Michael Bulgakov: Margherita e…

Tra storia d’amore e persecuzione sovietiche, un capolavoro senza tempo ma con un po’ di satira


Michail Bulgakov ha legato per sempre la sua notorietà di scrittore a “Il maestro e Margherita”, uno dei romanzi più celebri e amati della letteratura degli ultimi secoli, storia allo stesso tempo surreale, dove entrano da protagonisti elementi metafisici e magici, il ritratto impietoso della società staliniana. Un’ambivalenza che mise in difficoltà lo stesso dittatore sovietico, il quale concesse allo scrittore un particolare regime di “quasi libertà”. Dal punto di vista della salute e della malattia, però, è per noi più interessante il libro nel quale Bulgakov raccontò in modo realistico ma affabulatorio, umoristico e drammatico nello stesso tempo, i suoi incerti esordi come medico, catapultato senza supporto né preparazione sufficienti in una sperduta condotta siberiana. La serie di aneddoti ed episodi che l’autore riferisce è riconducibile ad un messaggio crudo e ineludibile: per il giovane medico i pazienti sono una sorta di cavie sulle quali formare l’esperienza professionale. Le vicende che il grande romanziere descrive fanno ovviamente riferimento a una pratica molto diversa da quella dei nostri giorni, nei quali le scelte dei sanitari sono supportate da strumentazioni, tecnologia e, quindi, dati obiettivi. Lo scrittore medico si trova invece a dover intervenire in presenza di un parto podalico oppure a dover eseguire una indispensabile amputazione senz’altro conforto che quello di improvvisati assistenti, trovandosi costretto persino a correre nella propria stanza per dare un’occhiata ai libri di testo e ripassare l’argomento del quale, nella concitata emergenza di cui è spesso fatta la sanità, non ricorda nulla.

Redazione CNR


Michail Bulgakov, “Il maestro e Margherita”, Einaudi (2014)


RaiPlaySound – Rai Radio 3 , Audiolibri ad alta voce – Il maestro e Margherita

Una semplice azione contro le infezioni puerperali

Dimostrazione dell’ammirazione che un allievo ha per il suo meastro, Louis-Ferdinand Céline, dottore e scrittore francese, scrive una tesi sulla vita del suo mentore, il dottor Semmelweis, e della sua scoperta riguardo all’importanza dell’igienizzazione delle mani da parte dei medici prima di occuparsi del paziente


Prima di diventare Céline, cioè uno degli scrittori grandissimi del nostro secolo, Céline fu lo studente di medicina Louis-Ferdinand Destouches. Come tale dedicò la sua tesi, nel 1924, alla vita di uno degli eroi scientifici dell’Ottocento: Ignazio Filippo Semmelweis, il debellatore dell’infezione puerperale – che falciava allora migliaia e migliaia di vite – grazie a una scoperta enorme, eppure semplicissima: osservò che le puerpere venivano visitate dai medici che avevano appena sezionato cadaveri e non pensavano certo a lavarsi le mani. Imponendo la disinfezione, Semmelweis si rivelò l’unico non colpito dalla mostruosa cecità del suo secolo, che trattava morte e nascita come fossero la stessa cosa. Con lo slancio entusiastico di un giovane adepto della scienza, Céline traccia in questo testo la vita di un puro, trascinato dal destino alla sua scoperta e, insieme con essa, a un clamoroso susseguirsi di incomprensioni e persecuzioni, che lo spingeranno alla follia e a una morte atroce. Ma il materiale sembra trasformarsi nel corso del libro: al destino di Semmelweis si sovrappone quello, non ancora vissuto, di Céline stesso, il suo senso costante di persecuzione e di isolamento, la sua sete di colpa e di tortura; alla prosa classica e nitida, quasi da immacolato compito scolastico, su cui il testo è costruito, si sostituisce, per squarci, la prosa forsennata del Céline maturo, scandita dai suoi prodigiosi tre puntini, abitata da quella petite musique che, una volta udita, non si può dimenticare.

Adelphi Editore


Louis-Ferdinand Céline, “Il dottor Semmelweis”, Adelphi (2020, 23ª ediz.)


Almanacco – Saggi: Enciclopedia cronologica della scienza

Enciclopedia Treccani online – Semmelweis, Ignác Fülöp

Cronin, quando la cura diventa eroismo

Lo scrittore scozzese Archibald J. Cronin è una delle figure più note del medico scrittore ed è soprattutto l’autore dei romanzi dove questa figura professionale viene descritta nel modo più limpido quasi eroico. La cura del paziente e del malato viene raccontata come una missione


Archibald Joseph Cronin, medico e scrittore nato il 19 luglio 1896 nella contea di Dumbartonshire, Scozia. Laureatosi all’università di Glasgow e prestato servizio come medico chirurgo nella Royal Navy durante la Prima Guerra Mondiale, poi esercitò presso i minatori del Galles e da qui si interessò dei loro problemi sociali. Ritiratosi alle coste di Loch Fyne per un lungo periodo di riposo dopo una diagnosi di un’ulcera cronica nel 1930, si dedicò alla scrittura del suo primo romanzo, “Il castello del cappellaio”, pubblicato l’anno seguente. Segnò il suo successo per gli anni a venire, tanto che mise da parte lo stetoscopio per impugnare la penna.
In italia le opere di Cronin fecero molta fama soprattutto grazie alle riproduzioni televisive, in particolare “E le stelle stanno a guardare” e “La Cittadella”. Ma non furono le uniche opere ad andare sul grande e piccolo schermo.
Continuò a scrivere senza sosta fino all’età di ottanta anni, poi morì a Montreux, Svizzera, il 6 gennaio 1981.

