Le Metamorfosi o Asino d’Oro

Il testo è tratto dal “romanzo” di Apuleio Le Metamorfosi o L’Asino d’Oro, che tratta delle avventure cui deve andare incontro il protagonista del libro, Lucio, trasformato in asino per la propria stolta curiosità. L’Asino Lucio nel suo vagare incontra esempi di grande virtù e di bassissima scelleratezza, che l’autore dipinge con tinte fosche. Il brano antologizzato rappresenta uno di questi ultimi casi: Lucio si trova ad assistere ad un caso di omicidio.

X. II
Alcuni giorni dopo, ricordo che si scoprì proprio lì un delitto orribile, un crimine efferato, di cui voglio accennarvi in questo mio libro perché possiate conoscerlo anche voi.
Il padrone di casa aveva un figlio, molto istruito e per questo modesto e virtuoso, tanto che anche tu, lettore, avresti gradito averne uno come lui.
La madre era morta da molto tempo e il padre s’era risposato e da questo secondo matrimonio aveva avuto un figliolo che allora poteva contare dodici anni.
Ma la matrigna che nella casa del marito si faceva notare più per la sua bellezza che per i buoni costumi, o perché lei era corrotta per natura o perché il destino la spingeva all’infamia più degradante, certo è che mise gli occhi sul figliastro.
Bada bene, lettore, io sto raccontandoti di una tragedia non di una commediola e che quindi dal socco ora si passa al coturno.
La donna, finché l’amore era sul nascere e quindi poco esigente, seppe resistere ai suoi deboli stimoli e soffocare facilmente in silenzio la tenue passione; ma quando il crudele iddio cominciò a divamparle in cuore e a diffondere come una smania per le sue intime fibre, ella cedette, e, fingendo un mortale languore nascose la ferita dell’animo dando ad intendere d’esser malata.
Tutti sanno che il deperimento del volto è comune agli ammalati come agli innamorati: viso pallido, occhi languidi, gambe fiacche, sonni inquieti, respiro sempre più affannoso, via via che cresce la pena.
A vederla pareva che lei si agitasse soltanto per un attacco di febbre e, invece, piangeva anche. E quanta ignoranza nei medici: cosa volevano dire il polso frequente, le vampe al viso, il respiro ansimante, il continuo voltarsi e rivoltarsi ora su un fianco ora sull’altro?
Santo cielo! Com’è facile capire, anche senza essere un medico, cosa vuol dire quando uno brucia e non ha

febbre, solo se si ha un po’ d’esperienza nelle cose d’amore.
III
La donna, dunque, nella sua eccitazione, non riuscendo più oltre a contenersi, decise di rompere il lungo silenzio e mandò a chiamare il figlio, nome questo che, se avesse potuto, per non arrossire, se lo sarebbe volentieri cancellato dalla mente.
Il giovane non indugiò a obbedire all’ordine della matrigna ammalata e con la fronte segnata dalla tristezza e dal cruccio, come quella di un vecchio, con tutto il dovuto rispetto entrò nella camera della moglie di suo padre e della madre di suo fratello.
La donna, però, depressa dal lungo tormentoso silenzio, fu ripresa dai dubbi e le parole che un momento prima aveva ritenute adatte per la circostanza, ora le sembravano sconvenienti e, trattenuta da un senso di vergogna, non sapeva da dove cominciare.
E quando il giovane, non sospettando di nulla, le chiese con deferenza che male avesse, lei, approfittando che, malauguratamente, erano soli, divenne audace e scoppiando in un pianto dirotto, coprendosi il volto con un lembo della veste, con voce trepidante, così gli parlò brevemente: «Tu sei la causa, l’origine del mio male, ma tu sei anche il rimedio, la mia sola salvezza. I tuoi occhi, fissando i miei, mi son penetrati dentro fin nel profondo dell’animo e vi hanno acceso un fuoco che mi brucia tutta e che non riesco più a estinguere. Muoviti a pietà d’una donna che muore di te e non farti scrupolo per tuo padre a cui, in fondo, salvi la moglie che altrimenti morrebbe. Del resto io ti amo anche perché nel tuo volto ritrovo il suo. Non aver timore, siamo soli e c’è tutto il tempo per far quello che ormai è inevitabile; e poi, le cose che non si vengono a sapere è come se non fossero mai accadute.»
IV
Il giovane rimase sconvolto da quella inattesa rivelazione e sebbene fosse inorridito dinanzi a un crimine così mostruoso, pensò di non esasperare la donna con un netto rifiuto ma di calmarla con vaghe promesse e, intanto, di prender tempo.
Così le dette tutte le assicurazioni possibili e immaginabili, le disse di tirarsi su, di rimettersi in salute e di attendere che suo padre si assentasse per qualche viaggio perché allora essi si sarebbero goduti a loro agio.
Così le disse e subito si sottrasse alla insidiosa presenza della matrigna e andò difilato a trovare il suo maestro, un vecchio di molta esperienza e di gran senno, pensando che in una così grave sciagura familiare fosse urgente un qualche saggio consiglio.
I due ragionarono a lungo e insieme convennero che l’unico rimedio era quello di sottrarsi con la fuga alla tempesta che il destino avverso addensava su quella casa.
Ma la donna che non ce la faceva più ad aspettare, con un pretesto qualsiasi e con straordinaria abilità riuscì a convincere il marito a recarsi subito in certe sue proprietà molto distanti di lì. Fatto questo, ancor più eccitata perché vedeva appagata in anticipo la sua speranza, pretese che il ragazzo, come le aveva promesso, si concedesse alla sua libidine.
Ma il giovane, ora con una scusa ora con un’altra, cercò di eludere l’infame convegno, tanto che la donna comprendendo chiaramente da tutti quei pretesti che egli non aveva alcuna intenzione di mantenere la sua promessa, con estrema volubilità, mutò il suo nefando amore in un odio ben più terribile. E chiamato un suo schiavo che s’era portato in dote, uno scellerato capace di tutti i delitti, lo mise a parte delle sue criminali intenzioni, e a entrambi non parve cosa migliore che uccidere lo sventurato ragazzo.
Così la matrigna mandò subito quel delinquente a procurarsi un veleno a effetto istantaneo che, accuratamcnte sciolto nel vino, doveva togliere di mezzo il figliastro innocente.
V
Mentre quei due criminali s’accordavano sul momento più opportuno per dargli da bere il veleno, il ragazzo più giovane, proprio il figlio di quella perfida donna, rientrò a casa dalle lezioni del mattino e, fatta colazione e sentendo sete, vide quel bicchiere di vino in cui era stato messo il veleno e, non sospettando quale insidia nascondesse, bevve tutto d’un fiato.
Così il ragazzo bevve la morte destinata al fratello e, di schianto, crollò esanime a terra.
Accorse sgomenta tutta la servitù e la stessa madre alle grida del maestro sconvolto da quella repentina tragedia, e subito apparve chiaro che si trattava di veleno e ognuno cominciò a fare le più svariate supposizioni sugli autori di quell’orribile delitto.

