura che sfrutta il sistema immunitario per combattere alcuni tipi di tumore come linfomi aggressivi a grandi cellule e leucemie linfoblastiche acute a cellule B. Guarini definisce le CAR-T la “vis sanatrix naturae”, il “farmaco vivente”, proprio perché prodotto a partire dalle cellule dello stesso paziente. Ma anche “l’alba di una nuova era”, che il medico ha voluto come titolo della sua presentazione, aprendo alla speranza che il metodo possa illuminare a giorno la cura dei tumori liquidi e anche solidi. Lo sviluppo di nuove tecnologie per la produzione di CAR-T è parte integrante delle attività di ricerca condotte dal TecnoMed Puglia, il “TecnoPolo per la Medicina di Precisione” coordinato da Giuseppe Gigli, direttore del Cnr Nanotec di Lecce. Si tratta di un trattamento estremamente complesso e costoso, non sempre applicabile ma, laddove possibile, dai risultati davvero molto incoraggianti.
Ern Apulia è un progetto europeo coorrdinato da Unisalento. L’evento ha aperto la nuova stagione della rassegna divulgativa “Jam session Nanotec: note di scienza su scala nanometrica”, un progetto Cnr Nanotec di Gabriella Zammillo, realizzato in collaborazione con Liberrima.

Marco Ferrazzoli


Fonte: Associazione Clara Maffei


Giuda – Il tumore di una diciottenne

Affidare alla scrittura il racconto di un percorso di malattia è un’esperienza sempre più diffusa e frequente. Nel caso di “Giuda” (Edizioni della Meridiana), all’autrice, giovanissima, viene diagnosticato un raro linfoma. Il diario, spiega, “serviva a me, al mio bisogno di fare sapere al mondo che avevo un cancro”


Marina Massone ha solo 18 anni quando le viene diagnosticato un raro tumore maligno del sangue, un linfoma T gamma delta, patologia che colpisce più frequentemente il genere maschile in età superiore ai sessant’anni, con solo il 10% di probabilità di sopravvivenza.
Fino a quel momento, la sua vita è quella di una ragazza solare e sportiva, pattinatrice su ghiaccio a ottimi livelli, nata e cresciuta ad Aosta tra famiglia e amici, diplomata in Canada per poi intraprendere un percorso di studi internazionali presso un ateneo olandese. Poi, dopo una serie di inspiegabili febbri e una crescente anemia, l’incontro con “Giuda” – così lei battezza la malattia – e l’inizio di una nuova realtà fatta di ospedali, esami, chemioterapia, fino al trapianto di midollo da parte del fratello Federico, operazione che la salverà.
Un percorso in cui Marina utilizza la scrittura come mezzo per mantenere un equilibrio e una direzione: “Scrivere è stato meglio di una seduta dallo psicologo, di un bicchiere di vino, di una corsa all’aria aperta. Ho scritto per digerire le informazioni che ricevevo, capirle, rielaborarle e farle mie. Ho scritto per prendere distanza da quello che mi capitava e vedere come il personaggio che avevo creato – che ero in realtà io stessa – trovava sempre un modo per andare avanti. Così mi si disegnava davanti agli occhi la strada da seguire e riuscivo a vivere un presente intenso come mai prima”.
Nel libro si piange e si ride: Marina racconta la sua storia senza filtri, guardandosi dentro lucidamente, alternando la disperazione alla consolazione, abissi di malessere e slanci di ritrovata energia, fiducia – nei medici ma anche nella sua “capacità di farcela”- rabbia e pensieri “da grande“, come la consapevolezza di non poter avere figli, fino alla serenità ritrovata nelle piccole cose, come il semplice ricominciare a fare ginnastica all’aria aperta dopo quattro cicli di terapia.
La decisione di rendere pubbliche le sue pagine arriva solo dopo il centesimo giorno dal trapianto di midollo osseo, data che segna il superamento del rischio di andare incontro a gravi complicazioni dopo l’operazione e, quindi, simbolicamente, la guarigione. In questo lungo percorso, il diario – nato “egoista”- (“serviva a me, al mio bisogno di fare sapere al mondo che avevo un cancro”), diventa una testimonianza di altruismo e uno strumento di sensibilizzazione al tema della donazione del midollo osseo. “È un’operazione sicura e non invasiva, nel nostro Paese esiste un Registro dei donatori: più persone sono iscritte, maggiori possibilità si avranno di trovare un donatore compatibile con il paziente che ha bisogno del trapianto”.
Nelle ultime pagine, Marina si congeda da Giuda con una lettera dalla quale traspare tutta la forza dei suoi 22 anni: “Non ho cambiato il mio approccio alla vita, come spesso si pensa che possa accadere dopo una malattia: io amavo la vita prima di Giuda, l’ho amata durante e la amo anche adesso”.

