Sette piani

Giuseppe Corte è ricoverato al settimo piano di un celebre sanatorio. Qui vengono ricoverati i pazienti meno gravi. Giuseppe Corte è tranquillo fino a quando, con garbo, non è invitato a spostarsi al sesto piano.

Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell’unica malattia. Ciò garantiva un’eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazioni d’impianti.

[…] ebbe un ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d’albergo. Tutt’attorno era una cinta di alti alberi. 

Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. […] tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante.

[…]la sua strana caratteristica di quell’ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare.

Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un’atmosfera omogenea. D’altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.

[…] Giuseppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane abbassate dal primo piano. Le fissava con un’intensità morbosa, cercando di immaginare i funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano confinati a morire, e si sentiva sollevato di sapersene così lontano.

[…] il sanitario gli rivolse parole cordiali e incoraggianti. Un principio di male c’era-gli disse- ma leggerissimo; in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato.

<<E allora resto al settimo piano?>> aveva domandato ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto. 

<<Ma naturalmente!>> gli aveva risposto il medico battendogli amichevolmente una mano su una spalla. <<E dove pensava di dover andare? Al quarto forse? >> chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda.

<<Meglio così, meglio così>> fece il Corte. <<Sa? Quando si è ammalati si immagina sempre il peggio…>>

[…] erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presentò il capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all’ospedale una signora con due bambini; due camere erano libere, proprio di fianco alla sua ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi in un’altra camera, altrettanto confortevole?

[…] Guardi che bisogna scendere al piano di sotto>> aggiunge con voce attenuata come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile. <<Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una sistemazione assolutamente provvisoria>> si affrettò a specificare vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta.

[…] Mi spiego: l’intensità del male è minima, ma considerevole l’ampiezza; il processo distruttivo delle cellule>> era la prima volta che Giuseppe Corte sentiva là dentro quella sinistra espressione <<il processo distruttivo delle cellule è assolutamente agli inizi, forse non è neppure cominciato, ma tende, dico solo tende, a colpire contemporaneamente vaste porzioni dell’organismo.

[…] si manifestò sulla gamba una specie di eczema, che non accennò a riassorbirsi nei giorni successivi. Era un’affezione -gli disse il medico- che poteva capitare alla persona più sana del mondo. Ci sarebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi gamma.

Dino Buzzati

Premio Strega

Dino Buzzati, I sessanta racconti (1958)

Padiglione cancro

Accettare una diagnosi di cancro è dura anche per Pàvel Nikolàevic, che si trova proprio nel padiglione cancro dell’ospedale di una città dell’Asia centrale.

Di fuori entrò un contadino che portava un barattolo da mezzo litro, con sopra un’etichetta, quasi pieno di un liquido giallo. E non cerca di nasconderlo, ma lo teneva alto dinnanzi a sé come un boccale di birra conquistato dopo una lunga coda. Proprio davanti a Pàvel Nikolàevic , quasi tendendogli quel suo barattolo, l’uomo si fermò per domandare qualcosa, ma poi vide il berretto di lontra e si rivolse a un ammalato con le stampelle, che era un po’ più in là:

“Ehi, amico! Dove si porta questo?”

L’uomo senza una gamba gli indicò la porta del laboratorio.

Pàvel Nikolàevic aveva la nausea.

“Ah, ecco un altro cancretto”.

Pàvel Nikolàevic non ritenne opportuno rispondere a tanta familiarità. Sentiva che tutta la stanza lo stava fissando, ma non aveva voglia di guardare a sua volta quella gente, con cui si trovava per caso, e tanto meno di salutarla. Fece solo un gesto in aria, come per dire al rosso di farsi da parte. Questi lasciò passare Pàvel Nikolàevic e di nuovo si volse, con tutto il corpo e quella sua testa inchiodata:

“Senti, fratello, che cancro hai, tu?”, domandò con voce roca.

Questa domanda colpì in pieno Pàvel Nikolàevic, che già era arrivato al suo letto. Alzò gli occhi sull’impudente, e, sforzandosi di non uscire dai gangheri (ma le sue spalle sussultarono), disse con dignità:

“Nessuno. Non è affatto cancro, il mio”.

Il rosso sbuffò e sentenziò per tutta la corsia:

“Ecco un idiota! E che l’avrebbero mandato qui, se non aveva il cancro?”