Redazione CNR


Wikipedia – A.J. Cronin

Bompiani Editore – Autori – Archibald Joseph Cronin

Enciclopedia Treccani online – Cronin, Archibald Joseph

Dalla Cittadella alle stelle, quando la serie si chiamava sceneggiato

Le miniserie televisive italiane degli anni ’60 – ’70 che incantarono il pubblico con il personaggio del buon dottore


È una televisione ancora molto ingenua, in bianco e nero, quella che rende due opere di Archibald J. Cronin celeberrime tra gli spettatori italiani: “La cittadella” e “Le stelle stanno a guardare”. Sono i tempi nei quali le serie televisive si chiamano ancora sceneggiati e tengono inchiodati davanti al televisore milioni di persone, che si emozionano e commuovono davanti alle storie strappalacrime del medico scrittore britannico, grazie anche alle partecipate interpretazioni di noti attori dell’epoca come Alberto Lupo.

Redazione CNR


Rai Play – La cittadella (1964), lo sceneggiato dal romanzo di Archibald Joseph Cronin

Bompiani Editore:
A.J. Cronin, “La Cittadella”
A.J. Cronin, “E le stelle stanno a guardare”

Wikipedia:
La cittadella (miniserie televisiva 1964)
E le stelle stanno a guardare (miniserie televisiva 1971)

Su quel ramo del lago di Como c’è uno scrittore. Anzi, un medico

Andrea Vitali è la figura più emblematica della letteratura contemporanea italiana di narratore e medico. Considerato l’erede di Piero Chiara è un prolifico autore di romanzi e racconti ambientati nella provincia dove è nato e risiede e dove, fino a poco tempo fa, ha svolto l’attività clinica. Protagonisti delle sue opere sono per l’appunto personaggi provinciali, semplici, tra i quali naturalmente anche medici e il maresciallo Maccadò


Confesso che sin da giovane ho avvertito la necessità di scrivere, di usare la scrittura come mezzo di comunicazione con gli altri. All’inizio quindi era la scrittura, non concepita come esercizio solitario – nessun diario nella mia infanzia e nemmeno nella gioventù – ma come esperienza da condividere. Insomma, ci voleva qualcuno che leggesse quel che scrivevo. Fu proprio grazie a mio padre che, alla fine, compresi come potevo indirizzarla.
Mio padre, va detto, era un uomo di poche parole: casa, lavoro, telegiornale e poi a letto, dove spesso tirava tardi leggendo. Era la sua regola e, con il passare del tempo, è divenuta anche la mia. Alla quale, ogni tanto, lui si concedeva un’eccezione. In quel caso chiacchierava un po’ di più, raccontava storie, avventure che gli erano capitate quand’era giovane o che aveva sentito raccontare da altri. Accadeva di rado, a occhio e croce a ogni cambio di stagione. Fu proprio durante un passaggio di stagione, dalla primavera all’estate, che ascoltandolo ebbi l’idea di scrivere un romanzo, il primo, Il procuratore.
Fu così che il mio genitore si lasciò andare sull’onda dei ricordi e poiché la sua generazione ebbe la vita tristemente offesa dalla guerra, raccontò aneddoti guerreschi. Ricordo l’avventura di un salame, partito insieme con lui da Bellano per raggiungere l’isola di Rodi e finito poi, misteriosamente, nella pancia di un gatto; e quella di un lungo pomeriggio trascorso seduto sull’ala di un aereo da ricognizione planato, per avaria, in mare aperto. Non ci sono, come si vede, morti o feriti: non credo che mio padre abbia mai tirato un colpo d’arma da fuoco contro qualcuno, fece la guerra perché vi fu obbligato, come tanti altri, e come tanti altri ritornò con un carico di racconti che ogni tanto serviva ai figli.
Ecco Il procuratore è stato il mio punto di partenza; il 1988 l’anno in cui ho cominciato a rubare storie per restituirle scritte su carta. Ma anche l’anno in cui ho cominciato a ripensare all’infinità di storie che avevo già sentito e che aspettavano solo di essere raccontate.
Da allora non ho più smesso di ripensare a quelle che già so né di andare alla ricerca di quelle che ancora non conosco. E, a dire la verità, non ho proprio nessuna intenzione di farlo.

Andrea Vitali



BIOGRAFIA
Andrea Vitali è nato a Bellano, sul lago di Como, nel 1956. Medico di professione, ha coltivato da sempre la passione per la scrittura esordendo nel 1989 con il romanzo Il procuratore, che si è aggiudicato l’anno seguente il premio Montblanc per il romanzo giovane. Nel 1996 ha vinto il premio letterario Piero Chiara con L’ombra di Marinetti. Approdato alla Garzanti nel 2003 con Una finestra vistalago ( premio Grinzane Cavour 2004, sezione narrativa, e premio Bruno Gioffrè 2004), ha continuato a riscuotere ampio consenso di pubblico e di critica con i romanzi che si sono succeduti, costantemente presenti nelle classifiche dei libri più venduti, ottenendo, tra gli altri, il premio Bancarella nel 2006 (La figlia del podestà), il premio Ernest Hemingway nel 2008 (La modista), il premio Procida Isola di Arturo Elsa Morante, il premio Campiello sezione giuria dei letterati nel 2009, quando è stato anche finalista del premio Strega (Almeno il cappello), il premio internazionale di letteratura Alda Merini, premio dei lettori, nel 2011 (Olive comprese). Nel 2008 gli è stato conferito il premio letterario Boccaccio per l’opera omnia e nel 2015 il premio premio De Sica.
Con Massimo Picozzi ha scritto anche La ruga del cretino . I suoi romanzi più recenti sono
Sotto un cielo sempre più azzurro e Un uomo in mutande.

