Bianciardi, prefatore di Buzzati

Lo scrittore e giornalista Luciano Bianciardi realizza, per l’edizione di Mondadori del 1958 dei “Sessanta racconti” del collega Dino Buzzati, un testo breve e incentrato in gran parte sui due nei quali la malattia la fa da protagonista assoluta: “Sette piani” e “Una cosa che comincia per elle”. Evidenziando il crescente terrore che, in entrambi i casi, pervade chi ne è colpito


Si al settimo piano le forme leggerissime al sesto le leggere al quinto le poco gravi e così giù e giù. Al piano terreno i casi disperati. In tal modo si evitava che i malati leggerissimi come lui Giuseppe Corte fossero turbati dallo stato preagonico dei dannati. E i medici sorridenti lusinghieri tutti li a rassicurarlo che in un paio di settimane lo dimetteranno. Ma naturalmente va in tutt’altro modo. In capo a dieci giorni si presenta il capo-infermiere a chiedere in via puramente amichevole un trasferimento al piano di sotto. Qui al settimo le camere scarseggiano e ci sarebbe da sistemare una gentile signora con due bambini. Naturalmente il trasferimento che al nostro amico Corte non garba gran che non ha alcuna motivazione medica. È un semplice trasloco momentaneo. E lui ai compagni di degenza tiene a precisare che si trova in mezzo a loro per una questione puramente formale …

[…]

E la vita è sempre una cosa che comincia per elle. Rammenti tu l’uomo cui l’altro giorno chiedesti soccorso a spingere il tuo carro? Rammenti che aveva un campanello al collo? Tu credi dunque che fosse uno zingaro? Credi pure quel che ti pare ma intanto applicati ai-polsi queste due sanguisughe visto che hai bisogno di un salasso. Ebbene l’uomo che ti diede soccorso è una cosa che comincia per elle. È un lebbroso e ora anche tu sei un lebbroso una cosa che comincia per elle. E anche tu avrai un campanello al collo e ti verranno tolti tutti i tuoi beni te ne andrai in giro ramingo poi altri diventeranno lebbrosi come te ineluttabilmente.

Luciano Bianciardi

Dino Buzzati “Sessanta racconti”, Mondadori Milano (1958)

‘e cecate ‘e Caravaggio

Versione Audio della poesia interpretata da Eduardo De Filippo

Dimme na cosa. T’ allicuorde tu
e quacche faccia ca p”o munno e’ vista,
mo ca pe’ sempe nun ce vide cchiù?

Sì, m’ allicordo; e tu?-No, frato mio;
io so’ nato cecato. Accussì ncielo,
pe mme murtificà, vulette Dio…

Lassa sta’ Dio!…Quant’ io ll’ aggio priato,
frato, nun t”o puo’ manco mmaggenà,
e dio m’ ha fatto addeventà cecato. (…)

E’ overo ca fa luce pe la via
‘o sole?…E comm’ è ‘o sole?-‘O sole è d’ oro,
comme ‘e capille ‘e Serrafina mia…


Serrafina?…E chi è? Nun vene maie?
Nun te vene a truvà?-Sì…quacche vota…
E comm’ è? Bella assaie?-Sì…bella assaie…


Chillo ch’ era cecato ‘a che nascette
Suspiraie. Suspiraie pure chill’ ato,
e ‘a faccia mmiezz’ ‘e mmane annascunnette.


Dicette ‘o primmo, doppo a nu mumente:
–Nun te lagnà, ca ‘e mammema carnale
io saccio ‘a voce…’a voce sulamente…

E se stettero zitte. E attuorno a lloro
addurava ‘o ciardino, e ncielo ‘o sole
luceva, ‘o sole bello, ‘o sole d’ oro…

Salvatore Di Giacomo.”‘ e ciecat ‘e Caravaggio”. (Suniette antiche, voce luntane, Mephite, 2010)

Cristo si e’ fermato a Eboli
(foto Archivio Cameraphoto Epoche/Getty Images)

Carlo Levi era laureato in medicina, ma trascurò presto la professione per dedicarsi alla pittura e alla letteratura. Venne condannato poi al confino in Lucania (dove risiedette nel 1935 e nel 1936) perché ritenuto oppositore del fascismo. Qui scopre il problema meridionale e nasce l’autobiografico “Cristo si è fermato a Eboli”.

In paese si diffonde la notizia che il confinato è un medico. I contadini, che non ripongono fiducia nei due “medicaciucci” Gibilisco e Milillo, lo interpellano sovente per consulenze mediche. Levi all’inizio avrebbe voluto evitare di occuparsi di malati, ma “capii subito che non avrei potuto resistere a lungo nel suo proposito”.

Non mi svegliarono, di primo mattino, le campanelle dei greggi, come a Grassano, perché qui non vi sono pastori, né pascoli, né erba; ma il rumore continuato degli zoccoli degli asini sulle pietre della strada, e il belar delle capre. È l’emigrazione quotidiana: i contadini si levano a buio, perché devono fare chi due, chi tre, chi quattro ore di strada per raggiungere il loro campo, verso i greti malsani dell’Agri e del Sauro, o sulle pendici dei monti lontani. La stanza era piena di luce: il berretto con le iniziali non c’era più. Il mio compagno doveva essere uscito all’alba, per portare i conforti della Legge nelle case dei contadini, prima che quelli partissero per la campagna; e a quest’ora forse già correva, col cappello sfavillante sotto il sole, e il clarinetto, e una capra al guinzaglio, sulla strada di Stigliano. Dall’uscio mi giungeva un suono di voci femminili e un pianto di bambino. Una diecina di donne, con i bimbi in collo o per mano, aspettavano, pazienti, la mia levata. Volevano mostrarmi i loro figli, perché li curassi. Erano tutti pallidi, magri, con dei grandi occhi neri e tristi nei visi cerei, con le pance gonfie e tese come tamburi sulle gambette storte e sottili. La malaria, che qui non risparmia nessuno, si era già insediata nei loro corpi denutriti e rachitici.

Io avrei voluto evitare di occuparmi di malati, perché non era il mio mestiere, perché conoscevo la mia poca competenza, e sapevo che, facendolo, sarei entrato, e la cosa non mi sorrideva, nel mondo stabilito e geloso degli interessi dei signori del paese. Ma capii subito che non avrei potuto resistere a lungo nel mio proposito. Si ripeté la scena del giorno precedente. Le donne mi pregavano, mi benedivano, mi baciavano le mani. Una speranza, una fiducia assoluta era in loro. Mi chiedevo che cosa avesse potuto generarle. Il malato di ieri era morto, e io non avevo potuto far nulla per evitarne la morte: ma le donne dicevano che avevano visto che io non ero, come gli altri, un medicaciucci, ma ero un cristiano bono e avrei guarito i loro figliuoli. Era forse il prestigio naturale del forestiero che viene da lontano, e che è perciò come un dio; o piuttosto si erano accorte che, nella mia impotenza, mi ero tuttavia sforzato di far qualcosa per il moribondo e l’avevo guardato con interesse, e con reale dispiacere? Ero stupito e vergognoso di questa fiducia, tanto piena quanto immeritata. Congedai le donne con qualche consiglio, ed uscii, dietro a loro, dalla stanza ombrosa nella luce abbagliante del mattino. Le ombre delle case erano nere e ferme, il vento caldo che saliva dai burroni sollevava nuvole di polvere: nella polvere si spidocchiavano i cani. Volevo riconoscere i miei confini, che erano strettamente quelli dell’abitato: fare un primo viaggio di circumnavigazione della mia isola: le terre, attorno, dovevano restare, per me, uno sfondo non raggiungibile oltre le colonne d’Ercole podestarili. La casa della vedova è all’estremità alta del paese su uno slargo che termina, in fondo, alla chiesa, una piccola chiesetta bianca, appena più grande delle case. Sull’uscio stava l’Arciprete, occupato a minacciare con un bastone un gruppo di ragazzi che, a qualche passo di distanza, gli facevano boccacce e sberleffi, e si chinavano a terra, nell’atto di volergli gettare delle pietre. Al mio arrivo i ragazzi scapparono come passeri; il prete li seguì con lo sguardo corrucciato, brandendo il bastone e gridando: – Maledetti, eretici, scomunicati! È un paese senza grazia di Dio, questo, – disse poi, rivolgendosi a me. – In chiesa ci vengono i ragazzi, per giocare. Ha visto? Se no, non ci viene nessuno. La messa la dico ai banchi. Neppure battezzati, sono. E i frutti di quelle poche terre, non c’è verso di farseli pagare. Non ho ancora avuti quelli dell’anno passato. Sono tutti fior di galantuomini, davvero, in questo paese, se ne accorgerà.