Solženicyn Aleksandr Isaevič 

Treccani Enciclopedia Online

Solženicyn Aleksandr Isaevič, Padiglione cancro (1966)

Le Carré John-Chiamata per il morto

Nella narrativa di genere e/o di maniera che spopola nelle classifiche dei best-seller, le scene ospedaliere abbondano. In questo romanzo di Le Carré ritroviamo, per esempio, un classico arrivo all’ospedale:

 

“Mendel lo guardò e si chiese se fosse morto. Vuotò le tasche del suo soprabito e lo posò delicatamente sulle spalle di Smiley. Poi corse, corse come un pazzo all’ospedale, si precipitò fragorosamente attraverso la porta a vento del reparto esterni ed entrò nella parte illuminata riservata ai degenti. Era di servizio un giovane medico di colore. Mendel gli fece vedere la sua tessera, gli gridò qualcosa, lo afferrò per un braccio e tentò di trascinarlo sulla strada. Il medico sorrise paziente, scosse la testa e telefonò per chiamare un’ambulanza”.

 

John Le Carré, Chiamata per il morto, Garzanti, Milano, 1978-79 (1961)

Il piccolo malato di Cronin

Il destino di Yu era segnato: sotto lo sguardo di tre medici barbuti, lo attendevano dolore e ferite. L’estratto dell’opera “Le chiavi del regno” di Archibald Joseph Cronin evidenziano la missione della cura del malato.

[…] La camera del piccolo malato era immersa nella penombra. Cià Yu era coricato sopra una Kang riscaldato, sotto gli sguardi di tre medici barbuti avvolti in lunghi roboni, e seduti su stuoie di vimini. Di quando in quando uno dei medici si piegava sul busto e lasciava cadere un pezzo di carbone nel kang scatoliforme. A un angolo della stanza un prete taoista avvolto in una veste color lavagna borbottava preghiere ed esorcismi, con accompagnamento di flauti dietro la tramezza di bambù.

Yu era un grazioso bambino di sei anni, dalla carnagione morbida e giallina e occhi d’antracite. Allevato secondo le più strette tradizioni del rispetto filiale, era adorato, ma non viziato. Adesso, consumato da una febbre divorante e dalla terribile novità del dolore, giaceva sul dorso con le ossa che sembravano dovergli bucare la pelle. Il braccio destro, livido, mostruosamente enfiato e tumefatto, era incasellato in un orribile plastico di sporcizia mista a frammenti di carta.

[…] Curvo sul bambino privo ormai di conoscenza, Francesco valutò nel suo giusto valore quella marmorea immobilità sacerdotale. I suoi guai attuali sarebbero stati meno che niente, a petto della persecuzione che sarebbe seguita se il suo intervento falliva. Ma le disperate condizioni del ragazzo, e quell’insolente pretesa di cura agirono ugualmente su di lui come una frustata, con gesti rapidi e delicati tolse dal braccio infetto lo Hao kao, il lurido bendaggio che aveva così spesso visto nei poveri che accorrevano al suo dispensario; poi, liberato il braccio, lo lavò in acqua calda. Nella bacinella l’arto quasi galleggiava, vescica gonfia di pus che dava alla pelle un colore verdognolo. A Francesco il cuore faceva ora un gran battere, ma senza esitare cavò dalla tasca l’astuccio di cuoio ricevuto dall’amico Tulloch, e ne trasse un bisturi. Non si illudeva sulle sue capacità, ma sapeva anche che se non incideva profondamente nel braccio del bambino giù moribondo, il destino del poveretto era segnato.

[…] Un gran fiotto di materia putrida sgorgò dalla ferita e colò denso nel vaso di coccio pronto a riceverlo. Un puzzo orribile riempì l’aria. Mai tuttavia Francesco aveva sentito odore con maggiore letizia.

Archibald Joseph Cronin

Adattamento radiofonico in cinque puntate del romanzo “Le Chiavi del Regno” di Archibald Joseph Cronin 

Archibald Joseph Cronin, “Le chiavi del regno” (1941, Bompiani)

Guglielmo Petroni – Le macchie di Donato

L’approccio alla cecità in modo opposto: cosa significa riprendere la vista? E’ sempre una rivelazine, un miglioramento…oppure no?

