“No” all’orecchio

Brano tratto da una novella del futurista Aldo Palazzeschi. In questi paragrafi l’autore descrive come la disabilità costringa il protagonista a dover fingere pur di non dover “dichiararsi sordo davanti all’universo”.

Abituato alla pratica soave della tenerezza e dell’idillio, come avrebbe potuto piegarsi alla spietata realtà? E allorquando la donna amata gli avrebbe sussurrato a fior di labbro nell’orecchio: “Quanto bene mi vuoi, angelo mio?”. Rispondere sollécito: “Domani è sabato”. E applicarsi quel ridicolo strumento che equivaleva a mettersi sul capo un cartello per dichiararsi sordo davanti all’universo. Sordo come una campana, come un tamburo, come un panchetto (…)

Infilò la via opposta dicendo: “No!” all’orecchio.

Conobbe per tale decisione il travaglio smisurato e disumano dell’uomo che non vuole o non deve essere sé stesso e vive dimostrando il contrario conquistando a poco a poco l’arte seduttrice della falsità e dell’infingimento fino a costruirvi un vero e proprio capolavoro.

Divenne frequentatore assiduo del teatro d’opera e dei concerti in special modo; ne seguiva l’esecuzione attento, penetrato, dotto, pur non udendo sia pur vagamente un suono. (…)

La sua penetrazione era tale da fargli esternare, in modo perfetto, tutto quello che non poteva sentire, e le persone che si trovavano vicino a lui di posto erano trascinate a seguirlo e ammirarlo lasciandosi trasportare più che dalla musica in sé, dal suo trasporto (…)

“Che intenditore dev’essere quello!” sussurravano tra loro (…)

Divenne frequentatore assiduo delle conferenze durante le quali, pur non riuscendo ad afferrare una sillaba del suo discorso, seguiva il conferenziere senza battere ciglio, e da parte sua sottolineandone le espressioni con segni marcatissimi di comprensione e di consenso (…)

E quelli che si trovavano vicini a lui reprimendo o nascondendo nella mano educatamente uno sbadiglio dopo l’altro, del loro irrefrenabile sbadigliare in serie si ravvivavano e consolavano osservandolo: “Beato lui! E’ della partita né più né meno. Eccone uno che sa il fatto suo. Uno scienziato, un erudito, un enciclopedico. (…)

Aldo Palazzeschi, “No! All’orecchio”. (Tutte le novelle. Meridiani Mondadori, 1957)

Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi

 

Oliver Sacks, neurologo di fama mondiale, fa luce su una realtà a lungo messa in ombra, quella dei sordi. Con la sua incredibile capacità narrativa, condita da dosi rare di sensibilità e di empatia, l’autore ci invita a fare un passo oltre la medicalizzazione e a porre lo sguardo alle infinite possibilità dell’essere umano, alle straordinarie sfide (linguistiche e non), a una lingua, quella dei segni, a lungo ostracizzata, e a una cultura degna di nota.

 

 

È sorprendente quanto poco sappiamo sulla sordità, che Samuel Johnson definì «una delle più disperate tra le calamità umane»; siamo assai più ignoranti di quanto lo fosse una persona colta del 1886 o del 1786. Ignoranti e indifferenti. Negli ultimi mesi ho provato a parlare della sordità a un grandissimo numero di persone e quasi sempre mi sono sentito rispondere frasi come: «La sordità? Non ci ho mai riflettuto molto, a dire il vero. Non conosco nessun sordo. Perché, c’è qualche cosa di interessante da sapere sulla sordità?». Anch’io avrei risposto allo stesso modo, fino a qualche mese fa. […]

 

 

Il termine «sordo» è vago, o meglio, è così generico che non permette di distinguere i moltissimi gradi della sordità, gradi che hanno un’importanza qualitativa, e perfino «esistenziale». Ci sono le persone «dure di orecchio» (o «sordastri»), quindici milioni circa nella popolazione degli Stati Uniti, che riescono a udire in parte quanto viene detto, con l’aiuto di un apparecchio acustico e di una certa dose di buona volontà e di pazienza da parte dei loro interlocutori. Molti di noi hanno un genitore o un nonno appartenente a questa categoria – un secolo fa avrebbero usato il cornetto acustico; oggi usano le moderne protesi. Vi sono poi i «sordi gravi», molti dei quali lo sono in conseguenza di una malattia alle orecchie o di un incidente subìto nei primi anni di vita; ma per loro, come per i duri di orecchio, udire le parole altrui è ancora possibile, soprattutto con gli apparecchi acustici disponibili oggi o in fase di messa a punto, congegni estremamente perfezionati, computerizzati e «personalizzati». Infine vi sono i «sordi profondi» (“stone deaf”) ai quali nessun futuro ritrovato tecnologico permetterà mai di udire le parole degli altri. I sordi profondi non possono conversare nel modo abituale: devono o leggere le labbra (come faceva David Wright) o usare la lingua dei segni, o fare entrambe le cose. Non importa solo il grado della sordità, importa anche e soprattutto l’età, o lo stadio, in cui essa sopraggiunge. […]

 

 