Era un vecchio piccolo e magro, con degli occhiali di ferro a stanghetta su un naso affilato, all’ombra del pendaglio rosso che scendeva dal cappello, e dietro agli occhiali degli occhietti pungenti, che passavano rapidamente da una fissità ossessionata a un brillare brusco di arguzia. La bocca sottile gli cascava in una piega di abituale amarezza. Sotto all’abito sporco e sdrucito, pieno di frittelle e sbottonato, spuntavano gli stivali scalcagnati e pieni di polvere. Da tutto il suo aspetto spirava un’aria stanca di miseria mal sopportata; come le rovine di una catapecchia incendiata, nera e piena di erbacce. Don Giuseppe Trajella non era amato da nessuno in paese, e dai signori del luogo, l’avevo sentito la sera prima nella loro conversazione, era addirittura esecrato. Gli facevano ogni sorta di villanie, gli aizzavano contro i ragazzi, si lagnavano di lui col prefetto e col Vescovo. – L’Arciprete, se ne guardi, – mi aveva detto il podestà. – È una disgrazia per il nostro paese: una profanazione della casa di Dio. È sempre ubriaco. Non ci è ancora stato possibile liberarcene, ma speriamo di poterlo presto cacciar via. Almeno a Gaglianello, la frazione che è la sua vera sede. È qui da parecchi anni, per punizione. Lo hanno mandato a Gaglianello, lui che era professore di Seminario, per castigo. Si permetteva certe libertà con gli allievi, lei mi capisce. A Gagliano ci sta per abuso, perché non ce n’è un altro. Ma è un castigo per noi -.

Povero don Trajella! Se anche il diavolo lo aveva tentato nei suoi giovani anni, questa era ormai una cosa antica e dimenticata. Ora egli non si reggeva quasi in piedi, non era che un povero vecchio perseguitato e inasprito, una pecora nera e malata in un gregge di lupi. Ma, lo si capiva anche nella sua decadenza, ai bei tempi in cui insegnava teologia al Seminario di Melfi e a quello di Napoli, don Giuseppe Trajella da Tricarico doveva essere stato un uomo buono, intelligente, pieno di spirito e di risorse. Scriveva vite di santi, dipingeva, scolpiva, si occupava vivacemente delle cose del mondo. L’improvvisa disgrazia lo aveva colpito, lo aveva staccato da tutto e l’aveva buttato, come un relitto, su quella lontana spiaggia inospitale. Egli si era lasciato cadere a picco, godendo amaramente di fare più grande la propria miseria. Non aveva più toccato un libro né un pennello. Gli anni erano passati, e di tutte le antiche passioni una sola era rimasta, e aveva preso il carattere della fissazione: il rancore. Trajella odiava il mondo, perché il mondo lo perseguitava. Si era ridotto a vivere solo, senza parlare con nessuno, nella sola compagnia di sua madre, una vecchia di novant’anni, inebetita e impotente. Il suo solo conforto (oltre alla bottiglia, forse) era di passare il giorno a scrivere epigrammi latini contro il podestà, i carabinieri, le autorità e i contadini. – È un paese di asini, questo, non di cristiani, – mi disse, invitandomi a entrare con lui nella chiesa. – Lei sa il latino, vero?

Gallianus, Gallianellus Asinus et asellus Nihil aliud in sella Nisi Joseph Trajella. La chiesa non era che uno stanzone imbiancato a calce, sporco e trasandato, con in fondo un altare disadorno su un palco di legno, e un piccolo pulpito addossato a una parete. I muri, pieni di crepe, erano ricoperti da vecchi quadri secenteschi dalle tele scrostate e piene di strappi, malamente appesi in disordine in parecchie file.

– Questi vengono dalla vecchia chiesa: sono le uniche cose che abbiamo potuto salvare. Li guardi, lei che è pittore. Ma non valgono molto. Questa d’ora non era che una cappella. La vera chiesa, la Madonna degli Angeli, era in basso, all’altra estremità del paese, dove c’è la frana. La chiesa è crollata improvvisamente, è cascata nel burrone, tre anni fa. Per fortuna era notte, l’abbiamo scampata bella. Qui ci sono continuamente le frane. Quando piove, la terra cede e scivola, e le case precipitano. Ne va giù qualcuna tutti gli anni. Mi fanno ridere con i loro muretti di sostegno. Fra qualche anno questo paese non esisterà più. Sarà tutto in fondo al precipizio. Pioveva da tre giorni quando è caduta la chiesa. Ma tutti gli inverni è la stessa cosa: qualche disastro, piccolo o grosso, avviene tutti gli anni, qui come in tutti gli altri paesi della provincia. Non ci sono alberi né rocce, e l’argilla si scioglie, scorre in basso come un torrente, con tutto quello che c’è sopra. Vedrà quest’inverno, anche lei. Ma le auguro di non essere più qui allora. La gente è peggio della terra. Profanum vulgus -. Gli occhi dell’Arciprete brillavano dietro gli occhiali. – Abbiamo dovuto accontentarci di questa vecchia cappella. Non c’è campanile, la campana è fuori, attaccata a un sostegno. Bisognerebbe anche rifare il tetto, ci piove. S’è dovuto anche puntellarla. Vede che crepe nei muri? Ma i denari, chi me li dà? La chiesa è povera, e il paese e poverissimo: e poi non sono cristiani, non hanno religione. Non mi portano nemmeno i regalucci d’uso, figuriamoci per fare il campanile. E il podestà, don Luigi, e gli altri, sono d’accordo a non lasciar far nulla. Loro fanno i farmacisti. Vedrà, vedrà, le loro opere pubbliche! Il mio cane Barone, inconsapevole della maestà del luogo, si affacciava all’uscio, stanco di aspettarmi, abbaiando allegro, e non mi riusciva di scacciarlo o di farlo tacere.

Presi allora congedo da don Trajella; e mi avviai, per la stessa strada a sinistra della chiesa che avevo percorso il giorno prima arrivando, verso le prime case del paese. Era questa la zona che mi era apparsa, il giorno avanti, passando rapido in automobile, accogliente e quasi gentile d’alberi e di verde. Ma ora, sotto il sole crudo del mattino, pareva che il verde si fosse dissolto nel grigio abbagliante dei muri e della terra. Era un gruppo di case costruite in disordine ai lati della strada, con attorno degli orticelli stenti e qualche magro olivo. Quasi tutte le case erano costituite da una sola stanza, senza finestre, che prendeva luce dalla porta. Le porte erano sbarrate, poiché i contadini erano nei campi: a qualche soglia stavano sedute delle donne con i bambini in grembo, o delle vecchie che filavano la lana; e tutte mi salutavano con un gesto, e mi seguivano con i grandi occhi spalancati. Qua e là alcune case avevano invece un primo piano, e un balcone; e la porta di strada, invece di essere di vecchio legno nero e consumato, brillava pretensiosamente di vernice, e si adornava di una maniglia di ottone. Erano le case degli «americani». In mezzo alle catapecchie contadine stava una casetta lunga e stretta, a un piano, costruita da poco nello stile cosiddetto moderno, quello dei sobborghi delle città, era la caserma dei carabinieri. Sulla strada e attorno alle case, nei mucchi di spazzature e di rifiuti, le scrofe, circondate dalle loro famiglie di maialini, dal viso di vecchietti avidi e libidinosi, grufolavano diffidenti e feroci, e Barone ringhiava rinculando, sollevando il labbro sulle gengive, coi peli ritti di uno strano orrore. Dopo l’ultima casa del paese, dove la strada, superata una selletta, comincia a scendere verso il Sauro, c’era un breve spiazzo di terra disuguale, coperta a tratti di un’erba gialla e intristita. Era il campo sportivo, opera del podestà Magalone. Qui dovevano esercitarsi i ragazzi della Gil, e si dovevano fare le adunate di popolo. A sinistra un sentiero saliva ancora su un poggio poco distante coperto di ulivi e terminava a un cancelletto di ferro, aperto tra due pilastrini che si continuavano in un muretto basso di mattoni. Dietro il muretto spuntavano due sottili cipressi; attraverso il cancello si vedevano le tombe, bianche sotto il sole. Il cimitero era il limite estremo, in alto, del terreno che mi era concesso. La vista di lassù era più larga che da ogni altro punto, e meno squallida. Non si vedeva tutto Gagliano, che sta nascosto come un lungo serpente acquattato fra le pietre; ma i tetti rosso-gialli della parte alta apparivano fra le fronde grige degli ulivi mosse dal vento, fuori della consueta immobilità, come cose vive; e, dietro questo primo piano colorato, le grandi distese desolate delle argille sembravano ondulare nell’aria calda come sospese al cielo; e sopra il loro monotono biancore passava l’ombra mutevole delle nubi estive. Le lucertole stavano immobili sul muro assolato; una, due cicale si rispondevano a tratti, come provando un canto, e poi tacevano improvvise.