 

Nel racconto “le macchie di Donato” Petroni  tratta  di un accessorio essenziale ma poco citato: gli occhiali: “Mi hai rovinato”, è la frase dell’amico Pilade che richiama dopo una serie di insulti. L’amico, vero amico, corre a trovarlo per capire. “Si mise una mano in tasca e tirò fuori un paio d’occhiali in un astuccio di pelle. ‘Vedi, dopo tanti anni ho seguito il tuo consiglio… Quando sono uscito dall’ottico e mi sono messo gli occhiali, per prima cosa ho veduto gli alberi di piazza Cavour. Tu sai quanto ami il verde e tutti gli aspetti della natura, ma questa volta ne sono rimasto rivoltato: le belle masse sfumate col cielo, con le cose circostanti, le sfumature di colore, i tenui passaggi che ho tanto amato non esistevano più… Un mondo così crudo mi è venuto incontro, volgare in confronto a quello che io conosco”. E’ un’ironia leggera, poiché riferita all’acquisto degli occhiali, ma che in forma più  grave si ritrova anche in chi ritrova la vista dopo la cecità, e si deve confrontare con un mondo sconosciuto, e nn sempre positivo.

 

Guglielmo Petroni

Le macchie di Donato

1968, Editore Bietti, collana il girasole

La rappresentazione della malattia negli autori francesi

La salute, nelle due facce della malattia e della medicina, della sofferenza e della cura, ricorre in tutte le letterature, spesso componendo un poliedro sfaccettatissimo. La letteratura francese non fa eccezione e anzi spalanca un panorama immenso, come delineato dagli spunti di questo breve saggio.

La salute, nelle due facce della malattia e della medicina, della sofferenza e della cura, ricorre in tutte le letterature con frequenza e rilevanza comparabili solo a quelle di pochi altri grandi temi esistenziali; e compone un poliedro sfaccettatissimo, qualunque punto di osservazione si assuma e qualunque prospettiva si traguardi: quelli dei personaggi, della trama, delle biografie degli autori, dell’uso metaforico o realistico del tema… La letteratura francese non può evidentemente fare eccezione e anzi spalanca un panorama immenso, in cui non è facile orientarsi né stabilire un percorso: limitiamoci pertanto, in questa sede, ad additare una serie di spunti utili per avventurarsi in successive esplorazioni[i].

Il mal di scrivere

Pensiamo solo al mare magnum della Recherche, dove anche una navigazione del tutto random ci fa continuamente imbattere in espressioni, metafore, descrizioni che non possiamo leggere senza ricordare come Proust associ una salute cagionevole all’essere figlio (oltre che fratello) di un medico: quell’Adrien che, all’epoca, vantava la fama di luminare per essersi distinto nell’adozione di un cordone sanitario con cui proteggere l’Europa dall’epidemia di colera del 1866. Come se in famiglia gli fosse spettato il ‘ruolo’ di malato, Marcel muore all’età di 51 anni per una polmonite che si era sostanzialmente rifiutato di curare, quasi in ossequio al suo professato scetticismo verso la medicina. Ad attestare questo suo duplice, controverso coinvolgimento sul tema basti questo brevissimo campionario di aforismi: “Come si dice in chirurgia, il suo amore non era più operabile” leggiamo in Dalla parte di Swann; ne I Guermantes che “Essendo la medicina un compendio degli errori successivi e contraddittori dei medici […] credere alla medicina sarebbe la suprema follia, se non credervi non fosse una ancora più grande”; in Sodoma e Gomorra che “La medicina ha compiuto alcuni piccoli progressi nelle sue conoscenze dai tempi di Moliére, ma nessuno nel vocabolario”; in Albertine scomparsa che “Ci si sente più vicini a chi ha le nostre stesse malattie”.

Potremmo rinvenire altri ricchissimi filoni di citazioni nelle miniere di Émile Zola e Victor Hugo, solo che si esplorino il Ventre di Parigi o I miserabili. Ma, per restare a Hugo, limitiamoci a ricordare come Notre Dame de Paris sia più popolarmente nota con il titolo de Il gobbo di Notre Dame, dato l’imporsi della figura di Quasimodo. Nell’affollato e prestigioso parterre delle deformità descritti nei classici è però doveroso quotare almeno un altro francese, il Cyrano di Edmond Rostand, e una delle scene più celebri della letteratura teatrale di ogni tempo (alla pari con la dichiarazione amorosa resa sotto il balcone di Rossana), quella che principia con la battuta di Valvert “Voi… voi avete un naso, ecco, un naso molto grande” e prosegue: “Ce n’erano di cose da dire sul mio naso – diamine! – e di toni da sfoggiare! Per esempio, vediamo…”.