Garzanti Editore


Almanacco CNR – Recensione del libro “Nome d’arte Doris Brilli” di Andrea Vitali

La7 Attualità – Intervista a Andrea Vitali, scrittore e medico tornato in campo per la campagna vaccinale

Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali

Oliver Sacks presenta sette persone diverse, con le loro peculiarità, il loro vissuto e le straordinarie abilità sviluppate da ciò che per i più è una menomazione. Non casi, ma singoli individui da cui imparare ancora il potenziale creativo derivato dalla patologia.

 

Egli sapeva dire il colore di ogni cosa con una straordinaria precisione (era in grado di indicare non solo il nome del colore, ma anche il numero con il quale era riportato in un catalogo Pantone che aveva usato per anni). E così riusciva a identificare senza esitazione il verde del tavolo da bigliardo di van Gogh. Il signor I. sapeva quali fossero i colori di tutte le sue pitture preferite, ma non poteva più vederli, né con gli occhi, né con la mente: probabilmente la sua conoscenza del colore si fondava ora esclusivamente sulla memoria verbale. […]

In seguito, egli affermò che né «grigio» né «plumbeo» trasmettevano, sia pur lontanamente, le reali sembianze del suo mondo. Ciò che egli percepiva non era il solito «grigio»: si trattava di altre qualità percettive che non hanno equivalenti nell’esperienza e nel linguaggio ordinari. […]

Il signor I. non rappresentava solo un caso relativamente puro di acromatopsia cerebrale (quasi non contaminato da altri difetti nella percezione della forma, del movimento o della profondità), ma era anche un testimone esperto dotato di un’intelligenza superiore, capace di disegnare e di riferire quel che vedeva. […]

 

Quando lo videro, furono travolti dall’orrore: il loro ragazzo, che ricordavano snello e con i capelli lunghi, era diventato grasso e calvo; aveva stampato sul volto un perenne sorriso «ebete» (questo fu almeno il termine usato dal padre per descriverlo); continuava a borbottare brevi frammenti di canzoni o di versi, o commenti «idioti», mostrando ben poche emozioni profonde («come se fosse stato svuotato, senza più niente dentro» disse il padre); aveva perso interesse per gli eventi del presente; era disorientato – e completamente cieco. […]

Greg fu ricoverato in ospedale, visitato e trasferito in neurochirurgia. Gli esami avevano evidenziato un enorme tumore in posizione mediana, che stava distruggendo l’ipofisi, il chiasma e i tratti ottici e andava estendendosi in tutte le direzioni, verso i lobi frontali, i lobi temporali e il diencefalo. In sede chirurgica si scoprì che il tumore era un meningioma di natura benigna, che però era cresciuto fino ad avere le dimensioni di un piccolo pompelmo o di un’arancia; sebbene i chirurghi fossero riusciti a rimuoverlo quasi del tutto, non poterono cancellare il danno che esso aveva già arrecato. […]

Per me, questo aspetto della cecità di Greg, la sua singolare inconsapevolezza della propria condizione, il suo non sapere più il significato di parole come «vedere» o «guardare», erano fonte di grande perplessità. Tutto questo sembrava indicare la presenza di qualcosa di più strano e più complesso di un semplice «deficit»; sembrava piuttosto testimoniare una qualche alterazione radicale della struttura stessa della conoscenza, della coscienza e dell’identità. […]

I lobi frontali sono la parte più complessa del cervello; essi infatti non sono interessati alle funzioni «inferiori» del movimento e della sensazione, ma a quelle superiori di integrazione complessiva del giudizio e del comportamento, dell’immaginazione e dell’emozione; in altre parole, alla formazione di quell’identità unica che siamo soliti chiamare «personalità» o «sé». […]

 

Incontrai per la prima volta il dottor Carl Bennett a una conferenza scientifica sulla sindrome di Tourette che si teneva a Boston. Il suo aspetto era impeccabile: sulla cinquantina, di corporatura media, con barba e baffi appena brizzolati, sobriamente vestito con un abito scuro; impeccabile, sì, finché d’improvviso non si lanciava in un affondo, si allungava a toccare il pavimento o cominciava a sobbalzare e a saltellare. Fui colpito sia dai suoi tic bizzarri, sia dalla sua calma dignitosa. Quando espressi la mia incredulità sulla professione che aveva scelto, Bennett mi invitò ad andarlo a trovare e a trattenermi un po’ da lui, a Brànford, nella Columbia Britannica, dove egli viveva ed esercitava; così avrei potuto seguirlo nei giri di visite e in sala operatoria, l’avrei visto in azione. […]

 