Poiché di qui mi era vietato continuare, mi volsi al ritorno, scendendo rapido al paese per la strada percorsa; ripassai davanti alla chiesa, alla casa della vedova, e, giù per la discesa, arrivai all’ufficio postale, e al muretto della Fossa del Bersagliere. Il podestà, maestro di scuola, era in quel momento nell’esercizio delle sue funzioni di insegnante. Stava seduto al balcone della sua classe, e fumava guardando la gente sulla piazza, e interpellando democraticamente tutti i passanti. Aveva in mano delle lunghe canne, con le quali, ogni tanto, ristabiliva l’ordine senza muoversi dalla seggiola attraverso la finestra aperta, colpendo, con un colpetto abilissimo e ben aggiustato, la testa o le mani dei ragazzi che, lasciati soli, facevano troppo chiasso. – Bella giornata, dottore! – mi gridò dal suo arengo, quando mi vide comparire sulla piazza. Di lassù, con le sue bacchette in mano, egli si sentiva veramente il padrone del paese, un padrone affabile, popolare e giusto; e nulla poteva sfuggire alla sua vista. – Non l’avevo ancora veduto, stamattina. Dov’è stato? A passeggiare? Su, fino al cimitero? Bravo, bravo, passeggi, passeggi! Si diverta. E si trovi qua in piazza dopo colazione, alle cinque e mezzo. Prima dormirà, credo. Le voglio far conoscere mia sorella. Dove va? A Gagliano di Sotto? A cercare alloggio? Mia sorella glielo troverà, non si preoccupi. Per un uomo come lei non ci vuole una casa di contadini. Ma le troveremo meglio, dottore! E buona passeggiata!-

Dopo la piazza, la strada risaliva, superava un costone, e ridiscendeva in un’altra minuscola piazzetta, circondata di case basse. In mezzo alla piazza si ergeva uno strano monumento, alto quasi quanto le case, e, nell’angustia del luogo, solenne ed enorme. Era un pisciatoio: il più moderno, sontuoso, monumentale pisciatoio che si potesse immaginare; uno di quelli di cemento armato, a quattro posti, con il tetto robusto e sporgente, che si sono costruiti soltanto in questi ultimi anni nelle grandi città. Sulla sua parete spiccava come una epigrafe un nome familiare al cuore dei cittadini: «Ditta Renzi – Torino». Quale bizzarra circostanza, o quale incantatore o quale fata poteva aver portato per l’aria, dai lontani paesi del nord, quel meraviglioso oggetto, e averlo lasciato cadere, come un meteorite, nel bel mezzo della piazza di questo villaggio, in una terra dove non c’è acqua né impianti igienici di nessuna specie, per centinaia di chilometri tutto attorno? Era l’opera del regime, del podestà Magalone. Doveva essere costato, a giudicare dalla sua mole, le entrate di parecchi anni del comune di Gagliano. Mi affacciai al suo interno: da un lato un maiale stava bevendo l’acqua ferma nel fondo del vaso, dall’altra due ragazzi ci buttavano barche di carta. Nel corso di tutto l’anno non lo vidi mai adibito ad altra funzione, né abitato da altri che non fossero maiali, cani, galline, o bambini; se non la sera della festa della Madonna di settembre, in cui alcuni contadini si arrampicarono sul suo tetto per meglio godere, da quell’altezza, lo spettacolo dei fuochi artificiali. Una sola persona lo usò spesso per l’uso per cui era stato costruito; e quella persona ero io: e non l’usavo, debbo confessarlo, spinto dal bisogno, ma mosso dalla nostalgia. A un angolo della piazzetta, dove quasi giungeva l’ombra lunga del monumento, uno zoppo, vestito di nero, con un viso secco, serio, sacerdotale, sottile come quello di una faina, soffiava come un mantice nel corpo di una capra morta. Mi fermai a guardarlo. La capra era stata ammazzata poco prima, lì sulla piazzetta, e sdraiata sopra un tavolaccio di legno su due cavalletti. Lo zoppo, senza tagliarne altrove la pelle, aveva fatto una piccola incisione in una delle zampe di dietro, vicino al piede, e all’incisione aveva posto la bocca, e a forza di polmoni andava gonfiando la capra, staccandone la pelle dalla carne. A vederlo così attaccato all’animale, che andava a mano a mano mutando e crescendo, mentre l’uomo, senza mutare contegno, pareva assottigliarsi e svuotarsi di tutto il suo fiato, sembrava di assistere a una strana metamorfosi, dove l’uomo si versasse, a poco a poco, nella bestia. Quando la capra fu gonfia come una mongolfiera, lo zoppo, stringendo con una mano la zampa, staccò finalmente la bocca dal piede dell’animale, e se la pulì con la manica; poi, rapidamente, si pose a rovesciare la pelle della capra, come un guanto che si sfili, fino a che la pelle, intera, fu tutta sgusciata, e la capra, nuda e spelata come un santo, rimase sola sul tavolaccio a guardare il cielo.

– Così non si sciupa, si possono farne degli orci, – mi spiegò lo zoppo, pieno di sussiego, mentre un ragazzo docile e taciturno, suo nipote, lo aiutava a squartare la bestia. – Quest’anno c’è parecchio lavoro. I contadini ammazzano tutte le capre. Per forza. La tassa chi può pagarla?-

Pare infatti che il governo avesse da poco scoperto che la capra e un animale dannoso all’agricoltura, poiché mangia i germogli e i rami teneri delle piante: e aveva perciò fatto un decreto valido ugualmente per tutti i comuni del Regno, senza eccezione, che imponeva una forte imposta su ogni capo, del valore all’incirca della bestia. Così, colpendo le capre, si salvavano gli alberi. Ma a Gagliano non ci sono alberi, e la capra è la sola ricchezza del contadino, perché campa di nulla, salta per le argille deserte e dirupate, bruca i cespugli di spine, e vive dove, per mancanza di prati, non si possono tenere né pecore né vitelli. La tassa sulle capre era dunque una sventura: e, poiché non c’era il denaro per pagarla, una sventura senza rimedio. Bisognava uccidere le capre, e restare senza latte e senza formaggio. Lo zoppo era un proprietario decaduto, ma fiero tuttavia della sua posizione sociale, che per campare faceva molti mestieri; e fra l’altro era suo compito il sacrificio delle capre. Grazie al provvido decreto ministeriale potei, quell’anno, trovar spesso da lui della carne: negli anni precedenti, mi disse, mi sarei dovuto accontentare di mangiarla molto di rado. Egli si occupava anche di amministrare i beni di qualche proprietario che non abitava in paese, sorvegliava i contadini, faceva da sensale nelle vendite, metteva mano ai matrimoni, conosceva tutto e tutti; e non c’era avvenimento o fatterello dove non si vedesse comparire silenziosamente la sua gamba zoppa, il suo abito nero e il suo viso volpino. Era curiosissimo, ma, nelle parole, riservato: le sue frasi si fermavano a mezzo, a lasciare intendere che egli sapeva molto più che non dicesse; e sempre con un che di solenne e dignitoso, e terribilmente serio, quasi a smentire il suo cognome, Carnovale. Come seppe che cercavo un alloggio e possibilmente abbastanza grande e luminoso da poterci dipingere, rifletté un poco, con aria concentrata, e mi disse che c’era il palazzo dei suoi cugini che io forse conoscevo, perché erano dei grandi dottori di Napoli. Avrei forse potuto averne una parte, due o tre stanze: avrebbe subito scritto in città: sarebbe stata per me una fortuna, era la sola casa che potesse convenirmi. Era vuota, ma un letto e gli altri mobili necessari me li avrebbe potuti affittare lui. Se intanto volevo visitarlo, mi avrebbe subito fatto accompagnare dal nipote con le chiavi. Mi avviai col ragazzo, anche lui nero, triste e compassato come lo zio. La strada scendeva ancora dopo la piazzetta, finché arrivava ad un punto dove i due burroni di destra e di sinistra non lasciavano più posto per le case, e lì scorreva sullo stretto ciglione fra due muretti bassi, al di là dei quali l’occhio si perdeva nel vuoto. Era un intervallo di un centinaio di metri fra Gagliano alta e Gagliano bassa; e qui, fra le due gole, il vento soffiava violento in perpetuità. Verso il mezzo di questo intervallo, in un punto dove il ciglione si allargava un poco, c’era una delle due sole fontanelle del paese: l’altra l’avevo vista in alto, vicino alla chiesa. La fontanella, che dava l’acqua per tutta Gagliano di Sotto e per buona metà di Gagliano di Sopra, era allora affollata di donne, come la vidi poi sempre, in tutte le ore del giorno. Stavano in gruppo, attorno alla fontana, alcune in piedi, altre sedute per terra, giovani e vecchie, tutte con una botticella di legno sul capo, e la brocca di terra di Ferrandina. Ad una ad una si avvicinavano alla fontana, e aspettavano pazienti che l’esile filo d’acqua riempisse gorgogliando la botte: l’attesa era lunga. Il vento muoveva i veli bianchi sui loro dorsi diritti, tesi con naturalezza nell’equilibrio del peso. Stavano immobili nel sole, come un gregge alla pastura; e di un gregge avevano l’odore. Mi giungeva il suono confuso e continuo delle voci, un sussurrare ininterrotto. Al mio passaggio nessuna si mosse, ma mi sentii colpito da diecine di sguardi neri, che mi seguirono fermi e intensi, finché, superato l’intervallo, ricominciai a salire per giungere alle case di Gagliano di Sotto, che ridiscende poi fino alla chiesa diroccata e al precipizio. Giungemmo in breve al palazzo: e davvero era la sola costruzione, in paese, che potesse portare questo nome. Di fuori aveva un aspetto tetro con i suoi muri nerastri e le piccole finestre ferrate, e i segni di un secolare abbandono. Era la vecchia dimora di una famiglia nobile che da molto tempo aveva emigrato. Era stata poi adibita a caserma dei carabinieri, che l’avevano lasciata per la nuova sede modernizzante. Del passaggio dei militi serbava nell’interno i ricordi, nella sporcizia e nello squallore delle pareti. C’erano ancora le celle di sicurezza, ricavate dividendo un salone, buie, con le bocche di lupo alle finestrelle e i grandi catenacci alle porte. Ma le porte, gonfiate dall’acqua e dai geli, non chiudevano più; i vetri delle finestre erano tutti rotti, uno spesso strato di polvere, portata dal vento, copriva ogni cosa. Dal soffitto, dorato e dipinto, pendevano lembi di pittura e ragnatele; i pavimenti di pietra bianca e nera a disegno erano sconnessi, e qualche grigio filo d’erba cresceva negli interstizi. Al nostro ingresso nelle sale eravamo accolti da un rumore rapido e furtivo, come di animali che corressero impauriti nei loro nascondigli. Spalancai una porta-finestra, mi affacciai a un balcone, dalla pericolante ringhiera settecentesca di ferro, e, venendo dall’ombra dell’interno, rimasi quasi accecato dall’improvviso biancore abbagliante. Sotto di me c’era il burrone; davanti, senza che nulla si frapponesse allo sguardo, l’infinita distesa delle argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissime, parevano sciogliersi nel cielo bianco. Nessun’ombra svariava questo immobile mare di terra, divorato da un sole a picco. Era mezzogiorno, ora di rientrare.