F.G.


Marina Massone, “Giuda”, Edizioni della Meridiana (2021)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Henrietta Lacks, questione di cellule

Nella sua ‘Vita immortale’, Rebecca Skloot racconta le vicende straordinarie dell’afroamericana che, ammalatasi di cancro, regalò inconsapevolmente alla scienza le cellule ‘immortali’ ancora oggi utilizzate nella ricerca su molte malattie


Unisce il meglio di diversi generi letterari, come accade sempre più frequentemente nelle opere recenti di maggiore successo, questa ‘Vita immortale di Henrietta Lacks’. Rebecca Skloot vi ha dedicato l’impegno di una biografa appassionata, rendendo la vita della protagonista con uno stile narrativo avvincente ma che non fa alcuno sconto, anzi, agli aspetti scientifici della vicenda.
Henrietta Lacks è una donna di colore vissuta negli Stati Uniti degli anni ’40 tra razzismo esplicito, infedeltà coniugali, gelosie immotivate e una fede fortissima. Avvenente, quasi analfabeta, passa la sua breve esistenza tra le piantagioni di tabacco di Baltimora, quasi a rammentarle le origini di schiavitù che la segnano.
La sua storia sarebbe già di per sé umanamente ricca e interessante, ma a renderla straordinaria è purtroppo l’esito post mortem. Henrietta si ammala di cancro della cervice uterina a poco più di 30 anni e viene curata in modo approssimativo, a causa delle conoscenze mediche ancora imperfette e dei molti pregiudizi vigenti contro le donne e gli afroamericani: una mancanza di rispetto che porta i sanitari a utilizzare un campione delle sue cellule per verificare un’ipotesi sulla proliferazione tumorale, senza preoccuparsi più di tanto di chiedere il consenso alla donna.
Accade a questo punto qualcosa di straordinario: per la prima volta, le cellule cominciano a riprodursi senza più morire, all’infinito, eternamente, dischiudendo alla ricerca scientifica possibilità fino ad allora precluse. Queste cellule vengono battezzate come HeLa, dalle iniziali della donna, e questo sarà l’unico riconoscimento che lei e la sua famiglia otterranno, nonostante l’enorme importanza, anche economica, della scoperta di cui Henrietta è stata l’inconsapevole protagonista.
Questo, per lo meno, fino agli anni 2000, quando un’altra donna bianca, ebrea e di buona famiglia, dunque – come lei stessa spiega nel libro – quanto di più distante dalla Lacks si possa immaginare, non resta prima incuriosita dalla mancanza di informazioni su questa persona vissuta sessant’anni prima, poi folgorata dalle notizie di cui viene man mano a conoscenza. La storia dell’indagine condotta da Rebecca Skloot si incrocia con quella della sua eroina e l’incontro-scontro tra due culture così lontane come quella dell’autrice e della famiglia Lacks è un altro elemento di grande interesse del libro.
La biografia, insomma, è prima di tutto un risarcimento a Henrietta e agli esseri umani che fanno la storia ma non la scrivono, cadendo così nell’oblio. E poi è una finestra aperta su uno dei maggiori progressi conseguiti dalla ricerca scientifica del ‘900, base delle ricerche sul cancro, sul Parkinson, sul Dna: anche questi risultati scientifici spesso restano sconosciuti alla stragrande maggioranza di noi, nonostante l’enorme incidenza che hanno nella nostra vita. Anche all’autrice di questo libro, del resto, era ignota l’origine delle cellule HeLa, finché non le è capitato di imbattervisi da studentessa, chiedendosi da dove venisse quell’acronimo curioso.