Sembra persino troppo banale, su questo argomento, riportare il nome di Molière e i titoli del Malato immaginario e del Medico per forza. Meglio, tra tante perle rilucenti, ricordare come nel Gargantua si trovino forse le più emblematiche ed esagerate scariche diarroiche della narrativa: Pantagruel, peraltro, era medico e praticò a Lione, Metz e Roma. Come lo era Louis Ferdinand-Céline, che proprio grazie all’esercizio della professione restituì un barlume di senso alla sua travagliatissima esistenza, soprattutto nella fase finale. Nella diaristica potremmo azzardarci a tracciare un altro parallelo tra La doulou, autobiografico resoconto della sifilide che porterà Alphonse Daudet alla morte, e Je ne suis pas sortie de ma nuit in cui Annie Ernaux racconta l’Alzheimer che sta lentamente spegnendo la madre.

Il mal di vivere

I francesi vantano anche un autentico manifesto di uno dei leit-motiv poetici più forti del Romanticismo, la malinconia o mal du siècle: Le confessioni di un figlio del secolo di Alfred de Musset. Per restare nei pressi, troviamo una schiera inesauribile di autori, opere e personaggi iscrivibili nella ‘letteratura della follia’: dalle Memorie di un pazzo di Flaubert ad Antonin Artaud, con la sua vita vissuta tra dipendenze e ricoveri; da Rimbaud, malato sin da giovanissimo e poi paralizzato per una patologia su cui la diagnosi resta incerta tra cancro e sifilide, a Baudelaire, che dedica a Théophile Gautier i suoi Fiori del male definendoli “fleurs maladives”, cioè ‘malaticci’. Ma la tradizione dei maudit di ogni tempo potrebbe proseguire fino a un contemporaneo come Edouard Levé, che dopo aver consegnato Suicidio all’editore si è tolto la vita proprio come l’amico a cui si era ispirato, conferendo così al racconto un drammatico successo.

Sarebbe poi di estremo interesse un approfondimento sul “male di vivere” del ‘900: l’“esistenza ingiustificata”, per dirla con Sartre, che ne La nausea ci regala descrizioni di paradigmatico esistenzialismo: “Passava dal ciottolo nelle mie mani”, “La sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, sono io che sono in essa”. Una scelta narrativa che è inevitabile contrapporre a quella de La peste di Camus. Il romanzo ambientato a Orano è di una precisione clinica assoluta, non a caso è un medico come Bernard Rieux a parlare dell’infezione “capace in tre giorni di tempo di quadruplicare il volume della milza, di dare ai gangli mesenterici il volume di un’arancia e la consistenza della pappa […] Si tratta d’una febbre a carattere tifoide, ma accompagnata da bubboni e da vomiti. Ho praticato l’incisione dei bubboni, si che ho potuto far eseguire delle analisi in cui il laboratorio crede di riconoscere il tozzo microbo della peste. Per dire tutto, aggiungo che certe modificazioni specifiche del microbo non coincidono con la descrizione classica”.

Ma tanta accuratezza è tutt’altro che uno sconto alla valenza allegorica attribuita al terribile flagello che, come una cartina di tornasole, evidenzia i contrasti più stridenti: tra l’indifferenza e la lentezza delle autorità e la violenza devastatrice, tra l’isolamento e la fuga e il disperato inseguimento dei piaceri o almeno della normalità della vita, tra il desiderio di salvarsi e gli inopinati gesti di solidarietà e altruismo, tra chi profitta della peste e chi la considera la nemesi delle colpe umane. L’opera si inserisce così tra le maggiori, per quanto concerne l’archetipo letterario delle epidemie che, affondate le radici nei classici – Edipo re, Iliade, Eneide… –  si ramifica in una serie di capolavori immortali: L’alchimista di Ben Jonson, che attira le proprie vittime durante una pestilenza; il Decamerone, costruito proprio sul contrasto tra l’irriverenza delle cento novelle e dei loro personaggi e l’infuriare del morbo del 1348 descritto nell’introduzione; La peste di Londra, reportage giornalistico dell’epidemia che imperversò nel 1664-5 di Daniel Defoe; I promessi sposi ma anche la Colonna infame di Manzoni.