Come avrei potuto vivere in questa rovina nobiliare? Tuttavia, il luogo aveva un suo triste incanto: avrei potuto passeggiare sulle pietre sconnesse dei saloni, e preferivo, per compagnia delle mie notti, i pipistrelli agli ufficiali esattoriali e alle cimici della vedova. Forse, pensavo, avrei potuto far rimettere i vetri, farmi arrivare da Torino una zanzariera per proteggermi dalla malaria, e ridar vita ai muri arcigni e cadenti del palazzo. Dissi allo zoppo che mi aspettava sulla piazzetta con la sua capra squartata, che scrivesse a Napoli, e risalii verso casa.

Arrivato al muretto della Fossa del Bersagliere, sulla piazza, vidi un giovane biondo, alto e aitante, con una camicia cittadina dalle maniche corte, uscire dall’usciolo di una catapecchia portando in mano un piatto di spaghetti fumanti, traversare la piazza, posare il piatto sul muretto lanciando un fischio di richiamo, e rientrare poi rapidamente di dove era venuto. Mi fermai incuriosito a guardare di lontano quella pastasciutta abbandonata. Subito, da una casa di faccia, uscì un giovane alto, bruno questo, e bellissimo, con un viso pallido e malinconico, vestito di un abito grigio di taglio elegante. Andò al muretto, prese il piatto degli spaghetti e ritornò sui suoi passi. Giunto sulla soglia, lanciò un’occhiata circospetta alle finestre e alla piazza deserta, si volse verso di me, sorrise, mi fece con la mano un amichevole cenno di saluto, e subito, chinandosi per passare nella porticina bassa, scomparve in casa.

Don Cosimino, il gobbetto della posta, stava chiudendo il suo ufficio, e dal suo angolo nascosto aveva visto tutto come me. Si accorse del mio stupore, e mi fece col capo un cenno d’intesa; io lessi la simpatia nei suoi occhi tristi e arguti. – Questa scena, – mi disse, – avviene tutti i giorni a quest’ora. Sono due confinati come lei. Quello biondo è un muratore comunista di Ancona, un ottimo ragazzo. L’altro è uno studente di scienze politiche di Pisa. Era ufficiale della Milizia, e comunista anche lui. È di famiglia modesta, ma non gli danno il sussidio perché sua madre e sua sorella sono maestre, e perciò, dicono, hanno i mezzi per mantenerlo. Prima i confinati potevano stare assieme, ma da qualche mese don Luigi Magalone ha dato l’ordine che non debbano neppure vedersi. Quei due, che facevano cucina comune per economia, ora sono costretti a preparare il pranzo a turno, un giorno per uno, e a portare i piatti sul muretto, dove l’altro li va a prendere quando il primo è già rientrato in casa. Se no, se si incontrassero, chissà che pericolo per lo Stato!- C’eravamo incamminati insieme su per la salita: don Cosimino abitava non lontano dalla casa della vedova, con la moglie e parecchi bambini. – Don Luigi ci bada molto a queste cose. Lui è per la disciplina. Le pensano insieme, lui e il brigadiere. Con lei spero sarà diverso. Ma ad ogni modo non se la prenda, dottore! – Don Cosimino mi guardava di sotto in su, consolatore. – Hanno la mania di fare i poliziotti, e vogliono saper tutto. Il muratore ha avuto, anche delle noie. Parlava con dei contadini, e cercava di spiegare le teorie di Darwin, che l’uomo deriva dalla scimmia. Io già non sono darvinista, – e don Cosimino sorrideva arguto, – ma non ci vedo nulla di male, se qualcuno ci crede. Don Luigi lo è venuto a sapere, naturalmente. E ha fatto una scenata terribile. L’avesse sentito gridare! Ha detto al muratore che le teorie di Darwin sono contro la religione cattolica, che il cattolicismo e il fascismo sono una cosa sola, e che perciò parlare di Darwin è fare dell’antifascismo. E ha scritto anche a Matera, alla questura, che il muratore faceva propaganda sovversiva. Ma i contadini gli vogliono bene. È gentile e sa far di tutto -. Eravamo arrivati a casa sua. – Stia di buon umore, – mi disse. – Lei è appena arrivato, e si deve abituare. Ma tutto questo passerà. –

Quasi timoroso di aver detto troppo, questo angelo gobbo mi salutò bruscamente e mi lasciò.

Carlo Levi, “Cristo si è fermato a Eboli”. (Einaudi 1945).

Una cosa che comincia per elle

In questo racconto, contenuto nell’antologia “Boutique del mistero”, Buzzati racconta la lebbra, malattia innominabile e contratta dal mercante Schroder costretto a girare seminudo con la campanella del lebbroso.

Versione integrale audio del racconto

Cristoforo Schroder, mercante in legnami, andò subito a letto, perché non si sentiva bene. Mandò poi a chiamare il medico dottor Lugosi, ch’egli conosceva da anni. Il medico venne e sembrò rimanere perplesso. Escluse che ci fossero cose gravi, si fece dare una bottiglietta di orina per esaminarla e promise di tornare il giorno stesso.
Il mattino dopo lo Schroder si sentiva molto meglio (…)

“Sono qui con un amico, questa mattina” (…)

“Tutto bene, le orine. Solo vorrei farvi un piccolo salasso. ” (…)

Intanto il visitatore estraneo, senza togliersi l’ampio mantello, aveva deposto sul tavolo il cappello e un pacchetto oblungo che mandò un rumore metallico. Lo Schroder notò con un senso di vago malessere, che l’uomo si era seduto quasi sulla soglia come se gli premesse di stare lontano da lui.
” Don Valerio, voi non lo immaginate, ma vi conosce già” disse allo Schroder il medico (…)

Vi dirò non ho mai avuto l’onore di incontrarvi personalmente, ma so qualche cosa di voi che certo non immaginate. ” (…)

“Non era un uomo alto, tutto nero in faccia, con uno strano cappello a cilindro? ” insisteva don Valerio. ” E non aveva una specie di campanella? Non vi ricordate che continuava a suonare? ”  (…)

” E chi era quell’uomo, allora? ” chiese lo Schroder con asprezza, come per far capire che se il Melito aveva qualche cosa da dire, era meglio che lo dicesse subito. (…)

Voi, piuttosto, chi credeste che fosse?” (…)

Un povero diavolo, un disgraziato (…)

“Uno zingaro, poteva essere. Per far venire gente li ho visti tante volte suonare una campana” (…)

” No. Non era uno zingaro. O, se lo era stato una volta, non lo era più. Quell’uomo, per dirvelo chiaro, è una cosa che comincia per elle. “
” Una cosa che comincia per elle? ” (…)

“Un ladro? Volete dire?” (…) Un lanzichenecco forse?… ” (…)

” Nè un ladro nè un lanzichenecco ” disse lentamente il Melito. ” Un lebbroso, era. ” (…)

Sono l’alcade, caro signore (…)” In quel pacchetto c’è la vostra campanella ” rispose. ” Uscirete immediatamente di qui e continuerete a suonarla, fino a che sarete uscito fuori del paese, e poi ancora, fino a che non sarete uscito dal regno. “

“La giacca, la mantella, e basta. L’altro deve essere bruciato. Per la carrozza e il cavallo si è già provveduto.” (…)

Dino Buzzati. La boutique del mistero. (Oscar Mondadori, Mondadori, 1968)

Dino Buzzati, Romanzi e racconti

In questo racconto, Buzzati descrive questa sconosciuta malattia (peste canina) e i suoi strani sintomi. Le poche conoscenze circa questa nuova epidemia generavano preoccupazione generale che sfociò in un “decreto del governatore” che proibii gli assembramenti, unita a ipocondria e allarmismi veri…O presunti.