Ma quella femmina perversa, esempio più che unico della malvagità delle matrigne, non fu punto turbata dalla morte improvvisa del figlio, non sentì alcun rimorso per quel delitto, per la sventura della sua famiglia, per il dolore del marito, per il lutto che avrebbe avvolto la casa, ma trasse spunto da questa disgrazia per portare a compimento la sua vendetta.
Inviò subito un corriere per informare della sciagura il marito che era in viaggio e, quando questi rientrò a precipizio, con un’audacia senza pari, disse che era stato il figliastro ad assassinare con il veleno suo figlio. E in questo, se vogliamo, mentiva fino a un certo punto, perché, in effetti, il ragazzo aveva rivolto su di sé la morte destinata all’altro; epperò aggiunse che il fratello minore era stato ammazzato dal figliastro perché lei non s’era concessa alle sporche voglie di quest’ultimo che aveva tentato di farle violenza.
Inoltre, ancora non contenta di queste turpi menzogne, aggiunse che quando s’era visto smascherato, l’aveva minacciata con la spada.
Sgomento per la perdita dei suoi due figli il povero padre si sentì come travolto da un’immane catastrofe.
Il figlio più piccolo se lo vedeva infatti seppellire sotto i suoi occhi e l’altro sapeva che glielo avrebbero condannato a morte per incesto e omicidio. Eppure verso quest’ultimo, per le false lacrime di una moglie troppo amata, sentiva ormai un odio profondo.
VI
S’erano appena concluse con la sepoltura le cerimonie funebri che il povero vecchio con il viso ancora scavato dal pianto e i capelli bianchi sporchi di cenere, lasciò il sepolcro del figlio e raggiunse il tribunale. Qui, fra le lacrime e le implorazioni, gettandosi ai piedi dei decurioni, ignaro delle frodi della perfida moglie, scongiurò con tutta l’anima che l’altro suo figlio fosse condannato a morte, dichiarandolo colpevole di incesto per aver violato il talamo paterno, un fratricida per l’uccisione del fratello, un assassino per aver minacciato di morte la matrigna.
E tanta fu la pietà, tanto lo sdegno che egli suscitò nei senatori e fra il popolo che di fronte ad accuse così schiaccianti e palesi e a prove così deboli e incerte portate a sua difesa, tutti gridarono che bisognasse tagliar corto con le lungaggini procedurali e che quel pericolo pubblico fosse condannato pubblicamente alla lapidazione.
Ma i magistrati temendo di esporsi a un rischio troppo grande se da un banale motivo di sdegno il tumulto popolare avesse preso dimensioni tali da minacciare lo stesso ordine cittadino, da un verso si raccomandarono ai decurioni, dall’altro convinsero il popolo perché si istruisse un processo secondo tutte le regole della procedura nel rispettò della tradizione, si esaminassero le prove portate dall’una e dall’altra parte e si pronunziasse una sentenza regolare, non all’uso dei barbari o dei selvaggi o come fanno i tiranni e i prepotenti che condannano un cittadino senza nemmeno ascoltarlo; questo anche per non dare, in un’età di prosperità e di pace, un esempio di crudeltà.
VII
Quando ciascuno si fu seduto al posto che gli assegnava il suo rango, nuovamente il banditore si fece sentire e chiamò il primo accusatore, poi, a gran voce, anche l’imputato, mentre avvertiva gli avvocati, secondo la legge Attica e la procedura dell’Areopago a non dilungarsi in esordi e a non appellarsi alla pietà popolare.
Che le cose fossero andate così io lo seppi dopo da alcune persone che continuarono a parlarne; quale poi sia stata la requisitoria del pubblico accusatore e con quali argomenti l’imputato si sia difeso e poi le arringhe e le discussioni, io non so proprio, confinato com’ero nella stalla, e quindi non sono in grado di riferirvelo; perciò su queste carte riporterò soltanto quello che ho potuto accertare.
Dunque, terminati i dibattiti, fu deciso che la verità e l’attendibilità delle accuse fossero accertate da prove sicure per non giungere a una condanna così grave su semplici sospetti e che, quindi, era necessario far venire in tribunale quel famoso servo, il solo che a detta di tutti, sapeva com’erano andate effettivamente le cose.
Ma quel delinquente, per nulla turbato dall’esito incerto di un processo così importante, né dalla maestà della curia riunita al completo e tanto meno dalla sua coscienza sporca, cominciò a raccontare un sacco di fandonie facendole passare per pura verità, che cioè quel giovane, infuriato per la repulsa della matrigna, lo aveva chiamato e per vendicarsi gli aveva chiesto di uccidere il figlio della donna promettendogli un grosso premio in cambio del suo silenzio; e che siccome lui s’era rifiutato, lo aveva minacciato di morte; che gli aveva consegnato il veleno da far bere al fratello, preparato con le sue mani, ma che poi, sospettando che egli non compisse il delitto e si tenesse la tazza come prova, alla fine l’aveva porta al ragazzo lui stesso.
Con queste dichiarazioni che quel miserabile fece con un’aria tutta spaventata e come se dicesse le cose più vere di questo mondo, il processo ebbe termine.
Questo saggio consiglio venne accolto e subito il banditore ebbe l’incarico di radunare i senatori nella curia.