Ma quando Virgil aprì il suo occhio dopo essere stato cieco per quarantacinque anni, e avendo alle spalle quasi soltanto l’esperienza visiva di un bambino di pochi mesi (peraltro ormai da tempo dimenticata), non c’erano ricordi visivi che potessero sostenere la sua percezione; non c’era alcun mondo di esperienza e significato ad attenderlo. Virgil vedeva, ma ciò che vedeva non aveva coerenza alcuna. La sua rètina e il suo nervo ottico erano attivi, trasmettevano impulsi, ma il suo cervello non riusciva a comprenderli; come dicono i neurologi, Virgil era agnosico. […]

Il comportamento di Virgil non era certo quello di un vedente, e tuttavia non era più nemmeno quello di un cieco. […]

 

Proprio mentre doveva prendere la tormentosa decisione, Franco fu colpito da una strana malattia, che infine lo portò al ricovero in un sanatorio. Ancora oggi, è tutt’altro che chiaro di quale malattia si trattasse. Certo ci fu la crisi della decisione, accompagnata da speranza e paura; ma ci furono anche febbre alta, delirio, dimagrimento e forse convulsioni; fu fatta l’ipotesi che Franco soffrisse di una tubercolosi, o di una psicosi, o di qualche disturbo neurologico. Ma nessuno comprese mai davvero che cosa fosse accaduto, e la natura della patologia rimane tuttora un mistero. Quel che è certo, comunque, è che al culmine della malattia, con il cervello forse stimolato dall’agitazione e dalla febbre, Franco cominciò ad avere, ogni notte e per tutta la notte, sogni straordinariamente realistici. […]

Per quanto dotato di una grandissima immaginazione, Franco non aveva mai avuto prima di allora visioni di tale intensità – immagini sospese in aria come apparizioni che gli promettevano una «riappropriazione» di Pontito. Ora esse sembravano dirgli: «Dipingici. Rendici reali». […]

 

Oggi è chiaro che la condizione patologica che chiamiamo autismo è sempre esistita e, pur essendo poco frequente, ha mietuto le sue vittime in tutte le epoche e le culture, suscitando sempre nella mente popolare un’attenzione ora divertita, ora timorosa o perplessa (e forse anche generando archetipi e personaggi mitici: quello dell’individuo strano e diverso, del bambino portato dalle fate, o di quello stregato da un incantesimo). […]

In quella via, dunque, ci imbattemmo in un’auto la cui targa si leggeva «autism» (c’era una probabilità su un milione, che potesse capitare). La indicai a Stephen: «Che cosa c’è scritto?».

Faticosamente, Stephen lesse una lettera alla volta: «A-U- T-I-S-M-2».

«Sì,» lo incoraggiai «e si legge…?».
«U… U… Utism» balbettò.
«Quasi, ma non proprio. Non “utism”: autism. Che cos’è l’autismo?».
«È quello che c’è sulla targa di quell’auto» rispose, e non si andò oltre. […]

 

È strano, ma moltissime persone, quando parlano di autismo, si riferiscono solo ai bambini e mai agli adulti, come se a un certo punto – non si sa come – i bambini sparissero dalla faccia della terra. Ma se è vero che all’età di due o tre anni l’autismo può comportare un quadro devastante, è anche vero che alcuni ragazzini autistici, contrariamente alle aspettative, riescono pian piano ad acquisire discrete capacità di linguaggio e qualche abilità sociale, perfino a conseguire apprezzabili risultati intellettuali; possono, insomma, diventare esseri umani autonomi, capaci di una vita almeno in apparenza piena e normale (anche se sotto la superficie può persistere un’individualità autistica profonda). […]

Temple mi disse che riusciva a comprendere le emozioni «semplici, forti, universali», ma che era sconcertata da quelle più complesse o simulate. «Molto spesso» mi confidò «mi sento come un antropologo su Marte».

 

Oliver Sacks

 

Oliver Sacks, “Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali”, Adelphi Edizioni, Milano, 1995.

https://www.adelphi.it/libro/9788845911453

Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi

 

Oliver Sacks, neurologo di fama mondiale, fa luce su una realtà a lungo messa in ombra, quella dei sordi. Con la sua incredibile capacità narrativa, condita da dosi rare di sensibilità e di empatia, l’autore ci invita a fare un passo oltre la medicalizzazione e a porre lo sguardo alle infinite possibilità dell’essere umano, alle straordinarie sfide (linguistiche e non), a una lingua, quella dei segni, a lungo ostracizzata, e a una cultura degna di nota.

 

 

È sorprendente quanto poco sappiamo sulla sordità, che Samuel Johnson definì «una delle più disperate tra le calamità umane»; siamo assai più ignoranti di quanto lo fosse una persona colta del 1886 o del 1786. Ignoranti e indifferenti. Negli ultimi mesi ho provato a parlare della sordità a un grandissimo numero di persone e quasi sempre mi sono sentito rispondere frasi come: «La sordità? Non ci ho mai riflettuto molto, a dire il vero. Non conosco nessun sordo. Perché, c’è qualche cosa di interessante da sapere sulla sordità?». Anch’io avrei risposto allo stesso modo, fino a qualche mese fa. […]

 

 