Paurosissimo delle malattie, io le sento venire da lontano. (…)

Di questa malattia si raccontava una quantità di cose strane. Secondo alcuni proveniva dal cuore impenetrabile dell’Africa, altri invece dicevano che fosse stata provocata da un sacrilegio in Terrasanta. La chiamavano canina non perché colpisse i cani ma perché nella fase dell’incubazione, che durava uno o due giorni, l’ammalato emanava un forte odore. (…) Spesso ricordava il cane. (…) Un effluvio specialissimo, indefinibile a parole; che era lo stesso marchio della peste. E pochissimi erano in grado di distinguerlo. (…) medici o infermieri, o suore che erano vissuti in Africa o in Oriente.  Altri sintomi denotavano l’esplodere della peste vera e propria. (…) Ma ce n’era uno tipico e fatale: l’uomo colpito dal contagio non era più capace di un discorso organizzato (…)

Perciò la si chiamava anche peste sillabica.  (…)

Esisteva, è vero, un vaccino capace di stroncare l’infezione: ma doveva essere iniettato al tempo giusto, nel corso dell’incubazione, né prima né dopo; guai se si tardava; guai anche se lo si propinava, per errore, a una persona sana; se in seguito costui si contagiava, il vaccino non sarebbe più servito a niente. L’allarme fu gettato all’improvviso. Un decreto del governatore, alludendo in modo vago a pericoli di epidemie, proibì gli assembramenti e gli spettacoli, chiuse i locali pubblici, impose il controllo dei viaggiatori eccetera. In poche ore tutta la popolazione seppe. E già si udivano le sirene delle autoambulanze chiamata qua e là a trasportare i moribondi. Fu il terrore. (…)

Per fortuna io ero amico del professore Ettore Tiriaca, il clinico famoso (…)

Scoppiata l’epidemia, divenni l’ombra stessa del Tiriaca. (…) Col mio terrore di essere infettato, sentivo un odore dopo l’altro, immaginandomi che venissero da me. Il Tiriaca mi rassicurava: “Ma io non sento niente” (…)

Una sera – ero invitato a pranzo – appena entrato a casa Tiriaca, sento odore di tartufo. Magnifico, dico a me stesso, perché di tartufi sono ghiotto. (…)

“Ma dimmi, professore… come mai quest’odore di tartufi” “Tartufi?… Io non sento odore di tartufi… (…)

“Non sarò mica io per caso a …?” Lui mi annusa col suo grande naso, sorridendo. “Tu sei su una brutta china, caro mio… Di questo passo finirai dritto al manicomio” “Professore non inquietarti, l’odore c’è, ti giuro… E io ti sono amico… Io te lo volevo dire…  ascolta… non potrebbe darsi che … non potrebbe darsi che a odorare di tartufo… insomma non potresti essere tu?”

Il Tiriaca mi fissa, il sorriso gli si è fermato sulle labbra, non capisce se io voglio scherzare. Gli viene forse un dubbio? No. Si mette anzi a ridere di gusto. “Non mi illudevo che tu mi stimassi un luminare” dice “ma almeno che io non fossi un asino del tutto… Se mi fossi impestato, per capirlo credi forse che avrei bisogno dell’odore?” (…)

Per la prima volta io non gli credo, le sue parole non danno più sollievo. E intanto l’odore va crescendo, la casa ne è ammorbata, io cerco di andarmene al più presto. (…)

Anche la notte passa. Alle otto e mezzo salgo dal Tiriaca per accompagnarlo in clinica. Entrato, annuso. L’odore di tartufo non c’è più. Meno male, mi dico, si vede che era tutta suggestione. In quel mentre arriva il professore. “Beh, come la va? Senti ancora la presenza di tartufi? Ti sei calmato?… Ieri sera dopo che te ne sei andato, non credere, io non ci ho pensato su… e ho capito da dove ghe ghe quell’odore, in parte credo che sia… in parte… mah… invece, eh già… sgabusè toil gragiueaaa…” la frase si perse in un groviglio incomprensibile. (…)

La sera stessa fuggii dalla città (…)

E già è passato un mese. A quest’ora, se io fossi rimasto contagiato, il male sarebbe pur venuto fuori. Invece io sto bene, non emetto odori, parlo speditamente vero che parlo con la massima scioltezza? Il brutto sarebbe infatti se all’improvviso cominciassi anch’io a barbugliare, confondendomi, allora si sippo po potrei dirmi spaccirmi…

Dino Buzzati. “Romanzi e racconti”. A cura di Giuliano Gramigna. I Meridiani Mondadori, 1975

“No” all’orecchio

Brano tratto da una novella del futurista Aldo Palazzeschi. In questi paragrafi l’autore descrive come la disabilità costringa il protagonista a dover fingere pur di non dover “dichiararsi sordo davanti all’universo”.

Abituato alla pratica soave della tenerezza e dell’idillio, come avrebbe potuto piegarsi alla spietata realtà? E allorquando la donna amata gli avrebbe sussurrato a fior di labbro nell’orecchio: “Quanto bene mi vuoi, angelo mio?”. Rispondere sollécito: “Domani è sabato”. E applicarsi quel ridicolo strumento che equivaleva a mettersi sul capo un cartello per dichiararsi sordo davanti all’universo. Sordo come una campana, come un tamburo, come un panchetto (…)

Infilò la via opposta dicendo: “No!” all’orecchio.

Conobbe per tale decisione il travaglio smisurato e disumano dell’uomo che non vuole o non deve essere sé stesso e vive dimostrando il contrario conquistando a poco a poco l’arte seduttrice della falsità e dell’infingimento fino a costruirvi un vero e proprio capolavoro.

Divenne frequentatore assiduo del teatro d’opera e dei concerti in special modo; ne seguiva l’esecuzione attento, penetrato, dotto, pur non udendo sia pur vagamente un suono. (…)

La sua penetrazione era tale da fargli esternare, in modo perfetto, tutto quello che non poteva sentire, e le persone che si trovavano vicino a lui di posto erano trascinate a seguirlo e ammirarlo lasciandosi trasportare più che dalla musica in sé, dal suo trasporto (…)

“Che intenditore dev’essere quello!” sussurravano tra loro (…)

Divenne frequentatore assiduo delle conferenze durante le quali, pur non riuscendo ad afferrare una sillaba del suo discorso, seguiva il conferenziere senza battere ciglio, e da parte sua sottolineandone le espressioni con segni marcatissimi di comprensione e di consenso (…)

E quelli che si trovavano vicini a lui reprimendo o nascondendo nella mano educatamente uno sbadiglio dopo l’altro, del loro irrefrenabile sbadigliare in serie si ravvivavano e consolavano osservandolo: “Beato lui! E’ della partita né più né meno. Eccone uno che sa il fatto suo. Uno scienziato, un erudito, un enciclopedico. (…)

Aldo Palazzeschi, “No! All’orecchio”. (Tutte le novelle. Meridiani Mondadori, 1957)

Céline, demonio antisemita e angelo dei malati

Lo scrittore francese è un personaggio controverso: la sua trilogia lo ha reso celebre e amato dai lettori ma le posizioni espresse in “Bagattelle per un massacro” lo hanno reso un “maledetto” inviso a molti. Non è certo la sua l’unica figura della letteratura in cui si mescolano il valore artistico e la scorrettezza politica, ma nel caso di Louise Ferdinand Destouches si aggiunge un terzo elemento di interesse: l’attività di medico svolta anche negli ultimi anni di vita in modo letteralmente e simbolicamente periferico, marginale, assieme agli ultimi. Lo ricordiamo attraverso un testo che ricorda proprio questa duplicità


[…]
«Il personaggio Céline non potrà mai diventare simpatico a nessun lettore […] Tutto il suo dramma sta […] nella mancanza di equilibrio tra l’intelligenza piena della realtà e la sua resistenza morale»; una realtà sua, fatta però di allucinazioni prodotte dalla realtà vera, e una sua morale negativa che è ispirata e si rivolge a uomini contraffatti che recitano e vivono indossando una maschera mostruosa plasmata dai propri vizi, quelli dichiarati e quelli taciuti. «Céline bisogna prenderlo tutto insieme …» accettando la sua esacerbazione verbale come insostitui

bile mezzo di ricerca. Questo è il giudizio sofferto, ma chiaro e condivisibile, delineato da Carlo Bo, eminente critico cattolico, in un famoso saggio sull’autore di Viaggio al termine della notte (trad. it. Corbaccio 1933), anteposto alla traduzione italiana della sua seconda opera letteraria uscita in Francia nel 1936, Morte a credito (Garzanti 1964). Si tratta di un giudizio utile perché, a differenza delle condanne senza appello espresse da personaggi come Sartre e Moravia, non fomenta la messa all’indice di tutte le opere di questo autore e nel contempo sollecita una condanna senza attenuati delle sue derive antiebraiche e collaborazioniste con i nazisti. Non può infatti essere richiesta a tutti la capacità di un Cesare Cases, lui grande germanista letterato ed ebreo, che, dovendo ammettere che quella di Céline è un’opera straordinaria di ricognizione umana che non ha avuto seguito e che il Viaggio è una delle proposte più forti, il maggior romanzo del Novecento, si spinge a sostenere che quando egli usa il termine “ebreo” indirizzando a questi un odio allucinante, in realtà intende additare al pubblico ludibrio gli emblemi più brutali della modernizzazione capitalistica e cioè l’impero del denaro, la standardizzazione della vita quotidiana, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America e l’Unione Sovietica, tutto o quasi tutto. È lo stesso Cases tuttavia che sintetizza meglio il suo pensiero quando dice che Cèline deve essere trattato come qualcuno da stampare al mattino e da fucilare nel primo pomeriggio.