Marco Ferrazzoli


Rebecca Skloot, “La vita immortale di Henrietta Lacks”, Adelphi (2011)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Una donna tra amore e malattia

Scritto dall’editor e critica letteraria, Giovanna De Angelis, stroncata prematuramente nel 2013 da un male che ha voluto raccontare in questo unico e postumo romanzo, il cui tema centrale è proprio la malattia della protagonista, Francesca, in lotta contro un ‘mostro’ incurabile


La giovane protagonista vive a Roma e fa la traduttrice, è sposata con Cosimo, ha una madre assente, un’amica attenta e frequenta il vecchio professore dell’università a cui la lega la passione per la traduzione. Un giorno incontra Diego, un ricercatore universitario, con il quale inizia una storia, fatta di poche parole e incontri sessuali che si consumano su un “divano letto tappezzato di velluto a coste verde scuro”.
Di colpo, arriva la malattia, il dolore, che “è solo di chi lo prova e di nessun altro”, e l’ospedale con la sua routine, “la terapia, il reparto che riapre le porte, una mascella di ferro, plastica e vetro pronta a masticarla e a risputarla fuori barcollante e col sangue pulito”. Francesca vive da ammalata senza rinunciare a combattere per mantenere la sua identità e per ottenere un’altra possibilità.
La narrazione in terza persona del libro, diviso in due parti – ‘Il vento’ e ‘Lo schianto’ – si alterna a brevi pagine di diario dove la malattia non viene esibita, ma diventa un osservatorio da cui scrutare la vita degli altri. Una lettura che propone la sofferenza della protagonista in modo delicato e aiuta a guardare oltre, per dare il giusto peso alle cose.

Marina Landolfi


Giovanna De Angelis, “La frattura”, Elliot (2015 )



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Senso di libertà

Tiziano Terzani riceve la diagnosi di cancro e, gradualmente, conquista una sensazione di libertà e felicità.

Si sa, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi. Questo era sempre stato anche il mio atteggiamento. Cos’ quando capitò a me, ero impreparato come tutti e in un primo momento fu come se davvero succedesse a qualcun altro. <<Signor Terzani, lei ha un cancro>>, disse il medico, ma era come non parlasse a me, tanto è vero – e me ne accorsi subito, meravigliandomi- che non mi disperai, non mi commossi: come se in fondo la cosa non mi riguardasse.

Forse quella prima indifferenza fu solo un’istintiva forma di difesa, un modo per mantenere un contegno, per prendere le distanze, ma mi aiutò. Riuscire a guardarsi con gli occhi di un sé fuori da sé serve sempre. Ed è un esercizio, questo, che si può imparare. Passai ancora una notte in ospedale, da solo, a riflettere, pensai a quanti altri prima di me, in quelle stesse stanze, avevano avuto simili notizie e trovai quella compagnia in qualche modo incoraggiante. Ero a Bologna. C’ero arrivato attraverso la solita trafila di piccoli passi, ognuno di per sé insignificante, ma nell’insieme decisivi, come tante cose nella vita: una persistente diarrea incominciata a Calcutta, vari esami all’Istituto delle Malattie tropicali a Parigi, atri esami per scoprire la causa di un’inspiegabile anemia, finchè un accorto medico italiano, non accontentandosi delle spiegazioni più ovvie, s’era messo con un suo strano strumento, un penetrante serpentaccio di gomma dall’occhio luminoso, a guardare nei recessi più reconditi del mio corpo e, per coltivata esperienza, aveva immediatamente riconosciuto quel che conosceva.

[…] il cancro mi offriva una buona occasione: quella di non ripetermi. Non era la sola. Lentamente mi accorsi che il cncro era diventato anche una sorta di scudo dietro il quale mi proteggevo, una difesa contro tutto quel che prima mi aggrediva, una sorta di baluardo contro la banalità del quotidiano, gli impegni sociali, contro il fare conversazione. Col cancro omi ero conquistato il diritto di non sentirmi più in dovere di nulla, di non avere più sensi di colpa. Finalmente ero libero. Totalmente libero. Parrà strano, e a volte pareva stranissimo anche a me, ma ero felice.

Tiziano Terzani

Scheda dell’editore

Tiziano Terzani, “Un altro giro di giostra”, (2004, Longanesi)

Colpa delle stelle

John Green affronta il tema del cancro dando voce a due adolescenti: Hazel, una granata sul punto di esplodere, e Augustus che sembra essersi lasciato alle spalle un osteosarcoma.