VIII
Fra i decurioni non vi fu più nessuno disposto alla benevolenza. Di fronte all’evidenza tutti ritennero di dover proclamare il giovane colpevole e degno di essere cucito nel sacco.
La sentenza fu unanime ed era già stata trascritta sulle schede che ciascuno si apprestava a metter nell’urna di bronzo secondo la consuetudine di sempre, dove, una volta deposte, avrebbero irrevocabilmente segnato la sorte del reo e rimesso la sua testa al carnefice, quando un senatore, uno dei più anziani, stimato da tutti per la sua rettitudine e medico di grande prestigio, coprendo con la mano la bocca dell’urna per evitare una votazione affrettata, così parlò alla corte:
«Mi consola il fatto di aver vissuto così a lungo sempre nella vostra stima e perciò non posso consentire che, condannando costui sotto falsa accusa si commetta un vero e proprio assassinio, né che voi, chiamati a esercitare la giustizia sotto il vincolo del giuramento, fuorviati dalle menzogne di uno schiavo, diventiate voi stessi spergiuri. Almeno per quel che mi riguarda, io non posso calpestare il timore degli dei e venir meno alla mia coscienza pronunciando una condanna ingiusta.
«Perciò ascoltatemi e saprete come sono andate veramente le cose.
IX
«Questo furfante, non molto tempo fa, mi si presentò con cento monete d’oro sonanti dicendomi che aveva urgente bisogno di un veleno a pronto effetto per un malato che, colpito da un male inguaribile, voleva farla finita con una vita di sofferenze.
«Io, però, mi accorsi che questo sciagurato s’impappinava, adduceva confusi pretesti e così mi convinsi che stava macchinando qualche delitto.
«Allora gli detti il veleno, certo che glielo detti, ma prevedendo quanto prima un’inchiesta, non ritirai il compenso che mi aveva offerto: ‘Sta a sentire,’ gli dissi, ‘nel caso che qualcuna di queste monete fosse falsa o fuori corso, domani le controlleremo davanti a un banchiere.’
«Lui ci cascò e sigillò il denaro, così quando l’ho visto comparire in tribunale, ho detto a un mio schiavo di correre in bottega a prendere il sacchetto e di portarlo qui. Eccolo, io ve lo esibisco. E se lo guardi anche lui e dica che non e il suo sigillo. E allora, com’è che si può accusare il fratello se il veleno l’ha comprato costui?»
X
Allora questo mascalzone fu preso da un tremito convulso, perse il suo colorito naturale e divenne cadaverico, cominciò a sudar freddo per tutto il corpo e a non star fermo un momento con i piedi, a grattarsi continuamente la testa, a borbottare nella bocca semichiusa parole incomprensibili, così che ognuno capì che qualcosa sulla coscienza doveva avercela.
C’è da dire, però, che egli riprese quasi subito il controllo di sé e furbo com’era, cominciò a negare, anzi ad accusare il medico di mendacio.
Allora questi, vedendo che oltre l’autorità della corte si offendeva l’onorabilità della sua persona, raddoppiò la sua foga oratoria per confondere quel farabutto tanto che, su ordine dei magistrati, i pubblici ufficiali afferrarono le mani di quell’infame schiavo, gli strapparono l’anello di ferro e lo confrontarono con il sigillo del sacchetto: il raffronto confermò il sospetto iniziale. Si passò allora alla tortura e, all’uso greco, non gli furono risparmiati la ruota e il cavalletto. Ma egli oppose una resistenza eccezionale e non si piegò né alle frustate né al fuoco.
XI
Allora il medico: «No, non permetterò, perdio, non posso permettere che voi contro ogni giustizia condanniate a morte questo giovane innocente e che costui, prendendosi beffa di questo tribunale, sfugga alla pena che si merita per l’orrendo delitto commesso.
«Eccovi, allora, la prova decisiva del fatto in questione.
«Dunque, quando vidi che questo sciagurato insisteva per avere un veleno a effetto fulminante, subito riflettei che come medico io non potevo dare a un tizio qualunque sostanze che facessero morire ben sapendo che la medicina serve a guarire gli uomini non a ucciderli; però, temendo che se io gli avessi negato il veleno, non è che col mio rifiuto gli avrei tolta l’occasione di porre in atto il suo crimine in quanto egli se lo sarebbe procurato da un altro o avrebbe usato, alla fin fine, la spada o un’altra arma, io glielo diedi, ma era un sonnifero, quello famoso che si estrae dalla mandragora e che fa piombare in un letargo simile alla morte.

«Non c’è da stupirsi, quindi, se questo furfante sopporta la tortura; egli la ritiene ancora il male minore perché sa che per lui non c’è più speranza e che, secondo le leggi degli antenati, lo aspetta la pena di morte.
«Ma se è vero che quel ragazzo ha bevuto la pozione preparata da me, è vero anche che egli è vivo e che ora riposa e dorme e che fra poco, quando si ridesterà dal suo sonno profondo, tornerà alla luce del giorno.
«Se, invece, egli è morto bisognerà che voi cerchiate altrove le cause del suo decesso.»
XII
Con questo discorso il vecchio ebbe partita vinta e subito tutti si recarono di corsa al sepolcro dove giaceva composto il corpo del ragazzo. Non ci fu un senatore, un nobile, o anche uno solo del popolo che, spinto dalla curiosità, non vi accorresse. Ed ecco il padre, alzato con le proprie mani il coperchio della bara, vide che il figlio, proprio allora, stava destandosi dal profondo letargo e tornava dalla morte alla vita; e strettoselo forte fra le braccia, senza riuscire a dir parola per la troppa gioia, lo mostrò al popolo; poi, così com’era ancora avvolto nelle vesti funebri, lo portò in tribunale e la verità venne fuori e piena luce fu fatta sugli intrighi dell’infame servo e dell’ancor più infame moglie.
La matrigna fu condannata all’esilio perpetuo, il servo al patibolo e il bravo medico, su proposta unanime, in premio di quel sonno provvidenziale, s’ebbe le monete d’oro.
E fu proprio la mano della divina provvidenza a far concludere così l’avventura straordinaria e clamorosa di quel vecchio che dopo aver corso il pericolo di vedersi privato dei suoi due giovani figli, in poco tempo, anzi nel giro di qualche istante, si ritrovò padre di entrambi.

Apuleio

Fonte: Apuleio, Metamorfosi, a cura di Nino Marziano, Garzanti, Milano, 2008

Romanzi medievali d’amore e d’avventura

Il brano è tratto dal romanzo cortese di Chrétien de Troyes, Erec et Enide. Nel testo proposto, i cavalieri si imbattono nella damigella affetta dalla lebbra. Solo attraverso un rituale simbolico molto particolare riesce a guarire, non senza l’intervento dei celebri eroi del ciclo bretone