Si può forse sostenere che la sordità sopraggiunta in età adulta sia «preferibile» alla cecità, ma nascere sordi è, o almeno può essere, infinitamente peggio che nascere ciechi. Il sordo prelinguistico, infatti, non potendo udire i suoi genitori, rischia di restare gravemente ritardato, se non minorato per sempre, nell’acquisizione del linguaggio, se non si interviene fin dai primissimi anni o mesi di vita. Ed essere menomato nel linguaggio, per un essere umano, è una delle calamità più disperate, perché è solo attraverso il linguaggio che entriamo in pieno possesso della nostra umanità, che comunichiamo liberamente con i nostri simili, che acquisiamo e scambiamo informazioni. Se non siamo in grado di fare tutte queste cose, saremo per sempre singolarmente menomati e isolati – quali che siano i nostri desideri, i nostri sforzi o le nostre capacità innate. Possiamo addirittura essere a tal punto impotenti a realizzare le nostre capacità intellettuali da apparire mentalmente deficienti (10). E’ per tale ragione che i sordi congeniti, i «sordomuti» (11), furono ritenuti degli idioti per migliaia di anni e considerati da una legislazione miope come soggetti «incapaci» – di ereditare, di sposarsi, di ricevere un’istruzione, di svolgere un lavoro non banalmente ripetitivo – e si videro rifiutare i diritti umani fondamentali. Solo verso la metà del Settecento si cominciò a porre rimedio a questa situazione, allorché (forse per il più diffuso atteggiamento illuminato, o forse per un brillante slancio di empatia) la figura del sordo e la sua situazione subirono un radicale mutamento. […]

 

 

Si sviluppa, quindi, nei segnanti, un modo nuovo e straordinariamente complesso di rappresentare lo spazio; una nuova “sorta” di spazio, uno spazio formale, che non ha corrispettivo in quanti non usano i Segni (56). Ciò riflette uno sviluppo neurologico del tutto nuovo. […]

 

 

È come se l’emisfero sinistro dei segnanti «si facesse carico» di un dominio di percezione visivo-spaziale, lo modificasse, lo affinasse, in un modo che non ha precedenti, rendendo possibili un linguaggio e una concettualizzazione visivi. […]

 

 

Essere sordo, essere nato sordo, pone l’individuo in una situazione fuori dall’ordinario; egli è esposto a uno spettro di possibilità linguistiche, quindi di possibilità intellettuali e culturali, che il resto di noi, parlanti nativi in un mondo di parlanti, può a malapena cominciare a immaginare. Noi non siamo linguisticamente deprivati, non ci troviamo di fronte a una sfida linguistica, come i sordi; noi non corriamo mai il pericolo di esser privi di qualsiasi forma di linguaggio o di presentare una grave incompetenza linguistica; ma nemmeno scopriamo linguaggi radicalmente nuovi, né li creiamo.

 

 

Oliver Sacks

 

 

www.cts-pisa.it/cts2018/wp-content/uploads/2018/02/vedere-voci-libro.pdf

 

 

Oliver Sacks, “Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi”, Adelphi Edizioni, Milano, 1989.

 

Nel paese dei ciechi

In una comunità delle Ande ecuadoriane abitata solo da persone non vedenti, è il protagonista a diventare ‘minorato’: oltre a essere molto meno abile nell’uso di altre facoltà quali tatto e udito, non riesce a spiegare in cosa consista la facoltà della vista, che solo lui possiede.

Racconto ostentatamente, forse eccessivamente, allegorico, ‘Nel Paese dei Ciechi’ racconta la breve avventura di un vedente che, vagando per le Ande ecuadoriane, capita in una vallata abitata solo da persone che non vedono e che hanno costruito la loro comunità sull’uso degli altri sensi, nei quali sono diventati tanto abili da poter condurre tutte le normali attività sociali.

La mancanza della vista li ha però indotti a un sovvertimento del ritmo giorno-notte, che per loro consiste in caldo-freddo, inducendoli a preferire il secondo per il lavoro, e alla totale amputazione, dal loro orizzonte concettuale, delle stesse idee per noi legate alla percezione e alla rappresentazione visiva.

Per questo, il contatto con lo straniero vedente si trasforma in un paradossale capovolgimento: è lui il ‘minorato’, non solo perché è molto meno abile nell’uso del tatto o dell’udito, ma anche perché i tentativi del protagonista di spiegare in cosa consista questa facoltà che solo lui possiede vengono interpretate come stravaganze oniriche, fantasie di un disturbato mentale, psicosi fuorvianti.

Persino nel confronto fisico, Nuñez fatica a imporre il vantaggio fornitogli dalla sua particolarità. L’unica abitante del Paese dei Ciechi ad apprezzare la sua originalità è Medina-saroté, non a caso considerata dai suoi concittadini una ‘svantaggiata’, poiché ancora conserva tracce dei bulbi oculari che, nella loro curiosa ‘evoluzione’, gli altri abitanti ormai non possiedono più e che, proprio per questo, è considerata da Nuñez l’unica ragazza apprezzabile.

La breve favola triste di Wells termina nella stessa cupezza che ne connota tutto lo sviluppo e il significato. In essa, come nelle altre sue più celebri opere, su tutte ‘La guerra dei mondi’, lo scienziato e narratore inglese trasferisce le proprie competenze naturalistiche in una visione surreale, onirica, inquietante.

Marco Ferrazzoli

Herbert George Wells, Il Paese dei ciechi (Adelphi, 2008 – quinta edizione)

La scheda sul sito dell’editore