“Io non esco” ho detto. “Non voglio uscire con nessuno. È un’idea terribile e un enorme spreco di tempo e…”
“Tesoro” ha detto la mamma. “Cosa c’è che non va?”
“Sono una… una… una granata, mamma. Sono una granata e a un certo punto esploderò e vorrei minimizzare le vittime, okay?”
Mio padre ha piegato la testa come un cucciolo rimproverato.
“Sono una granata” ho detto di nuovo. “Voglio starmene lontana dalla gente e leggere libri e riflettere e stare con voi, perché non c’è niente che possa fare per non ferire voi, siete troppo coinvolti, quindi per favore lasciatemi stare, okay? Non sono depressa. Non ho bisogno di uscire di più. E non posso essere un’adolescente normale, perché sono una granata.”
“Hazel” ha detto papà, e poi ha singhiozzato. Piange un sacco, il mio papà.
“Vado in camera mia a leggere un po’, okay? Sto bene. Sto bene sul serio; voglio solo andare un po’ a leggere.”

[…] A volte vorrei solo che non fosse accaduto. Il cancro, dico.

[…] Quando è venuto il suo turno ha sorriso un po’. Aveva una voce bassa, fumosa, eccitante da morire. “Mi chiamo Augustus Waters” ha detto. “Ho diciassette anni. Ho avuto un lieve osteosarcoma un anno e mezzo fa, ma oggi sono qui solo su richiesta di Isaac.”
“E come ti senti?” ha chiesto Patrick.
“Oh, a meraviglia.” Augustus Waters ha sorriso con un angolo della bocca. “Sono su una montagna russa che va solo in salita, amico mio.”

John Green

Google Libri

John Green, “Colpa delle stelle” (2012, Rizzoli)

Un punto nero nell’immenso azzurro del mare

I malati di cancro che hanno vinto la malattia sono dei sopravvissuti. Quelli, invece, che ancora non l’hanno sconfitto si sentono come foglie al vento.

<<Cancro = morte. Era davvero proprio così? Non poteva essere, non lo accettvo. Io avevo ancora troppo da fare, da vedere, da amare, da odiare, da rimpiangere, da rimordere perché tutto finisse così. Proprio allora, agli inizi di tutto, sentii dentro una voce che mi diceva “Tu ce la farai, tu non morirai, tu lo sconfiggi il bastardo”. E anche nei momenti di malinconia e di tristezza che non tardarono ad arrivare, chiudevo gli occhi e ripetevo “io ce la faccio. Io vinco”>>

[…] Lo so siamo sovraffollati di pazienti oncologici o ex tali, che solo per il fatto di essere sopravvisuti si sentono graziati ed investiti del potere quasi paranormale di curare gli altri perché loro “ci sono passati e solo loro possono capire”. Io invece parto da un punto di vista leggermente diverso: io non sono nessuno per dire a voi che sfogliate queste poche pagine sincere come condurre la vostra vita. Sono solo qualcuno che ogni giorno siete e cammina in mezzo ad altri esseri umani con una pena enorme nel cuore, che niente e nessuno potrà cancellare ma prova ogni giorno con difficoltà e coraggio a vivere. Esattamente come molti di voi. Questa sono io.

Marina Neri

Scheda

Marina Neri, “Un punto nero nell’immenso azzurro del mare” (2011, UR Editore)

Con molta cura

La vita ha valore anche quando subentra una malattia e si ha bisogno dell’altro, che con amore e disponibilità lenisce le difficoltà.

Io sono nient’altro che la cura che faccio. E non sono solo nel farla. La cura presuppone l’esercizio quotidiano dell’amore. Non c’è altra vita che questa, adesso, questa vita meravigliosa che permette altra vita. In una ghirlanda magica, un rimandarsi continuo. Mi travolge un’onda di gratitudine senza fine. Curarsi, praticare con metodo ed efficienza la cura che devi obbligatoriamente fare, vuol dire star bene, in linea di massima.

L’esercizio quotidiano dell’amore, questo infine auguro a tutti, a tutte. Non c’è altro, credete. Se non avete sottomano l’opportunità di una cura da fare -scherzo, ma fino a un certo punto! -potete sempre però prendervi cura. Prendervi cura di voi stessi, e di quelli cui volete bene. E magari anche degli altri. Non c’è davvero altro, credete. 

Questo è davvero importante, penso allora: non è vita minore questa mia, che adesso mi è data, è vita e capacità e voglia di sorridere alla vita”.

Una lettura capace di donare a qualsiasi lettore un’angolazione diversa per vedere e vivere la propria vita. Perché in fondo, abbiamo tutti bisogno di “abituarci a sentire quanto è prezioso e unico il momento in cui ti accade di vivere.

Severino Cesari

“Severino Cesari, cinquanta scrittori raccontano il «Maestro Severino»”, Il Sole 24 ore, 25 ottobre 2018

Severino Cesari, Con molta cura (2017, Einaudi)