VII • LA LEBBROSA
I tre cavalieri e la donzella ebbero molte avventure. Un giorno, si ritrovarono lungo una riva profondamente frastagliata e davanti a sé, videro un castello grande ed oscuro, e riconobbero il castello di Carcelois nella marca di Scozia. In questo castello re Artù era ferocemente odiato, ed infatti, appena essi ebbero rivelato la loro identità a quelli del castello, furono subito attaccati. Furono costretti a difendersi e con tanta energia che finirono per massacrare tutti gli abitanti del castello.
Di questa carneficina molto si pente Galaad, credendo di avere uccisi cristiani. Ma sopraggiunge a questo punto un prete, vestito di bianco, che porta il Corpus Domini in un calice. Egli rassicura Galaad, dicendogli che coloro che egli ha uccisi non erano cristiani, ma la gente più sleale che mai fosse vissuta, e che Dio gli sarebbe stato grato perciò che aveva fatto.
Dopo altre avventure, un giorno giunsero ad un altro castello, forte e ben situato. E trovano dei cavalieri ed una damigella che teneva una scodella d’argento in mano. I tre cavalieri volevano proseguire la strada, ma furono costretti a fermarsi, perché gli abitanti del castello volevano imporre loro quello che era il costume: e cioè prendere una scodella di sangue dal braccio destro della sorella di Perceval. I tre eroi cercano di difendersi, e ne segue una battaglia terribile nella quale tuttavia non riescono a venire a capo degli avversari. Infine, gli abitanti del castello li pregano di andare ad alloggiare presso di loro e, dopo averli trattati con la dovuta cortesia, spiegano loro la ragione del costume.
«Vero è,» disse uno di lì dentro, «che vi è qui una damigella alla quale apparteniamo noi e tutti quelli del paese, e questo castello e più di un altro. Avvenne, or sono due anni, che essa cadesse in una malattia per la volontà di Nostro Signore. E quando essa ebbe languito un pezzo, vedemmo che la malattia che aveva era un male che si chiama la lebbra. Allora mandammo a cercare medici in lungo e in largo, ma non ci fu nessuno che potesse guarirla. Venne per ultimo un saggio che disse che se potessimo avere una scodella piena del sangue di una donzella che fosse vergine in volontà ed in opere, purché fosse figlia di re e di regina e sorella di Perceval il puro, la dama se ne sarebbe potuta ungere e sarebbe guarita subito. Quando udimmo questa cosa, stabilimmo che se passasse damigella qui davanti, purché fosse pulzella, avremmo presa una scodella del suo sangue. Ora fate come vi piacerà.»
Allora la damigella chiama i tre compagni e dice:
«Signori, voi vedete che questa damigella è malata e io la posso guarire e se voglio essa non può sfuggire. Or mi dite ciò che farò.»
«In nome di Dio,» dice Galaad, «se voi lo fare, poiché siete giovane e tenera, non potrete non morirne.»
«In fede, se io morissi per questa guarigione, sarebbe ad onore mio e di tutto il mio parentado. E debbo ben farlo, in parte per voi e in parte per loro. E perciò vi dico che io farò la volontà loro. Io vi prego di concedermelo.»
Ed essi ne sono molto dolenti.
Ed allora essa chiamò quelli di dentro e disse loro di essere gioiosi e contenti perché la battaglia era cessata e l’indomani avrebbe fatto quello che è richiesto dalle damigelle.
All’indomani, quando ebbero udito messa, venne la damigella nel palazzo e comandò che le portassero la dama che era malata. Ed essi dissero che l’avrebbero fatto volentieri. Allora andarono a cercarla in una camera dove essa stava. E quando i compagni la videro, si meravigliarono molto, perché essa aveva il viso così disfatto e coperto di bottoni, e così malandato per la lebbra, che era meraviglia che potesse vivere in tale dolore. E quando la videro venire, si levarono in piedi e la fecero sedere. Allora comandò la damigella che le portassero la scodella ed essi gliela portarono. Ed essa trasse fuori il braccio e si fece ferire in una vena con una lametta aguzza e tagliente come rasoio. E il sangue ne esce immantinente e essa si fa il segno della croce e si raccomanda a Nostro Signore e dice alla dama:
«Madonna, sono venuta a morte per vostra guarigione Per Dio, pregate per la mia anima, perché sono alla fine.»
E mentre diceva queste parole, il cuore le venne meno per tutto il sangue che aveva perduto. E i compagni corrono a sostenerla. E quando essa fu rimasta lunga pezza fuori di sé, disse a Perceval:
«Ah! bel fratello Perceval! muoio per la guarigione di questa damigella. Io vi prego che non facciate
seppellire il mio corpo in questo castello, ma non appena sarò morta, mi mettiate in una navicella nel più vicino porto e mi lasciate andare così come mi mena l’avventura. E vi dico che non appena arriverete alla città di Saracenia ove dovrete andare per il Santo Graal, mi troverete arrivata sotto alla torre. E fate seppellire il mio corpo nel palazzo spirituale. E sapete voi perché ve lo chiedo? Perché vi giacerà Galaad e voi con lui.»
Così morì la damigella e la dama guarì, e i compagni le fecero funerali magnifici e là posero su un bel letto in una nave. Al capo del letto Perceval mise uno scritto che diceva chi era quella donna morta e le avventure che essa aveva aiutato a compiere. Poscia spinsero la navicella verso l’alto mare e la seguirono con gli occhi finché non fu trascinata dalle onde.

Angela Bianchini

Angela Bianchini, “Romanzi d’amore e d’avventura” (Garzanti, 2003)

Vedi anche: scheda sul sito Garzanti

La rappresentazione della malattia negli autori francesi

La salute, nelle due facce della malattia e della medicina, della sofferenza e della cura, ricorre in tutte le letterature, spesso componendo un poliedro sfaccettatissimo. La letteratura francese non fa eccezione e anzi spalanca un panorama immenso, come delineato dagli spunti di questo breve saggio.

La salute, nelle due facce della malattia e della medicina, della sofferenza e della cura, ricorre in tutte le letterature con frequenza e rilevanza comparabili solo a quelle di pochi altri grandi temi esistenziali; e compone un poliedro sfaccettatissimo, qualunque punto di osservazione si assuma e qualunque prospettiva si traguardi: quelli dei personaggi, della trama, delle biografie degli autori, dell’uso metaforico o realistico del tema… La letteratura francese non può evidentemente fare eccezione e anzi spalanca un panorama immenso, in cui non è facile orientarsi né stabilire un percorso: limitiamoci pertanto, in questa sede, ad additare una serie di spunti utili per avventurarsi in successive esplorazioni[i].

Il mal di scrivere

Pensiamo solo al mare magnum della Recherche, dove anche una navigazione del tutto random ci fa continuamente imbattere in espressioni, metafore, descrizioni che non possiamo leggere senza ricordare come Proust associ una salute cagionevole all’essere figlio (oltre che fratello) di un medico: quell’Adrien che, all’epoca, vantava la fama di luminare per essersi distinto nell’adozione di un cordone sanitario con cui proteggere l’Europa dall’epidemia di colera del 1866. Come se in famiglia gli fosse spettato il ‘ruolo’ di malato, Marcel muore all’età di 51 anni per una polmonite che si era sostanzialmente rifiutato di curare, quasi in ossequio al suo professato scetticismo verso la medicina. Ad attestare questo suo duplice, controverso coinvolgimento sul tema basti questo brevissimo campionario di aforismi: “Come si dice in chirurgia, il suo amore non era più operabile” leggiamo in Dalla parte di Swann; ne I Guermantes che “Essendo la medicina un compendio degli errori successivi e contraddittori dei medici […] credere alla medicina sarebbe la suprema follia, se non credervi non fosse una ancora più grande”; in Sodoma e Gomorra che “La medicina ha compiuto alcuni piccoli progressi nelle sue conoscenze dai tempi di Moliére, ma nessuno nel vocabolario”; in Albertine scomparsa che “Ci si sente più vicini a chi ha le nostre stesse malattie”.