Il termine «sordo» è vago, o meglio, è così generico che non permette di distinguere i moltissimi gradi della sordità, gradi che hanno un’importanza qualitativa, e perfino «esistenziale». Ci sono le persone «dure di orecchio» (o «sordastri»), quindici milioni circa nella popolazione degli Stati Uniti, che riescono a udire in parte quanto viene detto, con l’aiuto di un apparecchio acustico e di una certa dose di buona volontà e di pazienza da parte dei loro interlocutori. Molti di noi hanno un genitore o un nonno appartenente a questa categoria – un secolo fa avrebbero usato il cornetto acustico; oggi usano le moderne protesi. Vi sono poi i «sordi gravi», molti dei quali lo sono in conseguenza di una malattia alle orecchie o di un incidente subìto nei primi anni di vita; ma per loro, come per i duri di orecchio, udire le parole altrui è ancora possibile, soprattutto con gli apparecchi acustici disponibili oggi o in fase di messa a punto, congegni estremamente perfezionati, computerizzati e «personalizzati». Infine vi sono i «sordi profondi» (“stone deaf”) ai quali nessun futuro ritrovato tecnologico permetterà mai di udire le parole degli altri. I sordi profondi non possono conversare nel modo abituale: devono o leggere le labbra (come faceva David Wright) o usare la lingua dei segni, o fare entrambe le cose. Non importa solo il grado della sordità, importa anche e soprattutto l’età, o lo stadio, in cui essa sopraggiunge. […]

 

 

Si può forse sostenere che la sordità sopraggiunta in età adulta sia «preferibile» alla cecità, ma nascere sordi è, o almeno può essere, infinitamente peggio che nascere ciechi. Il sordo prelinguistico, infatti, non potendo udire i suoi genitori, rischia di restare gravemente ritardato, se non minorato per sempre, nell’acquisizione del linguaggio, se non si interviene fin dai primissimi anni o mesi di vita. Ed essere menomato nel linguaggio, per un essere umano, è una delle calamità più disperate, perché è solo attraverso il linguaggio che entriamo in pieno possesso della nostra umanità, che comunichiamo liberamente con i nostri simili, che acquisiamo e scambiamo informazioni. Se non siamo in grado di fare tutte queste cose, saremo per sempre singolarmente menomati e isolati – quali che siano i nostri desideri, i nostri sforzi o le nostre capacità innate. Possiamo addirittura essere a tal punto impotenti a realizzare le nostre capacità intellettuali da apparire mentalmente deficienti (10). E’ per tale ragione che i sordi congeniti, i «sordomuti» (11), furono ritenuti degli idioti per migliaia di anni e considerati da una legislazione miope come soggetti «incapaci» – di ereditare, di sposarsi, di ricevere un’istruzione, di svolgere un lavoro non banalmente ripetitivo – e si videro rifiutare i diritti umani fondamentali. Solo verso la metà del Settecento si cominciò a porre rimedio a questa situazione, allorché (forse per il più diffuso atteggiamento illuminato, o forse per un brillante slancio di empatia) la figura del sordo e la sua situazione subirono un radicale mutamento. […]

 

 

Si sviluppa, quindi, nei segnanti, un modo nuovo e straordinariamente complesso di rappresentare lo spazio; una nuova “sorta” di spazio, uno spazio formale, che non ha corrispettivo in quanti non usano i Segni (56). Ciò riflette uno sviluppo neurologico del tutto nuovo. […]

 

 

È come se l’emisfero sinistro dei segnanti «si facesse carico» di un dominio di percezione visivo-spaziale, lo modificasse, lo affinasse, in un modo che non ha precedenti, rendendo possibili un linguaggio e una concettualizzazione visivi. […]

 

 

Essere sordo, essere nato sordo, pone l’individuo in una situazione fuori dall’ordinario; egli è esposto a uno spettro di possibilità linguistiche, quindi di possibilità intellettuali e culturali, che il resto di noi, parlanti nativi in un mondo di parlanti, può a malapena cominciare a immaginare. Noi non siamo linguisticamente deprivati, non ci troviamo di fronte a una sfida linguistica, come i sordi; noi non corriamo mai il pericolo di esser privi di qualsiasi forma di linguaggio o di presentare una grave incompetenza linguistica; ma nemmeno scopriamo linguaggi radicalmente nuovi, né li creiamo.

 

 

Oliver Sacks

 

 

www.cts-pisa.it/cts2018/wp-content/uploads/2018/02/vedere-voci-libro.pdf

 

 

Oliver Sacks, “Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi”, Adelphi Edizioni, Milano, 1989.

 

Le Carré John-Chiamata per il morto

Nella narrativa di genere e/o di maniera che spopola nelle classifiche dei best-seller, le scene ospedaliere abbondano. In questo romanzo di Le Carré ritroviamo, per esempio, un classico arrivo all’ospedale:

 

“Mendel lo guardò e si chiese se fosse morto. Vuotò le tasche del suo soprabito e lo posò delicatamente sulle spalle di Smiley. Poi corse, corse come un pazzo all’ospedale, si precipitò fragorosamente attraverso la porta a vento del reparto esterni ed entrò nella parte illuminata riservata ai degenti. Era di servizio un giovane medico di colore. Mendel gli fece vedere la sua tessera, gli gridò qualcosa, lo afferrò per un braccio e tentò di trascinarlo sulla strada. Il medico sorrise paziente, scosse la testa e telefonò per chiamare un’ambulanza”.