Una vita vissuta
Tutti gli scritti di Céline, quelli letterari e quelli medici, hanno una forte derivazione autobiografica, una biografia complessa, pericolosa, straripante. Precocemente viaggia, impara inglese e tedesco e si impiega in diverse ditte commerciali. Volontario nella Prima guerra mondiale, viene ferito a un braccio e riformato: da questo momento e per tutta la vita soffrirà d’insonnia, di angoscia e di acufeni; nel 1916 dirige per nove mesi una piantagione di cacao in Camerun, quindi lavora in Francia nella redazione di una rivista di divulgazione scientifica.
Nel 1918 si iscrive alla facoltà di medicina di Rennes e si laurea nel 1924 con una tesi “romanzata” su Semmelweis, avendo come tutor il suocero e usufruendo di facilitazioni come reduce; in questo stesso periodo è attivo in una campagna antitubercolare della Fondazione Rockfeller.
Fa per un periodo il ricercatore all’Institut Pasteur; dal 1924 al 1928 lavora per la Società delle nazioni, branca “salute”, e viaggia da Ginevra a Liverpool, in Africa, in Italia (a Roma incontra Mussolini in persona che gli parla delle sue campagne antimalariche), a Cuba, negli Stati Uniti e in Canada (dove guida una delegazione di medici sudamericani in visite, tra l’altro, alle fabbriche Ford e Westinghouse) e dopo di nuovo in Europa; in alcuni di questi spostamenti fa anche il medico di bordo. Alla fine del 1927 apre uno studio medico a Clichy dove, a eccezione di un periodo trascorso all’ospedale Laennec, svolge con poche gratificazioni la professione di medico di base nei confronti di una clientela molto povera, disperata, ma contemporaneamente è assunto in un servizio municipale di igiene pubblica, pratica «una medicina collettiva terapeutica» e sperimenta, per conto di alcune società farmaceutiche, dei farmaci, compreso un medicamento contro i dolori mestruali, partecipando attivamente alla Società di medicina di Parigi. Compie viaggi in Germania, Gran Bretagna, nei Paesi Scandinavi e a Vienna; nel 1944, dopo la liberazione della Francia, ripara in Germania con i membri del governo collaborazionista di Vichy e, quindi, in Danimarca, dove passerà in prigione quattordici mesi e risiederà sino al 1951, quando l’amnistia gli consentirà il ritorno in Francia con una condanna per “indegnità nazionale” con la confisca dei beni. Vivrà con la moglie Lucette e numerosi animali a Meudon, a circa 10 chilometri da Parigi, dove continuerà fino alla fine la sua attività di medico, anche se poche erano le persone che accettavano di farsi curare da lui.




Destouches ovvero Céline
In sintesi, Louis-Ferdinand Auguste Destouches (1894-1932) è il medico che diventerà scrittore; Louis-Ferdinand Céline (1932-1961), pseudonimo mutuato dalla nonna materna con il quale pubblica, nel 1932, la sua prima opera letteraria, Viaggio al termine della notte, è lo scrittore medico.
Difficilmente tuttavia apprezzando cumulativamente la vita e le opere dei due personaggi, a differenza di come ha fatto qualche critico, si potrà pensare a una separatezza, a una doppia personalità, del medico e dello scrittore.
Altrettanto difficilmente si potrà pensare all’antisemitismo teorizzato e praticato come a un episodio isolato, espressione di una sorta di terza personalità (1937-1941) illustrato soltanto da tre pamphlet:
Bagatelle per un massacro (trad. it., Corbaccio 1938),
La scuola dei cadaveri (trad. it., Edizioni Soleil 1997),
La bella rogna (trad. it., Fata Morgana 1981).

Ancora difficile sarebbe pensare, come ha suggerito qualcuno, che è esistito un Destouches-Céline comunista, o per lo meno simpatizzante comunista, solo sino al 1937, quando, dopo una visita in Unione Sovietica, formalmente per reclamare e spendere i diritti dei suoi libri tradotti, pubblica un terribile pamphlet antisovietico, Mea culpa (trad.it, Scheiwiller 1975).
Infine, travagliati ma non indice di sicuro pentimento dell’adesione al nazismo, risultano le ultime prove letterarie, la Trilogia del Nord (Da un castello all’altro, Nord, Rigodon), tradotte in Italia nei primi anni Settanta e oggi disponibili in un unico volume (Einaudi 2010). Dunque abbiamo a che fare con un individuo dotato di una certa coerenza, anche spregevole, che solleva, parlandone senza ritegno, problemi personali, sociali da lui direttamente interpretati, importanti e irrisolti e con prospettive che non fanno scorgere nulla di buono, alcuna soluzione, operando abitualmente in maniera politicamente e moralmente scorretta.
Alla fine Céline risulta essere tante cose assieme: populista, volontario in guerra, pacifista, anticolonialista, cosmopolita, anarchico e nichilista, animalista, medico dei poveri, irreligioso e antimassone, igienista e temperante (non beve e non fuma), riservato, affettuoso; tutte queste cose e anche il contrario di esse, o di quasi tutte. È per tali motivi che l’autore e l’uomo Céline è ammirato da alcuni, una ristretta élite intellettuale, osannato da scalmanati che evocano principalmente il suo antiebraismo, guardato con timore dalla maggioranza.
Prima di affrontare gli scritti più direttamente medici e igienici di Céline è opportuno soffermarsi sul Viaggio, un affresco dell’umanità, quella della guerra, dell’industrializzazione, delle colonie, del lavoro industriale, dell’alienazione metropolitana, della miseria delle periferie, delle aridità delle coscienze. In questo scenario si muove lo sconsolato e ironico medico Ferdinand Bardamu che, ferito durante la Prima guerra mondiale e in convalescenza a Parigi, conosce l’americana Lola; si ritrova in Africa; incorre in una serie di avventure sia tragiche sia buffe; raggiunge fortunosamente l’America e si arruola nel servizio immigrazione e nell’industria automobilistica; ritrova Lola, si fa prestare fraudolentemente del denaro e torna in Francia; apre uno studio medico in provincia, dove conoscerà una realtà macabra. Bardamu, dopo un tortuoso ma vitale percorso, iniziato nel buco nero della guerra sbocca al fondo, nel buco ancora più oscuro della morte. La narrazione, incalzante è ricca di esercizi fonici, di slittamenti semantici, di paratassi, di puntini che non assumono soltanto il significato della sospensione. Quelli che seguono sono delle citazioni (tratte dalle edizione dall’Oglio del 1962) scelte perché esprimono più da vicino impressioni o concetti medici molto influenti nell’opera complessiva:


– « I malati non mancavano, ma non c’erano molti che potessero o volessero pagare. La medicina è una cosa ingrata. Quando ci si fa pagare dai ricchi s’ha l’aria d’essere un domestico, e dai poveri ci si diventa un ladro. ‘Onorari’! Quella è una parola! Non ne hanno già abbastanza per mangiare o per andare al cine, i malati, e volete ancora cavarci dei baiocchi per pagare gli ‘onorari’? Soprattutto proprio nel momento che tiran le cuoia. Non è comodo. Si lascia perdere. Si diventa cortesi. E s’è fottuti. » [pag. 277]

– « I miei clienti invece erano degli egoisti, dei poveri, dei materialisti concentrati nei loro progettacci di pensione, ottenuta con lo sputo sanguigno e positivo. Il resto era loro indifferente, persino le stagioni erano loro indifferenti. In fatto di stagioni sentivano e volevano conoscere solo quella che aveva un rapporto con la tosse e la malattia. » [pag. 348]


Numerose sono poi, sempre nel Viaggio, le sentenze riguardanti l’esperienza alla Ford di Detroit che assumono un significato sostanzialmente diverso da come gli stessi argomenti vengono trattati negli scritti più propriamente igienici e in quelli che qualcuno, forse arditamente, chiama di medicina del lavoro. Nell’opera letteraria il lavoro standardizzato, quello osservato e descritto alla Ford di Detroit, viene condannato, se ne rilevano gli eccessi e gli effetti perversi intollerabili, la disumanità che disumanizza, la passività e la subalternità in cui cadono e sono tenuti gli operai. In questo contesto sono inserite espressioni forti di condanna del taylorismo: «Il girone infernale del lavoro», «rimbambimento industriale» («gâtisme industriel»), «Atrocità materiale della fabbrica» e ciò anni prima che altri autori, da Sinclair a Chaplin, descrivessero o rappresentassero le stesse condizioni. Ecco alcuni esempi:


 – « Quel che ci trovavano di buono da Ford, m’ha spiegato un vecchio russo in via di confidenze, è che si accettava qualunque persona e qualunque cosa ‘Solo, stai attento – m’ha aggiunto perché mi sapessi regolare – non bisogna far grane da lui, ché se pianti grane ti scaraventano alla porta in quattr’e quattr’otto, e sarai in quattr’e quattr’otto sostituito da una delle macchine meccaniche che hanno sempre a portata di mano e allora non ci hai più mezzo di rientrarci!’ » [pag. 235]

– « Non vi serviranno a nulla i vostri studi qui, ragazzo mio! Voi non siete venuto qui per pensare, ma per fare i gesti che vi si comanderà d’eseguire … Non abbiamo bisogno di immaginativi nell’officina. L’è di scimpanzè che abbiamo bisogno. Un consiglio ancora. Non parlate mai più della vostra intelligenza! Ci saranno altri che penseranno per voi! Tenetevelo per detto. » [pag. 236]