Potremmo rinvenire altri ricchissimi filoni di citazioni nelle miniere di Émile Zola e Victor Hugo, solo che si esplorino il Ventre di Parigi o I miserabili. Ma, per restare a Hugo, limitiamoci a ricordare come Notre Dame de Paris sia più popolarmente nota con il titolo de Il gobbo di Notre Dame, dato l’imporsi della figura di Quasimodo. Nell’affollato e prestigioso parterre delle deformità descritti nei classici è però doveroso quotare almeno un altro francese, il Cyrano di Edmond Rostand, e una delle scene più celebri della letteratura teatrale di ogni tempo (alla pari con la dichiarazione amorosa resa sotto il balcone di Rossana), quella che principia con la battuta di Valvert “Voi… voi avete un naso, ecco, un naso molto grande” e prosegue: “Ce n’erano di cose da dire sul mio naso – diamine! – e di toni da sfoggiare! Per esempio, vediamo…”.

Sembra persino troppo banale, su questo argomento, riportare il nome di Molière e i titoli del Malato immaginario e del Medico per forza. Meglio, tra tante perle rilucenti, ricordare come nel Gargantua si trovino forse le più emblematiche ed esagerate scariche diarroiche della narrativa: Pantagruel, peraltro, era medico e praticò a Lione, Metz e Roma. Come lo era Louis Ferdinand-Céline, che proprio grazie all’esercizio della professione restituì un barlume di senso alla sua travagliatissima esistenza, soprattutto nella fase finale. Nella diaristica potremmo azzardarci a tracciare un altro parallelo tra La doulou, autobiografico resoconto della sifilide che porterà Alphonse Daudet alla morte, e Je ne suis pas sortie de ma nuit in cui Annie Ernaux racconta l’Alzheimer che sta lentamente spegnendo la madre.

Il mal di vivere

I francesi vantano anche un autentico manifesto di uno dei leit-motiv poetici più forti del Romanticismo, la malinconia o mal du siècle: Le confessioni di un figlio del secolo di Alfred de Musset. Per restare nei pressi, troviamo una schiera inesauribile di autori, opere e personaggi iscrivibili nella ‘letteratura della follia’: dalle Memorie di un pazzo di Flaubert ad Antonin Artaud, con la sua vita vissuta tra dipendenze e ricoveri; da Rimbaud, malato sin da giovanissimo e poi paralizzato per una patologia su cui la diagnosi resta incerta tra cancro e sifilide, a Baudelaire, che dedica a Théophile Gautier i suoi Fiori del male definendoli “fleurs maladives”, cioè ‘malaticci’. Ma la tradizione dei maudit di ogni tempo potrebbe proseguire fino a un contemporaneo come Edouard Levé, che dopo aver consegnato Suicidio all’editore si è tolto la vita proprio come l’amico a cui si era ispirato, conferendo così al racconto un drammatico successo.

Sarebbe poi di estremo interesse un approfondimento sul “male di vivere” del ‘900: l’“esistenza ingiustificata”, per dirla con Sartre, che ne La nausea ci regala descrizioni di paradigmatico esistenzialismo: “Passava dal ciottolo nelle mie mani”, “La sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, sono io che sono in essa”. Una scelta narrativa che è inevitabile contrapporre a quella de La peste di Camus. Il romanzo ambientato a Orano è di una precisione clinica assoluta, non a caso è un medico come Bernard Rieux a parlare dell’infezione “capace in tre giorni di tempo di quadruplicare il volume della milza, di dare ai gangli mesenterici il volume di un’arancia e la consistenza della pappa […] Si tratta d’una febbre a carattere tifoide, ma accompagnata da bubboni e da vomiti. Ho praticato l’incisione dei bubboni, si che ho potuto far eseguire delle analisi in cui il laboratorio crede di riconoscere il tozzo microbo della peste. Per dire tutto, aggiungo che certe modificazioni specifiche del microbo non coincidono con la descrizione classica”.

Ma tanta accuratezza è tutt’altro che uno sconto alla valenza allegorica attribuita al terribile flagello che, come una cartina di tornasole, evidenzia i contrasti più stridenti: tra l’indifferenza e la lentezza delle autorità e la violenza devastatrice, tra l’isolamento e la fuga e il disperato inseguimento dei piaceri o almeno della normalità della vita, tra il desiderio di salvarsi e gli inopinati gesti di solidarietà e altruismo, tra chi profitta della peste e chi la considera la nemesi delle colpe umane. L’opera si inserisce così tra le maggiori, per quanto concerne l’archetipo letterario delle epidemie che, affondate le radici nei classici – Edipo re, Iliade, Eneide… –  si ramifica in una serie di capolavori immortali: L’alchimista di Ben Jonson, che attira le proprie vittime durante una pestilenza; il Decamerone, costruito proprio sul contrasto tra l’irriverenza delle cento novelle e dei loro personaggi e l’infuriare del morbo del 1348 descritto nell’introduzione; La peste di Londra, reportage giornalistico dell’epidemia che imperversò nel 1664-5 di Daniel Defoe; I promessi sposi ma anche la Colonna infame di Manzoni.

Da ciascuno di questi autori potremmo ricavare analogie e distinzioni con Camus. Ma il confronto più stimolante, anche per il contesto storico, è con La pelle in cui Malaparte narra “una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa. Lo straordinario carattere di tal nuovissimo morbo era questo: che non corrompeva il corpo, ma l’anima […] una specie di peste morale, contro la quale non pareva vi fosse difesa alcuna”.

Il mal francese

L’ultimo punto che vogliamo indicare quale possibile partenza per un percorso di sicuro interesse è l’agonia dall’esito infausto, utilizzata come escamotage narrativo. Un topos frequentatissimo dagli scrittori, dal quale potremmo inerpicarci in diverse comparazioni: per esempio, tra la morte di Charles Forestier nel Bel Ami e quella di Jean Péloueyre nel Bacio al lebbroso, a cui Guy de Maupassant e Francois Mauriac, rispettivamente, sembrano voler ricorrere per risolvere i loro ménage à trois lasciando ‘campo libero’ alla coppia superstite. Entrambi decideranno invece di proseguire il plot delle loro opere in direzione meno banale.