 

John Le Carré, Chiamata per il morto, Garzanti, Milano, 1978-79 (1961)

La rappresentazione della malattia negli autori francesi

La salute, nelle due facce della malattia e della medicina, della sofferenza e della cura, ricorre in tutte le letterature, spesso componendo un poliedro sfaccettatissimo. La letteratura francese non fa eccezione e anzi spalanca un panorama immenso, come delineato dagli spunti di questo breve saggio.

La salute, nelle due facce della malattia e della medicina, della sofferenza e della cura, ricorre in tutte le letterature con frequenza e rilevanza comparabili solo a quelle di pochi altri grandi temi esistenziali; e compone un poliedro sfaccettatissimo, qualunque punto di osservazione si assuma e qualunque prospettiva si traguardi: quelli dei personaggi, della trama, delle biografie degli autori, dell’uso metaforico o realistico del tema… La letteratura francese non può evidentemente fare eccezione e anzi spalanca un panorama immenso, in cui non è facile orientarsi né stabilire un percorso: limitiamoci pertanto, in questa sede, ad additare una serie di spunti utili per avventurarsi in successive esplorazioni[i].

Il mal di scrivere

Pensiamo solo al mare magnum della Recherche, dove anche una navigazione del tutto random ci fa continuamente imbattere in espressioni, metafore, descrizioni che non possiamo leggere senza ricordare come Proust associ una salute cagionevole all’essere figlio (oltre che fratello) di un medico: quell’Adrien che, all’epoca, vantava la fama di luminare per essersi distinto nell’adozione di un cordone sanitario con cui proteggere l’Europa dall’epidemia di colera del 1866. Come se in famiglia gli fosse spettato il ‘ruolo’ di malato, Marcel muore all’età di 51 anni per una polmonite che si era sostanzialmente rifiutato di curare, quasi in ossequio al suo professato scetticismo verso la medicina. Ad attestare questo suo duplice, controverso coinvolgimento sul tema basti questo brevissimo campionario di aforismi: “Come si dice in chirurgia, il suo amore non era più operabile” leggiamo in Dalla parte di Swann; ne I Guermantes che “Essendo la medicina un compendio degli errori successivi e contraddittori dei medici […] credere alla medicina sarebbe la suprema follia, se non credervi non fosse una ancora più grande”; in Sodoma e Gomorra che “La medicina ha compiuto alcuni piccoli progressi nelle sue conoscenze dai tempi di Moliére, ma nessuno nel vocabolario”; in Albertine scomparsa che “Ci si sente più vicini a chi ha le nostre stesse malattie”.

Potremmo rinvenire altri ricchissimi filoni di citazioni nelle miniere di Émile Zola e Victor Hugo, solo che si esplorino il Ventre di Parigi o I miserabili. Ma, per restare a Hugo, limitiamoci a ricordare come Notre Dame de Paris sia più popolarmente nota con il titolo de Il gobbo di Notre Dame, dato l’imporsi della figura di Quasimodo. Nell’affollato e prestigioso parterre delle deformità descritti nei classici è però doveroso quotare almeno un altro francese, il Cyrano di Edmond Rostand, e una delle scene più celebri della letteratura teatrale di ogni tempo (alla pari con la dichiarazione amorosa resa sotto il balcone di Rossana), quella che principia con la battuta di Valvert “Voi… voi avete un naso, ecco, un naso molto grande” e prosegue: “Ce n’erano di cose da dire sul mio naso – diamine! – e di toni da sfoggiare! Per esempio, vediamo…”.

Sembra persino troppo banale, su questo argomento, riportare il nome di Molière e i titoli del Malato immaginario e del Medico per forza. Meglio, tra tante perle rilucenti, ricordare come nel Gargantua si trovino forse le più emblematiche ed esagerate scariche diarroiche della narrativa: Pantagruel, peraltro, era medico e praticò a Lione, Metz e Roma. Come lo era Louis Ferdinand-Céline, che proprio grazie all’esercizio della professione restituì un barlume di senso alla sua travagliatissima esistenza, soprattutto nella fase finale. Nella diaristica potremmo azzardarci a tracciare un altro parallelo tra La doulou, autobiografico resoconto della sifilide che porterà Alphonse Daudet alla morte, e Je ne suis pas sortie de ma nuit in cui Annie Ernaux racconta l’Alzheimer che sta lentamente spegnendo la madre.

Il mal di vivere

I francesi vantano anche un autentico manifesto di uno dei leit-motiv poetici più forti del Romanticismo, la malinconia o mal du siècle: Le confessioni di un figlio del secolo di Alfred de Musset. Per restare nei pressi, troviamo una schiera inesauribile di autori, opere e personaggi iscrivibili nella ‘letteratura della follia’: dalle Memorie di un pazzo di Flaubert ad Antonin Artaud, con la sua vita vissuta tra dipendenze e ricoveri; da Rimbaud, malato sin da giovanissimo e poi paralizzato per una patologia su cui la diagnosi resta incerta tra cancro e sifilide, a Baudelaire, che dedica a Théophile Gautier i suoi Fiori del male definendoli “fleurs maladives”, cioè ‘malaticci’. Ma la tradizione dei maudit di ogni tempo potrebbe proseguire fino a un contemporaneo come Edouard Levé, che dopo aver consegnato Suicidio all’editore si è tolto la vita proprio come l’amico a cui si era ispirato, conferendo così al racconto un drammatico successo.