Da ciascuno di questi autori potremmo ricavare analogie e distinzioni con Camus. Ma il confronto più stimolante, anche per il contesto storico, è con La pelle in cui Malaparte narra “una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa. Lo straordinario carattere di tal nuovissimo morbo era questo: che non corrompeva il corpo, ma l’anima […] una specie di peste morale, contro la quale non pareva vi fosse difesa alcuna”.

Il mal francese

L’ultimo punto che vogliamo indicare quale possibile partenza per un percorso di sicuro interesse è l’agonia dall’esito infausto, utilizzata come escamotage narrativo. Un topos frequentatissimo dagli scrittori, dal quale potremmo inerpicarci in diverse comparazioni: per esempio, tra la morte di Charles Forestier nel Bel Ami e quella di Jean Péloueyre nel Bacio al lebbroso, a cui Guy de Maupassant e Francois Mauriac, rispettivamente, sembrano voler ricorrere per risolvere i loro ménage à trois lasciando ‘campo libero’ alla coppia superstite. Entrambi decideranno invece di proseguire il plot delle loro opere in direzione meno banale.

Potremmo anche affiancare la sorte toccata a Marguerite Gautier nella Signora delle camelie di Dumas a quella della perfida marquise de Merteuil nelle Liaisons dangereuses ordite da Choderlos de Laclos, che la sera stessa della sua espulsione da parte della società “fu presa da una violenta febbre che, in un primo momento, sembrò la conseguenza della brutale scena di cui era stata oggetto; ma ormai non c’è dubbio che si tratta di vaiolo, e in forma violenta. In verità, io penso che per lei sarebbe un bene morire”. La donna viene punita con un evidente contrappasso dopo che la Presidentessa de Tourvel, come madame de Volanges scrive alla signora de Rosemonde, cade vittima di un’affezione per la quale “i medici non sono in grado di pronunciarsi”, anche perché la stessa malata rifiuta ogni cura, fino al punto di “chiamare padre Anselmo, aggiungendo queste parole: ‘Adesso è la sola medicina di cui ho bisogno’”.

Stilemi che ritroviamo nella visione sinottica del Diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos e de Le médecin de campagne di Honoré de Balzac. “Ogni romanzo di Bernanos è un romanzo dell’agonia”, è stato scritto, e indubbiamente tale è la storia del curato che, con puntiglio ma tardivamente e inutilmente, si impegnerà come medico di se stesso dopo che gli viene diagnosticato un tumore allo stomaco. Il Diario diviene la cartella clinica di una malattia che somatizza la mancata integrazione nella comunità del prete e la sua incapacità di reggere l’urto con la malvagità umana, specie dopo il sospetto che una bimba scomparsa sia rimasta vittima di un bruto: “Ho intuito la possibilità di un orribile, duplice delitto […] Rimasto solo, mi sono mosso per stendermi sotto una coperta […] è sopraggiunta mia sorella, la quale mi ha chiesto se mi sentivo male”. Alcuni tratti rimandano a Don Abbondio ma, al contrario del collega manzoniano, il giovane curato di Ambricourt è mosso da estrema compassione.

Nel  Diario, malattia e sofferenza si presentano prima come disagio interiore dell’anima e poi come corruzione del corpo, sono individuali e sociali assieme, giacché investono la borghesia, il potere, la ricchezza, l’indifferenza. Il medico assume il ruolo di un alter ego del prete e quello del malato, più che di chi dovrebbe prendersene cura: l’asociale, emarginato e suicida dottor Delbende dirà al sacerdote “lei ed io siamo della stessa specie”, una frase del tutto analoga a quella del dottor Laville, “Vedendovi, poco fa, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a… di fronte al mio doppio”. In questi personaggi, la morte è il culmine del fallito tentativo di riscattarsi dalle proprie origini umili elevandosi di status culturale e sociale.  