Potremmo anche affiancare la sorte toccata a Marguerite Gautier nella Signora delle camelie di Dumas a quella della perfida marquise de Merteuil nelle Liaisons dangereuses ordite da Choderlos de Laclos, che la sera stessa della sua espulsione da parte della società “fu presa da una violenta febbre che, in un primo momento, sembrò la conseguenza della brutale scena di cui era stata oggetto; ma ormai non c’è dubbio che si tratta di vaiolo, e in forma violenta. In verità, io penso che per lei sarebbe un bene morire”. La donna viene punita con un evidente contrappasso dopo che la Presidentessa de Tourvel, come madame de Volanges scrive alla signora de Rosemonde, cade vittima di un’affezione per la quale “i medici non sono in grado di pronunciarsi”, anche perché la stessa malata rifiuta ogni cura, fino al punto di “chiamare padre Anselmo, aggiungendo queste parole: ‘Adesso è la sola medicina di cui ho bisogno’”.

Stilemi che ritroviamo nella visione sinottica del Diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos e de Le médecin de campagne di Honoré de Balzac. “Ogni romanzo di Bernanos è un romanzo dell’agonia”, è stato scritto, e indubbiamente tale è la storia del curato che, con puntiglio ma tardivamente e inutilmente, si impegnerà come medico di se stesso dopo che gli viene diagnosticato un tumore allo stomaco. Il Diario diviene la cartella clinica di una malattia che somatizza la mancata integrazione nella comunità del prete e la sua incapacità di reggere l’urto con la malvagità umana, specie dopo il sospetto che una bimba scomparsa sia rimasta vittima di un bruto: “Ho intuito la possibilità di un orribile, duplice delitto […] Rimasto solo, mi sono mosso per stendermi sotto una coperta […] è sopraggiunta mia sorella, la quale mi ha chiesto se mi sentivo male”. Alcuni tratti rimandano a Don Abbondio ma, al contrario del collega manzoniano, il giovane curato di Ambricourt è mosso da estrema compassione.

Nel  Diario, malattia e sofferenza si presentano prima come disagio interiore dell’anima e poi come corruzione del corpo, sono individuali e sociali assieme, giacché investono la borghesia, il potere, la ricchezza, l’indifferenza. Il medico assume il ruolo di un alter ego del prete e quello del malato, più che di chi dovrebbe prendersene cura: l’asociale, emarginato e suicida dottor Delbende dirà al sacerdote “lei ed io siamo della stessa specie”, una frase del tutto analoga a quella del dottor Laville, “Vedendovi, poco fa, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a… di fronte al mio doppio”. In questi personaggi, la morte è il culmine del fallito tentativo di riscattarsi dalle proprie origini umili elevandosi di status culturale e sociale.  

In Balzac la figura del medico prende una fisionomia completamente diversa. Il dottor Bennassis, dopo una vita di delusioni, si ritira nel villaggio presso Grenoble, dove la cura dei cittadini travalica dalla competenza professionale all’impeto missionario e lo porta a diventare sindaco, dando modo a Balzac di tratteggiare un romanzo del ‘buon governo’. Lo stato di povertà in cui Bennassis vive, in “una camera nuda”, fedele a “una vita quasi monastica”, nella “più profonda noncuranza per tutto quello che non era una essenziale necessità” compone una figura quasi irreale, nel finale però il romanzo palesa come il caritatevole medico di campagna non sia mosso da semplice compassione o spirito di sacrificio ma da volontà di espiazione, essendo anch’egli un ‘malato’ afflitto da senso di colpa, dall’angoscia, dai rimorsi di gioventù, per aver sedotto una giovane donna che, rimasta incinta, finì con il suicidarsi.

Se volessimo evidenziare sbrigativamente due differenze, i protagonisti di Bernanos sono destinati alla resa, che nel caso più estremo consiste in un suicidio da cui Balzac parte invece per delineare un percorso riabilitativo. Il dottore creato da quest’ultimo raggiunge il proprio obiettivo mettendosi a capo di una comunità in cui, al contrario, il curato bernanosiano non riuscirà mai a integrarsi. Viene da pensare all’approccio narrativo diametralmente opposto degli Appunti di un giovane medico in cui Michail Bulgakov, lo scrittore celebre soprattutto per Il maestro e Margherita, romanzò i suoi ricordi di fresco laureato in medicina, repentinamente inviato a fronteggiare emergenze di pronto soccorso in una sperduta condotta russa agli albori della rivoluzione bolscevica. La concreta e motivata angoscia del giovane dottore, oltretutto inserita in una contingenza storica epocale e in una collocazione geografica estrema, si traduce in sketch narrativi di leggerezza straordinaria, spesso esilaranti.

Marco Ferrazzoli

[i] Questo saggio rappresenta il semplice stato dell’arte di un lavoro in corso, pertanto – e ce ne scusiamo con i lettori – non sono state indicate fonti né utilizzate note. Si ringraziano per la collaborazione Laura Battisti e Maria Gabriella Esposito.

Una sincera, spudorata storia di sla

La cruda e realistica autobiografia di una malata di sla: “L’ultima estate” è un’opera a metà tra diario e letteratura, una collezione di fatti, persone e pensieri raccontati con spudorata sincerità.

Il caso editoriale del 2008 è stato quello di Paolo Giordano con ‘La solitudine dei numeri primi’, quello di quest’anno, Cesarina Vighy de ‘L’ultima estate’: due esordienti. Un fattore comune non infrequente, si pensi a come torni anche in ‘Mille anni che sto qui’ di Mariolina Venezia e per la Benedetta Cibrario di ‘Rossovermiglio’. È chiaro che le opere prime conservano una freschezza letteraria che gli ‘scrittori di professione’ facilmente perdono, preferendo (loro o gli editori) riciclare i cliché rivelatisi vincenti. Ed ecco dunque l’incetta di premi: il quartetto citato ha fatto strage di Campiello e Strega.

Ma il caso della Vighy ha una particolarità, curiosamente opposta a quella di Giordano: ad un giovanissimo è infatti succeduta una signora over 70. Le due ‘rivelazioni’ sono agli antipodi non solo per l’anagrafe: all’aitante ricercatore che ha dimostrato grande equilibrio, anche nel gestire l’immediato ed eclatante risultato, si contrappone una malata di sla, cui proprio l’approssimarsi della fine ha impresso la spinta risolutiva per darsi alla letteratura; a un romanzo nel quale la malattia (psichica) dei protagonisti viene trattata con estrema freddezza (è questo l’aspetto che ha talvolta respinto i lettori de ‘La solitudine dei numeri primi’), fa pendant la scelta della Vighy redigere una cruda e realistica autobiografia partendo dalla situazione di paziente irrecuperabile.

Quest’ultimo aspetto, però, è prevalso eccessivamente nelle interpretazioni di molti critici e commentatori. ‘L’ultima estate’ non è uno dei tanti ‘diari’ di malati che ormai si stipano nelle proposte editoriali (un genere nel quale gli affetti da sla sono particolarmente presenti). È vero che il rapporto con le progressive difficoltà fisiche e con le cure tornano spesso nelle pagine e riempiono quelle finali, ma la cifra del libro sta più in generale nella sua spudorata sincerità, possiamo dire semmai che l’età e le cattive condizioni rendono l’autrice efficacemente disinibita.