Sarebbe poi di estremo interesse un approfondimento sul “male di vivere” del ‘900: l’“esistenza ingiustificata”, per dirla con Sartre, che ne La nausea ci regala descrizioni di paradigmatico esistenzialismo: “Passava dal ciottolo nelle mie mani”, “La sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, sono io che sono in essa”. Una scelta narrativa che è inevitabile contrapporre a quella de La peste di Camus. Il romanzo ambientato a Orano è di una precisione clinica assoluta, non a caso è un medico come Bernard Rieux a parlare dell’infezione “capace in tre giorni di tempo di quadruplicare il volume della milza, di dare ai gangli mesenterici il volume di un’arancia e la consistenza della pappa […] Si tratta d’una febbre a carattere tifoide, ma accompagnata da bubboni e da vomiti. Ho praticato l’incisione dei bubboni, si che ho potuto far eseguire delle analisi in cui il laboratorio crede di riconoscere il tozzo microbo della peste. Per dire tutto, aggiungo che certe modificazioni specifiche del microbo non coincidono con la descrizione classica”.

Ma tanta accuratezza è tutt’altro che uno sconto alla valenza allegorica attribuita al terribile flagello che, come una cartina di tornasole, evidenzia i contrasti più stridenti: tra l’indifferenza e la lentezza delle autorità e la violenza devastatrice, tra l’isolamento e la fuga e il disperato inseguimento dei piaceri o almeno della normalità della vita, tra il desiderio di salvarsi e gli inopinati gesti di solidarietà e altruismo, tra chi profitta della peste e chi la considera la nemesi delle colpe umane. L’opera si inserisce così tra le maggiori, per quanto concerne l’archetipo letterario delle epidemie che, affondate le radici nei classici – Edipo re, Iliade, Eneide… –  si ramifica in una serie di capolavori immortali: L’alchimista di Ben Jonson, che attira le proprie vittime durante una pestilenza; il Decamerone, costruito proprio sul contrasto tra l’irriverenza delle cento novelle e dei loro personaggi e l’infuriare del morbo del 1348 descritto nell’introduzione; La peste di Londra, reportage giornalistico dell’epidemia che imperversò nel 1664-5 di Daniel Defoe; I promessi sposi ma anche la Colonna infame di Manzoni.

Da ciascuno di questi autori potremmo ricavare analogie e distinzioni con Camus. Ma il confronto più stimolante, anche per il contesto storico, è con La pelle in cui Malaparte narra “una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa. Lo straordinario carattere di tal nuovissimo morbo era questo: che non corrompeva il corpo, ma l’anima […] una specie di peste morale, contro la quale non pareva vi fosse difesa alcuna”.

Il mal francese

L’ultimo punto che vogliamo indicare quale possibile partenza per un percorso di sicuro interesse è l’agonia dall’esito infausto, utilizzata come escamotage narrativo. Un topos frequentatissimo dagli scrittori, dal quale potremmo inerpicarci in diverse comparazioni: per esempio, tra la morte di Charles Forestier nel Bel Ami e quella di Jean Péloueyre nel Bacio al lebbroso, a cui Guy de Maupassant e Francois Mauriac, rispettivamente, sembrano voler ricorrere per risolvere i loro ménage à trois lasciando ‘campo libero’ alla coppia superstite. Entrambi decideranno invece di proseguire il plot delle loro opere in direzione meno banale.

Potremmo anche affiancare la sorte toccata a Marguerite Gautier nella Signora delle camelie di Dumas a quella della perfida marquise de Merteuil nelle Liaisons dangereuses ordite da Choderlos de Laclos, che la sera stessa della sua espulsione da parte della società “fu presa da una violenta febbre che, in un primo momento, sembrò la conseguenza della brutale scena di cui era stata oggetto; ma ormai non c’è dubbio che si tratta di vaiolo, e in forma violenta. In verità, io penso che per lei sarebbe un bene morire”. La donna viene punita con un evidente contrappasso dopo che la Presidentessa de Tourvel, come madame de Volanges scrive alla signora de Rosemonde, cade vittima di un’affezione per la quale “i medici non sono in grado di pronunciarsi”, anche perché la stessa malata rifiuta ogni cura, fino al punto di “chiamare padre Anselmo, aggiungendo queste parole: ‘Adesso è la sola medicina di cui ho bisogno’”.

Stilemi che ritroviamo nella visione sinottica del Diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos e de Le médecin de campagne di Honoré de Balzac. “Ogni romanzo di Bernanos è un romanzo dell’agonia”, è stato scritto, e indubbiamente tale è la storia del curato che, con puntiglio ma tardivamente e inutilmente, si impegnerà come medico di se stesso dopo che gli viene diagnosticato un tumore allo stomaco. Il Diario diviene la cartella clinica di una malattia che somatizza la mancata integrazione nella comunità del prete e la sua incapacità di reggere l’urto con la malvagità umana, specie dopo il sospetto che una bimba scomparsa sia rimasta vittima di un bruto: “Ho intuito la possibilità di un orribile, duplice delitto […] Rimasto solo, mi sono mosso per stendermi sotto una coperta […] è sopraggiunta mia sorella, la quale mi ha chiesto se mi sentivo male”. Alcuni tratti rimandano a Don Abbondio ma, al contrario del collega manzoniano, il giovane curato di Ambricourt è mosso da estrema compassione.

