I Demoni

In questa scena del romanzo, un uomo si toglie la vita: Dostoevskij descrive in maniera minuziosa la scenza, ponendo un accento particolare sul sangue e sulla reazione degli accorsi.

Nessuno aveva notato in lui nulla di speciale: era calmo, quieto e affabile. Doveva essersi sparato verso mezzanotte, sebbene, cosa strana, nessuno avesse udito il colpo; se ne erano accorti solo quel giorno, verso l’una, quando dopo aver bussato invano, avevano abbattuto la porta. La bottiglia di Château d’Yquem era stata vuotata a metà; anche d’uva ne rimaneva mezzo piatto. Il colpo era stato sparato
con una piccola rivoltella a tre canne, puntata direttamente al cuore. Di sangue ne era uscito poco; la rivoltella gli era caduta dalle mani sul tappeto. Il ragazzo era mezzo disteso su un angolo del divano. La morte doveva essere stata istantanea; nessun mortale tormento si notava sul suo viso; aveva un’espressione calma, quasi felice, desiderosa di vivere. Tutti i nostri lo contemplavano con avida curiosità. Generalmente in ogni disgrazia del prossimo c’è sempre qualcosa che rallegra l’occhio dell’estraneo, chiunque sia. Le nostre signore guardavano in silenzio, mentre i compagni si distinsero per acume e grande presenza di spirito. Uno osservò che era la miglior fine, e che il ragazzo non avrebbe
potuto escogitare niente di più intelligente; un altro concluse che almeno per un attimo aveva vissuto bene.

Fëdor Dostoevskij

Delitto e Castigo

In questo brano viene descritta la morte di a causa della tubercolosi: l’autore mette in evidenza i sintomi psichici prima della morte della donna.

«Calmatevi, signora, calmatevi,» prese a dire il funzionario. «Venite con me, vi accompagnerò io… Non va
bene così, in mezzo alla folla… Voi vi sentite male…»
«Mio gentile, gentilissimo signore, voi non sapete niente!» gridava Katerìna Ivànovna. «Noi andremo sul
Nèvskij Prospèkt… Sònja, Sònja! Ma dove s’è cacciata? Ecco che piange anche lei! Ma insomma, che cosa avete tutti quanti?… Kòlja, Lènja, dove andate?» esclamò d’un tratto, spaventata. «Oh che sciocchi bambini! Kòlja, Lènja! Ma dove vanno?…»
Era successo che Kòlja e Lènja, spaventati a morte dalla folla e dalle stranezze della madre impazzita, e
vedendo alla fine anche quel soldato che voleva prenderli e portarli chissà dove, a un tratto, come se si fossero messi d’accordo, s’erano afferrati per la mano e se l’eran data a gambe. Katerìna Ivànovna si slanciò, urlando e piangendo, al loro inseguimento. Era uno spettacolo penoso vederla correre, così tutta in pianto e ansimante. Sònja e Pòleèka le corsero dietro.
«Sònja, falli tornare indietro, falli tornare! Che bambini sciocchi e ingrati!… Pòlja! Acchiappali!… Ma se è per voi che io…»
Inciampò in piena corsa e cadde.
«Si è fatta male, sanguina! Oh, Signore!» esclamò Sònja, che si era chinata su di lei.
Tutti accorsero e le si fecero intorno. Raskòlnikov e Lebezjàtnikov furono tra i primi ad accorrere; anche il
funzionario sopraggiunse in fretta, seguito dalla guardia che borbottava: «Che guaio!» facendo un gesto seccato con la mano, convinto ormai che la faccenda gli avrebbe procurato delle noie.
«Circolare! Circolare!» diceva respingendo la gente che si affollava tutt’intorno.
«Sta morendo!» gridò uno.
«È impazzita!» disse un altro.
«Signore, proteggili!» disse una donna, facendosi il segno della croce. «E li hanno poi ripresi, la ragazzina e il bimbo? Eccoli lì, li ha acchiappati quella più grande… Però, che bambini balordi!»
Ma quando ebbero esaminato più attentamente Katerìna Ivànovna, si accorsero che non si era affatto ferita contro una pietra, come aveva pensato Sònja: il sangue che aveva arrossato il selciato le era sgorgato dal petto e dalla
bocca.
«So bene cos’è, l’ho già visto,» mormorava il funzionario a Raskòlnikov e a Lebezjàtnikov. «È la tubercolosi; il
sangue viene fuori e ti soffoca. L’ho già visto coi miei occhi, è accaduto non molto tempo fa a una mia parente; ne sarà
venuto fuori un bicchiere e mezzo… all’improvviso… Ma che dobbiamo fare, visto che sta morendo?»

Fëdor Dostoevskij

Alle soglie

In questo componimento Guido Gozzano, all’epoca molto malato , descrive l’inquietudine provocata dalle visite mediche alle quali viene sottoposto e l’arrendevolezza al possibile incontro con “quella Signora dall’uomo detta la Morte”.

I.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori

sovente qualcuno che picchia, che picchia… Sono i dottori.

Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,

m’auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro.

E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli.

“Appena un lieve sussulto all’apice… qui… la clavicola…”

E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.

“Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più insonne…

non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi:

Nervi… Rapallo… San Remo… cacciare la malinconia;

e se permette faremo qualche radioscopia…”

II.

O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,

la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?

Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,

trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace

e l’ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco

disegna il profilo d’un bosco, coi minimi intrichi dei rami.

E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.

III.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

mio cuore dubito forte– ma per te solo m’accora –

che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte.

(Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo

le danno un nome, che, credo, esprima una cosa non tetra.)

È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.

Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.

Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;

ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.

Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;

né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.

Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,

sereno come uno sposo e placido come un novizio.

Guido Gustavo Gozzano. “Alle soglie”. (I colloqui. Traves,1911)