Agghiacciante, ad esempio, la rievocazione della “visita alle faiseuses d’anges”, l’aborto giovanile che viene così descritto: “Pallida, seduta ingloriosamente sul bidè, non sembravo certo una regina” (e omettiamo la macabra espulsione del feto). Con lo stesso tono, la Vighy collaziona fatti e persone non memorabili – “Cleopatro Colabianchi, l’unico uomo al mondo che portasse questo nome” – ricorrendo a qualche insistita civetteria letteraria: “spencolandomi tra i banchi alla ricerca della mia preziosa matita col gommino”. Il rischio della banalità, insomma, non sempre viene evitato: “E’ così che, nelle famiglie, si diventa prigionieri uno dell’altro, legati in una rete robustissima che non sai se fatta più d’amore o di odio”; “continuavo a piangere: non per il dolore che non c’era più, ma per la perdita, il lutto”.

Una lettura piacevole, ma non di più, grazie soprattutto alla sua trasversalità di genere. Solo, non si capisce l’illuminazione di cui questo libro ha goduto rispetto ad altri, contemporanei, connotati dalla medesima capacità di intersecare dato biografico e letterario. Ad esempio il piacevolissimo ‘Mondo privato e altre storie’ di Marta Dassù (Bollati Boringhieri, pp. 149, 10 euro): un “taccuino poco diplomatico” “scritto per insonnia” da una esperta di relazioni internazionali, insieme diario rivolto a un ipotetico “dottore” e anamnesi della complicata evoluzione identitaria della sinistra italiana.

Marco Ferrazzoli

Cesarina Vighy, “L’ultima estate” (Fazi, 2009)

Il libro sul sito di Fazi Editore

L’incomprensibile suicidio di Edouard Levé

La vicenda editoriale legata a questo libro è tanto nota quanto drammatica: poco dopo aver consegnato il racconto per la pubblicazione, l’autore si è tolto la vita. Un atto imprevedibile, che si è trasformato in una terribile azione promozionale, rendendo il libro una sorta di diario ‘in tempo reale’ di una persona avviata verso il suo gesto estremo.

‘“Suicidio” rende tanti altri libri vani e inutili’, scrive L’Express in una delle recensioni che hanno segnato il clamoroso successo del libro di Edouard Levé, indissolubilmente legato all’esito imprevedibile e drammatico della vicenda editoriale: poco dopo aver consegnato il racconto per la pubblicazione, l’autore si è tolto la vita. Un atto imprevedibile, che si è trasformato in una terribile azione promozionale, rendendo il libro una sorta di diario ‘in tempo reale’ di una persona avviata verso il suo gesto estremo.

Lo spunto per il libro era giunto a Levé dal suicidio compiuto da un conoscente molti 25 anni prima: l’uomo era rientrato in casa con una scusa, mentre si stava recando ad una partita di tennis con la moglie che, udito lo sparo, era rientrata trovandolo senza vita. Lo scrittore cerca di immedesimarsi con l’amico, tenta di fornire una spiegazione a quella scelta, ma l’impressione che si ricava dalla lettura che in simili frangenti non si possa dire nulla di significativo. Il suicida resta incomprensibile all’autore, come Levé lo è, doppiamente, per noi.

Da un lato Levé, con la retorica di alcune espressioni, sembra ammantare il suicida della scontata mitologia che accompagna queste persone: ‘Nell’arte togliere equivale a migliorare. Scomparendo ti sei perpetuato in una bellezza negativa’; ‘Il tuo suicidio è stato un’azione a effetto inverso: una vitalità che produce morte’. Dall’altro lato, pare condividere l’accusa di egocentrismo che spesso viene rivolta a chi si uccide: ‘Non potevi accettare di mentire a quella semplice domanda: come stai?’, ‘Ti stupiva che i tuoi stati d’animo potessero essere tanto mutevoli senza che nessuno se ne accorgesse’.

Ma probabilmente il suicida non è un ragazzino immaturo né un eroe romantico. E forse, più dei suicidi, è facile spiegare i suicidi ‘mancati’. Più di questo libro ci appare vicina, nella sua inconsolabile tristezza, l’ingenuità dell’adolescente che scrive a uno psicologo da settimanale: ‘L’unico motivo per cui non oso togliermi la vita non è la paura. È che non so come si sta dopo’.

Marco Ferrazzoli

Edouard Levé, “Suicidio” (Bompiani, 2007)

Psichiatria tra scienza e terapia

“Benvenuti in una branca medica misteriosa e appassionante, dove i progressi delle neuroscienze si scontrano di continuo con quel gran pasticcio che è in realtà l’essere umano”: così l’autore Tom Burns accoglie i lettori di “Psichiatria”, un manuale dalla lettura agile, che introduce a una disciplina complessa, che va oltre la “mera medicina”.

Il libro numero 100 della collana Paperback di Codice è un manualetto agile e semplice, anche nel linguaggio, sulla psichiatria. Disciplina molto attraente, che talvolta rischia di scontare qualcosa al successo della psicologia o, più ancora, del dilagare delle ‘terapie’ per il disagio e la malattia mentale, per la quale c’è dunque bisogno di conoscere e comprendere i capisaldi scientifici.

Il libro di Tom Burns lo fa con equilibrio, spiegando come sia riduttivo pensare la psichiatria in termini di mera ‘medicina’, assimilandola eccessivamente alle branche che si occupano di altri organi del nostro corpo o di patologie diverse, come la cardiologia o l’oncologia. D’altronde, non bisogna neppure cedere al fascino che a questa scienza deriva dal fatto di dare forma ai nostri ‘demoni’ interiori: la depressione come versione amplificata delle nostre tristezze, lo squilibrio conclamato e patologico come amplificazione speculare delle nostre inibizioni e paure.

Quella della psichiatria è una storia travagliata, durante la quale i progressi hanno sempre dovuto fare i conti con i risvolti sociali della malattia, con il pregiudizio e la paura del ‘diverso’, scontrandosi continuamente con quel mistero irrisolto che è l’essere umano nella sua ‘psiche’ (anima, dal greco). Una sfida che si rinnova ad ogni scoperta, imponendo un continuo ripensamento delle questioni filosofiche irrisolte: libero arbitrio, dualismo mente-cervello, autonomia personale e obblighi sociali.