– « Tutto tremava nell’immenso edificio e anche noi dai piedi alle orecchie possedute da quel tremore, le scosse venivano da vetri e dal pavimento e dalla ferraglia, vibrate dall’alto in basso. Si diventava macchine per forza e con tutta la propria carne ancor tremante in quel rumore di rabbia enorme che prendeva il di dentro e il giro della testa e più e più in basso agitava le trippe e risaliva agli occhi in leggeri colpi precipitati, infiniti, continui. A misura che s’avanzava, perdevamo dei compagni. Si faceva loro un sorrisetto lasciandoli come se tutto quel che succedeva fosse pura cortesia. Non si poteva più né parlare né sentire. Ne rimanevamo ogni volta tre o quattro intorno a una macchina. » [p. 236-237]



La tesi di laurea in medicina di Destouches
La tesi di laurea in medicina inizia con un colpo di fulmine, uno stratagemma storico-narrativo rappresentato dal clamore della rivoluzione, «Mirabeau gridava così forte che Versailles ebbe paura»; l’Europa partorisce con dolore una nuova era, febbrile e solo dopo anni si instaura una epoca di “convalescenza”; è in questa contesto che nasce Semmelweis. La conclusione è piuttosto lirica, ma centrata su di una inconfutabile verità storica:


« Fu un grandissimo cuore e un grande genio medico. Egli rimane, senza alcun dubbio, il precursore clinico dell’antisepsi, perché i metodi da lui preconizzati per evitare la febbre puerperale sono ancora, e sempre saranno d’attualità. La sua opera è eterna. Tuttavia nella sua epoca, venne assolutamente misconosciuta. … sembra che la sua scoperta superasse le forze del suo genio. E questo fu forse la causa profonda di tutte le sue sventure. »
[Il dottor Semmelweis, Adelphi 1975, p. 102-103]



Come scrive Guido Ceronetti nella sua acrobatica e scoppiettante postfazione, Céline evoca «la religione laica dell’affamato d’anima che cercava qualcuno da adorare, il santo, il profeta, l’eroe» [pag. 111] e dimostra ampiamente che si tratta di «una squisita agiografia laica, che racconta un solo miracolo e dopo poco pagine precipita il suo santo nel martirio finale» [pag. 112]. È una storia romanzata di grande impatto condotta dall’autore con licenze letterarie poco apprezzate da storici della medicina accademici. Sherwin B. Nuland (Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignàc Semmelweis, Codice Edizioni, Torino 2004) nella sua bibliografia la liquida con due parole: «alquanto confusa» (pag. 145). Altri autori si sono impegnati, ma senza ledere minimamente il valore intrinseco e comunicativo dell’opera, a elencare numerosi errori od omissioni riguardanti date, nomi, percentuali di ammalate e di morti; in particolare vengono contestati alcuni aspetti della persecuzione del medico ungherese e più di tutti il finale truculento, quello della autoinoculazione e del suicidio […].


Finale di partita che merita di essere letto:

«C’era un cadavere, sul marmo, al centro, per una dimostrazione, Semmelweis, impadronitosi di uno scalpello, si apre un varco fra gli allievi, rovesciando varie sedie, si accosta al marmo, e, prima che si riesca a impedirglielo, incide la pelle del cadavere, taglia nei tessuti putridi, abbandonato ai suoi impulsi, strappando lacerti di muscoli che poi scaglia lontano. Accompagna le sue mosse con esclamazioni e frasi sconnesse … fruga con le dita e con la lama al tempo stesso in una cavità cadaverica gocciolante di umori. Con un gesto più brusco degli altri si taglia in profondità. La ferita sanguina. Grida. Minaccia. Viene disarmato. Circondato. Ma è troppo tardi … si è infettato mortalmente. » [pag. 98]


I testi “igienici” e di “medicina sociale” di Destouches-Céline
Una raccolta degli scritti medici di Céline è stata pubblicata per la prima volta da Gallimard nel 1977 (Semmelweis et autres écrits médicaux, a cura di J-P. Dauphin e H. Godard, Cahier Céline 3) Si tratta di tutti quelli conosciuti, adeccezione di uno (La santé publique en France, Monde, n. 92, 8 mars 1930, 35-36). Solo una parte di questi testi sono tradotti in italiano in un volume dal titolo di fantasia (I Sotto uomini, Testi sociali, a cura di Giuseppe Leuzzi, Shakespeare and Co., 1993) e cioè:
Nota sull’organizzazione sanitaria degli stabilimenti Ford a Detroit, del 1925);
Nota sul servizio sanitario della Compagnia Westinghouse a Pittsburgh, del 1925;
Per abbattere la disoccupazione abbatteranno i disoccupati? (Le Mois, 1 février 1933, 57-60);
La medicina alla Ford (Lectures 40, n°4, 1 août 1941 et n. 5, 15 août 1941);
Le assicurazioni sociali e una politica economica della salute pubblica (La Presse Medicale, n. 94, 24 novembre 1928, 1499-1501).


Nella raccolta italiana compaiono anche due brevi scritti assenti nella raccolta francese, Luisiana I e Luisiana II del 1925, relazioni dattiloscritte come le altre dello stesso anno scritte da Céline in occasione del suo viaggio per conto della Società delle nazioni e conservate nell’archivio storico dell’Organizzazione mondiale della sanità di Ginevra. Sono disponibili dunque solo in francese gli altri testi:
A propos du service sanitaire des usines Ford à Detroit, Bulletins et Mémoires de la Société de medécine de Paris, n. 10, 26 mai 1928, 303-312;
Essai de diagnostic et de thérapeutique méthodiques ‘en série’ sur certains malades d’un dispensaire, Bulletins et mémoires de la Société de medécine de Paris, n. 6, 22 mars 1930, 163-168;
Mémoire pour le cours des hautes etudes, 1932 (inedito sino al 1977).


Si tratta complessivamente di un corpus che èstato studiato a fondo da più autori francesi negli ultimi anni e ultimamente con una monografia da David Labreure (Louis Ferdinand Céline, une pensée médicale, Editions Publibook, 2009). Dettagliata è anche l’analisi fatta in precedenza da Philippe Roussin (Destouches avant Céline: le taylorisme et le sort de l’utopie hygiéniste. Une lecture des écrits médicaux des années vingt, Sciences Sociales et Santé, 1988, 3-4, 5-48).


La lettura degli scritti “medici” di Céline più o meno influenzata dagli scritti specialistici riportati sopra porta a fare alcune considerazioni essenziali.
Si tratta nella quasi totalità di quella che alcuni chiamano “letteratura grigia”, d’occasione (come le relazioni prodotte in occasione del viaggio negli stati Uniti del 1925), in alcuni casi rielaborata in anni successivi; oppure si tratta dei testi di interventi svolti in riunioni di società scientifiche e sono frutto della propria esperienza professionale che, in qualche caso, offre il destro alla formulazione di una teoria generale.
Un nucleo preponderante di questi scritti fa riferimento al lavoro e si capisce che l’autore è stato profondamente colpito dalla novità e dall’importanza di ciò che verrà inteso come fordismo. Si dimostra convinto della ineluttabilità del lavoro come condizione di guerra permanente, della fabbrica come campo di battaglia, dei lavoratori come soldati prima votati al sacrificio e poi reduci invalidi. Ed ecco il rimedio a questo stato di cose: l’igiene non può che divenire «una medicina militare» capace di gestire gli invalidi, di mantenerli nei luoghi di lavoro sfruttando ancora delle capacità residue che si deve materializzare proprio nella organizzazione produttiva inaugurata da Ford. Viene prefigurato un «capitalismo organizzatore» che eroga, a partire dalle grandi fabbriche, una «medicina razionalizzata, preventiva, collettiva». I malati cronici, gli invalidi, i reduci di ogni tipo di guerra dovranno essere inseriti o rimanere nella produzione con una speciale sorveglianza sanitaria dove i medici dell’azienda sono anche sociologi che si recano a casa dei lavoratori per curarli ed educarli: il medico, a differenza di come opera il paternalismo cattolico, deve saper riconoscere nella malattia la colpa individuando le condotte da correggere. Ne risulta un “igienismo industriale” improntato alla congruenza tra razionalizzazione della medicina e razionalizzazione del lavoro che riconduce alle aziende moderne, e non allo stato liberale, la possibilità di aver cura dello stato sanitario della popolazione. Applicando in pieno una tale ipotesi, secondo l’autore, si risolverebbe alle radici il problema delle assicurazioni sociali, il cui compito sarebbe svolto in tutto e per tutto dalle aziende. Viene così enunciata un’utopia igienistico-produttivistica, un controllo feroce della manodopera e il controllo sociale, gli stessi che hanno ispirato Metropolis, il film di Fritz Lang del 1927.