In Balzac la figura del medico prende una fisionomia completamente diversa. Il dottor Bennassis, dopo una vita di delusioni, si ritira nel villaggio presso Grenoble, dove la cura dei cittadini travalica dalla competenza professionale all’impeto missionario e lo porta a diventare sindaco, dando modo a Balzac di tratteggiare un romanzo del ‘buon governo’. Lo stato di povertà in cui Bennassis vive, in “una camera nuda”, fedele a “una vita quasi monastica”, nella “più profonda noncuranza per tutto quello che non era una essenziale necessità” compone una figura quasi irreale, nel finale però il romanzo palesa come il caritatevole medico di campagna non sia mosso da semplice compassione o spirito di sacrificio ma da volontà di espiazione, essendo anch’egli un ‘malato’ afflitto da senso di colpa, dall’angoscia, dai rimorsi di gioventù, per aver sedotto una giovane donna che, rimasta incinta, finì con il suicidarsi.

Se volessimo evidenziare sbrigativamente due differenze, i protagonisti di Bernanos sono destinati alla resa, che nel caso più estremo consiste in un suicidio da cui Balzac parte invece per delineare un percorso riabilitativo. Il dottore creato da quest’ultimo raggiunge il proprio obiettivo mettendosi a capo di una comunità in cui, al contrario, il curato bernanosiano non riuscirà mai a integrarsi. Viene da pensare all’approccio narrativo diametralmente opposto degli Appunti di un giovane medico in cui Michail Bulgakov, lo scrittore celebre soprattutto per Il maestro e Margherita, romanzò i suoi ricordi di fresco laureato in medicina, repentinamente inviato a fronteggiare emergenze di pronto soccorso in una sperduta condotta russa agli albori della rivoluzione bolscevica. La concreta e motivata angoscia del giovane dottore, oltretutto inserita in una contingenza storica epocale e in una collocazione geografica estrema, si traduce in sketch narrativi di leggerezza straordinaria, spesso esilaranti.

Marco Ferrazzoli

[i] Questo saggio rappresenta il semplice stato dell’arte di un lavoro in corso, pertanto – e ce ne scusiamo con i lettori – non sono state indicate fonti né utilizzate note. Si ringraziano per la collaborazione Laura Battisti e Maria Gabriella Esposito.

Il laico Soldati va a Lourdes

Appena ventottenne, Mario Soldati intraprende un viaggio a Lourdes per un’inchiesta giornalistica: il risultato è un reportage disincantato e, a tratti, spietato.

Nel 1934 Mario Soldati intraprese un viaggio a Lourdes: non per devozione, ma per un’inchiesta giornalistica.

Uno scrittore laico e un luogo di fede e di miracoli, raccontati con rigidissimi parametri razionalistici che oggi farebbero inorridire gli ‘atei devoti’ o i ‘teo-con’. Soldati non nasconde i suoi pregiudizi, li rivendica, con un’onestà intellettuale che nella Torino del tempo costituisce un coraggioso atto di anticonformismo.

Gli preme di evidenziare il classismo che il pellegrinaggio non annulla certo. Alla partenza, in mezzo alla città che conta, sparge subito sarcasmo a piene mani: “Di colpo, irrimediabilmente, mi trovai in mezzo ai preti” e a “poveri speciali, sono poveri cattolici”. Mette in discussione la sussiegosa filantropia cittadina, erede di De Amicis (un laico socialista, per inciso) più che di Don Bosco, ma – come un investigatore del Cicap a un congresso di guaritori – osserva criticamente anche la fede popolare.

Il pellegrinaggio è sofferenza e sacrificio solo per pochi malati gravissimi e per tutti gli altri, infermi inclusi, è occasione di fare un viaggio, “di divertirsi senza far nulla di male, compiendo anzi un’opera santa, acquistando meriti del Paradiso” scrive, sottolineando una contaminazione tra devozione e svago che non si capisce dove sia contraddittoria.

A Lourdes, il ventottenne Soldati trova una città allegra e continua a scandalizzarsi: “Se Assisi porta l’impronta dello spirito, Lourdes porta quella dello spiritismo”. Ma davvero il mistero deve necessariamente incarnarsi sempre nella semplicità francescana? Mettendo a fuoco il misticismo con lo sguardo spietato e disincantato del reportage, l’autore non vede ciò che non può vedere. ‘Un viaggio a Lourdes’ è accompagnato, in questa nuova edizione, da tre documenti che lo completano e lo spiegano.

Di Soldati, nel centenario della nascita, si ricorda anche l’uscita del Meridiano Mondadori che raccoglie cinque romanzi, di due Oscar (‘Vino al vino’ e ‘Le due città’), di ‘Un sorso di Gattinara e altri racconti’ per Interlinea e, infine, di ‘Amori miei’, raccolta di contributi edita da La Stampa.