Nel  Diario, malattia e sofferenza si presentano prima come disagio interiore dell’anima e poi come corruzione del corpo, sono individuali e sociali assieme, giacché investono la borghesia, il potere, la ricchezza, l’indifferenza. Il medico assume il ruolo di un alter ego del prete e quello del malato, più che di chi dovrebbe prendersene cura: l’asociale, emarginato e suicida dottor Delbende dirà al sacerdote “lei ed io siamo della stessa specie”, una frase del tutto analoga a quella del dottor Laville, “Vedendovi, poco fa, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a… di fronte al mio doppio”. In questi personaggi, la morte è il culmine del fallito tentativo di riscattarsi dalle proprie origini umili elevandosi di status culturale e sociale.  

In Balzac la figura del medico prende una fisionomia completamente diversa. Il dottor Bennassis, dopo una vita di delusioni, si ritira nel villaggio presso Grenoble, dove la cura dei cittadini travalica dalla competenza professionale all’impeto missionario e lo porta a diventare sindaco, dando modo a Balzac di tratteggiare un romanzo del ‘buon governo’. Lo stato di povertà in cui Bennassis vive, in “una camera nuda”, fedele a “una vita quasi monastica”, nella “più profonda noncuranza per tutto quello che non era una essenziale necessità” compone una figura quasi irreale, nel finale però il romanzo palesa come il caritatevole medico di campagna non sia mosso da semplice compassione o spirito di sacrificio ma da volontà di espiazione, essendo anch’egli un ‘malato’ afflitto da senso di colpa, dall’angoscia, dai rimorsi di gioventù, per aver sedotto una giovane donna che, rimasta incinta, finì con il suicidarsi.

Se volessimo evidenziare sbrigativamente due differenze, i protagonisti di Bernanos sono destinati alla resa, che nel caso più estremo consiste in un suicidio da cui Balzac parte invece per delineare un percorso riabilitativo. Il dottore creato da quest’ultimo raggiunge il proprio obiettivo mettendosi a capo di una comunità in cui, al contrario, il curato bernanosiano non riuscirà mai a integrarsi. Viene da pensare all’approccio narrativo diametralmente opposto degli Appunti di un giovane medico in cui Michail Bulgakov, lo scrittore celebre soprattutto per Il maestro e Margherita, romanzò i suoi ricordi di fresco laureato in medicina, repentinamente inviato a fronteggiare emergenze di pronto soccorso in una sperduta condotta russa agli albori della rivoluzione bolscevica. La concreta e motivata angoscia del giovane dottore, oltretutto inserita in una contingenza storica epocale e in una collocazione geografica estrema, si traduce in sketch narrativi di leggerezza straordinaria, spesso esilaranti.

Marco Ferrazzoli

[i] Questo saggio rappresenta il semplice stato dell’arte di un lavoro in corso, pertanto – e ce ne scusiamo con i lettori – non sono state indicate fonti né utilizzate note. Si ringraziano per la collaborazione Laura Battisti e Maria Gabriella Esposito.

Quando un medico si vergogna di visitare

L’autore ci conduce in una riflessione sulla relazione tra medico e paziente e sulla capacità, che è quasi una forma d’arte, di identificare cause e cura di un disturbo.

Come mai decine di dottori possono visitare un paziente senza scoprire né la causa dei suoi mali, né tantomeno la cura, e poi un medico riesce a identificare entrambe? Solo perché è più bravo, cioè più preparato diagnosticamente e terapeuticamente, oppure è questione di fortuna, di casualità, di esperienza specifica nella patologia?

Il mistero rimane irrisolto anche dopo la lettura di “Come pensano i dottori” di Jerome Groopman, che però è estremamente interessante per comprendere l’atteggiamento speculare, e spesso analogo, che chi si occupa della salute altrui per mestiere prova davanti alla nostra ansia di tornare a stare bene. Alcune pagine del diario di questo professore della Harvard Medical School – con esperienze anche a Boston, molte pubblicazioni scientifiche e alcuni saggi divulgativi alle spalle – ricordano quelle di Michail Bulgakov, lo scrittore che ebbe la sua prima esperienza professionale come medico condotto, in una desolata landa della Russia stalinista: “Dopo anni di studi ecco la mia reazione di fronte a un malato in carne e ossa: testa vuota e piedi incollati al pavimento”, confessa Groopman ricordando la sua prima notte di guardia. E, con lo stesso candore, ammette altri errori commessi per distrazione, imperizia o addirittura pudore: “’Per oggi basta così, gli avevo detto. Ma non bastava affatto. Avevo tralasciato di chiedergli di girarsi per ispezionargli le natiche e il retto”.

C’è da dire che l’eccesso di confidenza e abitudine che insorge con l’esperienza porta al rischio di errori esattamente come l’inesperienza iniziale. Ecco dunque spiegato come si possa arrivare al caso, narrato nell’introduzione, di Anne Dodge, giunta alla soluzione dei suoi problemi dopo essere stata visitata e curata da ben 30 dottori nell’arco di 15 anni.

Marco Ferrazzoli

Jerome Groopman, “Come pensano i dottori” (Mondadori, 2008)

https://www.mondadoristore.it/Come-pensano-i-dottori-Jerome-Groopman/eai978880457768/