Il titolo dello scritto del 1933 Per abbattere la disoccupazione abbatteranno i disoccupati? è tanto accattivante quanto deludente risulta la lettura del testo. Dopo una visita in Germania Céline indaga le cause del «gran casino» in cui vive tale nazione e afferma che il problema è costituito «anzitutto e soprattutto» dalla massa sottoproletaria, definita come «la miseria tedesca» che sopravvive solo grazie all’assistenza statale; le ingenti risorse utilizzate per sfamare i disoccupati e le loro famiglie potrebbero infatti – a detta dello scrittore – risollevare il Paese dalla crisi economica se diversamente investite; per il futuro Céline auspica che «nella cerchia di Hitler si trovi il dittatore alla disoccupazione che organizzi infine questa miseria anarchica e la stabilizzi a un livello ragionevole».

Franco Carnevale

Fonte: E&P – Epidemiologia e prevenzione, rivista dell’associazione italiana di epidemiologia (2012)



Almanacco – Recensione del libro “Céline segreto” della vedova Lucette Céline


Enciclopedia Treccani online: Céline, Louis-Ferdinand


Zivago, non solo un film

La notorietà del capolavoro di Boris Pasternak “Il dottor Zivago” e oggi probabilmente dovuta al film che vi è stato tratto più che all’originale letterario. Succede quando Hollywood come in questo caso si impegna con una regia di grande capacità, con un cast che più stellare non si potrebbe e con una colonna sonora che è rimasta nell’immaginario collettivo. L’efficacia della pellicola non deve fare però dimenticare che fu questo libro a determinare la scelta dell’accademia di Stoccolma di assegnare il Nobel per la letteratura allo scrittore, che non poté ritirarlo poiché le autorità sovietiche gli negarono il permesso. Del resto l’opera, raccontando le tragiche vicende della rivoluzione russa, costituiva per il rigido regime di Mosca un problema a dir poco imbarazzante. All’interno di questo scenario politico si svolgono le non meno drammatiche vicende d’amore del medico eponimo, al quale sul grande schermo resta il volto Omar Sharif, attore icona dell’epoca


Russia, anni ’10. Yurij Zivago è un giovane e brillante studente di medicina con un’inclinazione per la poesia; l’uomo sta completando i suoi studi ed è fidanzato con la cugina Tonya. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Yurij si reca al fronte per prestare i suoi servizi come medico; qui ritrova Lara, una ragazza che aveva conosciuto anni prima a Mosca e della quale si scopre innamorato…

Il dottor Zivago, filmato nel 1965 dal regista inglese David Lean, autore di classici quali Il ponte sul fiume Kwai e Lawrence d’Arabia, rappresenta senza dubbio uno degli eventi cinematografici più importanti di tutti i tempi: un film sontuoso ed indimenticabile, consacrato fra le pellicole più famose ed amate che siano mai state realizzate. Tratto dal celeberrimo romanzo dello scrittore russo Boris Pasternak, adattato per lo schermo da Robert Bolt, Il dottor Zivago è passato alla storia come uno dei maggiori colossal di Hollywood, con quasi un anno di riprese per una durata di oltre tre ore. Prodotta dall’italiano Carlo Ponti per la MGM e costata 11 milioni di dollari, l’opera si è rivelata un successo di pubblico senza precedenti, con 110 milioni incassati al botteghino americano e circa 250 milioni di spettatori in tutto il mondo; all’epoca, è diventato il quarto film più visto di sempre negli Stati Uniti (120 milioni di spettatori), ed ancora oggi rimane fra i primi dieci in assoluto.
Rispetto al libro di Pasternak, che alla sua pubblicazione aveva provocato notevole clamore per i suoi contenuti politici ed era stato bandito dall’Unione Sovietica, il film di Lean (girato tra la Spagna, la Finlandia e il Canada) riduce gli aspetti prettamente storici e sociali della vicenda per soffermarsi invece sull’amore travagliato fra i due protagonisti: il dottor Yurij Zivago e la bella infermiera Lara, interpretati rispettivamente dal popolare attore egiziano Omar Sharif e da una splendida Julie Christie; al loro fianco, un cast stellare formato da giovani talenti emergenti (Geraldine Chaplin, Tom Courtenay, Rita Tushingham) e da affermati veterani (Rod Steiger, Alec Guinness, Ralph Richardson). Riuscendo a fondere la maestosità della ricostruzione scenica con il gusto per il racconto epico e sentimentale, Lean ci regala uno spettacolo decisamente coinvolgente, che si avvale di una galleria di personaggi ben caratterizzati e di una regia magistrale, efficace soprattutto nelle scene di massa e nelle panoramiche mozzafiato.
I grandi eventi storici della Russia di inizio secolo (la Rivoluzione bolscevica, la guerra civile, la nascita del regime socialista) si intrecciano con le passioni private dei vari personaggi, le cui esistenze sono ripercorse tramite la voce narrante del fratello di Yurij, il generale Yevgraf Zivago (Guinness), in un prologo introduttivo ambientato diversi decenni più tardi. Da antologia la stupenda colonna sonora composta da Maurice Jarre, incluso il mitico Tema di Lara, memorabile leit-motiv della pellicola. Presentato al Festival di Cannes nel 1966, Il dottor Zivago è stato un trionfo mondiale ed ha ottenuto cinque premi Oscar (sceneggiatura, musiche, fotografia, scenografia e costumi) e cinque Golden Globe.

Stefano Lo Verme

Fonte: MyMovies

Michael Bulgakov: Margherita e…

Tra storia d’amore e persecuzione sovietiche, un capolavoro senza tempo ma con un po’ di satira


Michail Bulgakov ha legato per sempre la sua notorietà di scrittore a “Il maestro e Margherita”, uno dei romanzi più celebri e amati della letteratura degli ultimi secoli, storia allo stesso tempo surreale, dove entrano da protagonisti elementi metafisici e magici, il ritratto impietoso della società staliniana. Un’ambivalenza che mise in difficoltà lo stesso dittatore sovietico, il quale concesse allo scrittore un particolare regime di “quasi libertà”. Dal punto di vista della salute e della malattia, però, è per noi più interessante il libro nel quale Bulgakov raccontò in modo realistico ma affabulatorio, umoristico e drammatico nello stesso tempo, i suoi incerti esordi come medico, catapultato senza supporto né preparazione sufficienti in una sperduta condotta siberiana. La serie di aneddoti ed episodi che l’autore riferisce è riconducibile ad un messaggio crudo e ineludibile: per il giovane medico i pazienti sono una sorta di cavie sulle quali formare l’esperienza professionale. Le vicende che il grande romanziere descrive fanno ovviamente riferimento a una pratica molto diversa da quella dei nostri giorni, nei quali le scelte dei sanitari sono supportate da strumentazioni, tecnologia e, quindi, dati obiettivi. Lo scrittore medico si trova invece a dover intervenire in presenza di un parto podalico oppure a dover eseguire una indispensabile amputazione senz’altro conforto che quello di improvvisati assistenti, trovandosi costretto persino a correre nella propria stanza per dare un’occhiata ai libri di testo e ripassare l’argomento del quale, nella concitata emergenza di cui è spesso fatta la sanità, non ricorda nulla.

Redazione CNR


Michail Bulgakov, “Il maestro e Margherita”, Einaudi (2014)


RaiPlaySound – Rai Radio 3 , Audiolibri ad alta voce – Il maestro e Margherita

Una semplice azione contro le infezioni puerperali

Dimostrazione dell’ammirazione che un allievo ha per il suo meastro, Louis-Ferdinand Céline, dottore e scrittore francese, scrive una tesi sulla vita del suo mentore, il dottor Semmelweis, e della sua scoperta riguardo all’importanza dell’igienizzazione delle mani da parte dei medici prima di occuparsi del paziente


Prima di diventare Céline, cioè uno degli scrittori grandissimi del nostro secolo, Céline fu lo studente di medicina Louis-Ferdinand Destouches. Come tale dedicò la sua tesi, nel 1924, alla vita di uno degli eroi scientifici dell’Ottocento: Ignazio Filippo Semmelweis, il debellatore dell’infezione puerperale – che falciava allora migliaia e migliaia di vite – grazie a una scoperta enorme, eppure semplicissima: osservò che le puerpere venivano visitate dai medici che avevano appena sezionato cadaveri e non pensavano certo a lavarsi le mani. Imponendo la disinfezione, Semmelweis si rivelò l’unico non colpito dalla mostruosa cecità del suo secolo, che trattava morte e nascita come fossero la stessa cosa. Con lo slancio entusiastico di un giovane adepto della scienza, Céline traccia in questo testo la vita di un puro, trascinato dal destino alla sua scoperta e, insieme con essa, a un clamoroso susseguirsi di incomprensioni e persecuzioni, che lo spingeranno alla follia e a una morte atroce. Ma il materiale sembra trasformarsi nel corso del libro: al destino di Semmelweis si sovrappone quello, non ancora vissuto, di Céline stesso, il suo senso costante di persecuzione e di isolamento, la sua sete di colpa e di tortura; alla prosa classica e nitida, quasi da immacolato compito scolastico, su cui il testo è costruito, si sostituisce, per squarci, la prosa forsennata del Céline maturo, scandita dai suoi prodigiosi tre puntini, abitata da quella petite musique che, una volta udita, non si può dimenticare.

Adelphi Editore


Louis-Ferdinand Céline, “Il dottor Semmelweis”, Adelphi (2020, 23ª ediz.)


Almanacco – Saggi: Enciclopedia cronologica della scienza

Enciclopedia Treccani online – Semmelweis, Ignác Fülöp