Ufficio stampa Cnr

Tom Burns, “Psichiatria” (Codice, 2006)

L’anteprima sul sito di Codice Edizioni

Il padre, dalla Bibbia alla psicanalisi

Un saggio dedicato al tema dell’interpretazione psicanalitica della figura paterna, partendo da Freud per poi approfondire il pensiero di due studiosi che da questo si discostarono, Carl Gustav Jung e Jacques Lacan.

‘Il nome del padre’ richiama inequivocabilmente un segno religioso, ma anche un aspetto fondamentale dell’interpretazione psicanalitica.

Il saggio dedicato a questo tema da Giuliana Kantzà prende le mosse proprio dall’appartenenza ebraica di Sigmund Freud, per poi approfondire il distacco dalla originaria formulazione freudiana su tale tema che connotò il pensiero di Carl Gustav Jung e Jacques Lacan.

Il padre, in Freud, è uno dei soggetti principali della formazione della psiche, un protagonista di quell’imprinting infantile che segnerebbe in modo indelebile la nostra personalità per tutto il resto della vita. Il padre è al centro del tabù dell’incesto che, secondo il fondatore della psicanalisi, fa da perno alla nostra struttura relazionale. Ed è proprio dalla sua uccisione ad opera dei figli che, sul piano simbolico, le società si sono evolute secondo la forma che conosciamo.

Il dissenso di Jung, che trasferì sul piano mitico la ragione di gran parte dei meccanismi psicologici individuati da Freud, fu vissuto dai due studiosi in modo piuttosto traumatico anche sul piano personale. Toccò poi a Lacan rielaborare l’insegnamento freudiano, facendone la lente di lettura delle società contemporanee. Ma all’origine resta sempre il padre veterotestamentario al quale Freud, al di là del professato laicismo, era legato in modo ‘non puramente casuale’.

Marco Ferrazzoli

Giuliana Kantzà, “Il nome del padre nella psicanalisi” (Ares, 2008)

La scheda sul sito di Ares Edizioni

Quanto costa curare un anziano?

Da un medico di base con oltre trent’anni di pratica, una riflessione sull’esperienza del distacco e sul tema dei costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti.

Iona Heath è un medico di base con oltre trent’anni di pratica in uno dei quartieri più poveri di Londra.

Da questo suo libro sui “Modi di morire”, pertanto, ci si attenderebbe soprattutto il senso di un’esperienza ‘vissuta’ (per quanto quest’espressione possa apparire involontariamente ironica) rispetto all’evento finale e assoluto che, ogni anno, tocca 56 milioni di persone direttamente e indirettamente circa 300 milioni, cioè il 5 per cento della popolazione umana.

‘I costi del trattamento sanitario cui l’avevano appena sottoposta erano stati uno spreco inutile e penoso’, scrive ad esempio il dottor Heath dopo la scomparsa di una paziente novantenne. Ora, che dal dibattito sul diritto di decidere della propria sorte e di rifiutare ogni accanimento terapeutico, si passi a questionare sui costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti, appare una deriva di tipo salutistico e anagrafico piuttosto rischiosa.

E’ vero che la convinzione ‘di avere diritto a una salute perfetta’ è pericolosa, che anima ‘pretese eccessive’, tra le quali si possono annoverare anche le diffuse esagerazioni in merito all’utilità della ‘medicina preventiva’. Ma da qui a stabilire che gli anziani possano essere abbandonati senza cure, ce ne passa.

Marco Ferrazzoli

Iona Heath, “Modi di morire” (Bollati Boringhieri, 2008)

La scheda sul sito dell’editore

Un cancro chiamato Cameo

La storia di un uomo nel suo percorso di rievocazione e autoanalisi di fronte al cancro che lo ha colpito: un destino che lo porta inevitabilmente a ripercorrere la propria esistenza.

“Cameo” di Raffaele Crovi è un’opera di mestiere, godibilissima alla lettura, ma priva di una forza narrativa autentica, perennemente indecisa e oscillante tra la contemplazione descrittiva e il malcelato intento autobiografico.

Protagonista ne è Nando Mortara: ebreo, convertito per opportunità (nel 1939: i genitori sarebbero stati deportati e uccisi) e poi tornato alla fede originaria per ‘protesta’, di formazione psichiatra ma senza essere mai riuscito ad affrontare l’impegno di una attività terapeutica ospedaliera.

Un ‘non personaggio’, tipico di molta narrativa minimalista, che non a caso nel corso del libro sembra pigramente, rassegnatamente lasciare il posto al cancro che lo ha colpito: un destino, più che una disgrazia, davanti al quale ripercorrere la propria esistenza è inevitabile, quasi scontato.

Marco Ferrazzoli

Raffaele Crovi, “Cameo” (Mondadori, 2006)

La scheda sul sito dell’editore

Pozzuoli ai tempi del colera

Il romanzo storico di Rosario Zanni ci porta a Pozzuoli alla fine del XIX secolo, quando il colera causò centinaia di vittime.

La presenza delle epidemie nella letteratura è imponente: scenario e deus ex machina narrativo, esse consentono spesso agli autori di rinforzare emotivamente il racconto, oppure di creare le location ideali per far emergere caratteri e storie private dei loro personaggi. Solo immaginare “I promessi sposi” e il “Decamerone” boccaccesco senza la peste, oppure Verga senza la malaria e il colera, sarebbe impossibile.

Ora, Stampa Alternativa propone nella sua Collana Eretica “Mal’aria”, un romanzo storico su ‘Colerosi, affamati e ribelli di fine ‘800’ scritto da Rosario Zanni. Ci troviamo a Pozzuoli, a fine XIX secolo, quando il colera causò centinaia di vittime. La famiglia Pollio deve però combattere, oltre che con l’epidemia, con le rapine ai casotti del dazio, il movimento anarchico, gli stupri, l’emigrazione e il carcere. Difficile non pensare ai vinti verghiani, almeno per contrappasso, visto che la vicenda è segnata da un’ambizione incomprimibile di rivolta e riscatto.

La scrittura di Zanni è molto efficace, classica nel periodare, grazie anche alle frequenti incursioni semidialettali e al sapiente uso dell’anacoluto. Ne fanno fede già le prime righe del libro. “I negozi venivano chiusi, le strade erano deserte, la contrada Ospizio completamente abbandonata, infelicissime condizioni igieniche della parete inferiore del quartiere Castello e del quartiere Teatro, non da meno i quartieri del Largo a mare e dei vichi Torre, bisognosi di una portentosa basalatura e di lavori di condutture in ferro per la canalizzazione. I bambini scalzi e nudi, alcuni più grandi coperti di piccoli cenci che fungevano da mutande, rotolavano lungo le strade ricoperte di acque immonde di latrina e di rifiuti domestici con aria meno baldanzosa del consueto”.

Marco Ferrazzoli

Rosario Zanni, “Mal’aria” (Stampa Alternativa, 2008)