Un profluvio di testi, doveroso omaggio a un grande protagonista della cultura italiana del ‘900.

Marco Ferrazzoli

Mario Soldati, “Un viaggio a Lourdes” (a cura di Salvatore Silvano Nigro, Sellerio editore Palermo, 2006)

La scheda sul sito dell’editore

Queneau e il suo romanzo… con meteo

L’epopea della famiglia Nabonide in un’opera visionaria e avventurosa, scritta nell’arco di quindici anni.

L’uscita di “Tempi duri, Saint Glinglin!” è un’operazione di coraggiosa raffinatezza letteraria, e smentisce l’assioma editoriale classista che riduce la Newton a semplice ‘ristampatrice’ di classici in volumoni a prezzo stracciato, su carta scadente e in corpi tipografici illeggibili. Il romanzo di Raymond Queneau esce nella collana dei “Grandi tascabili economici” con introduzione del critico letterario Renato Minore, traduzione e postfazione di Francesco Bergamasco, che si è sobbarcato un lavoro non semplice.

L’autore francese è notoriamente bizzarro e irregimentabile nei canoni letterari tradizionali. Ma mentre la sua fantasia, in opere come il celeberrimo “Esercizi di stile”, può essere seguita con divertito alleggerimento, in “Saint Glinglin” la complessità dell’opera richiede al lettore un impegno notevole, essendo frutto di una gestazione durata ben 15 anni, dal 1933 al ’48, e di una ispirazione dichiaratamente joyciana: ‘Ho voluto imitare l’Ulisse, cioè un romanzo con una struttura, con una forma fissa’, scrive Queneau a una lettrice. A tanto, si aggiungano poi le eruzioni lessicali e stilistiche tipiche dello scrittore e alcuni problemi di traduzione, a cominciare da quello che rischia di far equivocare il titolo: Saint Glinglin, cui è dedicata la ricorrenza che scandisce il tempo nella Città Natale, deriva da un’espressione che significa ‘alle calende greche’ o, come si direbbe gergalmente a Roma, ‘il giorno del poi, l’anno del mai’.

L’avventura è dunque ardua, ma interessante, e corredata da alcuni elementi di particolare curiosità come l’azione del coprotagonista Jean, che ha elaborato un sistema per far cambiare il tempo. Con il risultato che nella Città Natale non piove più.

Marco Ferrazzoli

Raymond Queneau, “Tempi duri, Saint Glinglin!” (Newton, 2007)

Un tunnel psicanalitico mitteleuropeo

Un’opera che rappresenta un viaggio personale e al tempo stesso storico, popolata da un dedalo di personaggi testimoni della complessità e delle atrocità del ventesimo secolo.

Un uomo rimasto solo al mondo si rivolge a una chiromante per entrare in contatto con il padre e il fratello defunti. La truffatrice lo imbroglia, sottraendogli tutti i beni, ma il protagonista riesce a rifarsi una vita in capo a cinque anni di duro lavoro. L’11 agosto 1999, assiste all’ultima eclissi solare del millennio. Poi ricorre alla psicanalisi.

È quasi dadaista, la trama di ‘Nel regno oscuro’ di Giorgio Pressburger. Il lettore che vuol affrontare il libro deve accettarne il plot caleidoscopico, degno delle scale di Escher. Per dare almeno una dimensione quantitativa della complessità di quest’opera, si tenga conto che in 330 pagine si ammassano ben 902 note. Viene in mente, a tratti, il ben più lineare ‘La malattia chiamata uomo’ di Ferdinando Camon, e il collegamento non dev’essere casuale, considerato che si tratta di due scrittori mitteleuropei, dunque provenienti della koinè che ci ha dato anche Svevo, Freud e Basaglia.

Non è questa, però, la sede nella quale indagare le complesse ragioni per le quali l’ex ombelico del mondo ha prodotto – durante la sua crisi epocale, che chiude non solo l’impero asburgico ma il predominio europeo sul pianeta – una fioritura culturale così ombelicale, lo studio tanto appassionato del sé e delle sue contraddizioni. Limitiamoci a segnalare, a chi ne fosse attratto, quest’opera nella quale il Novecento prende la forma di un inferno dantesco, popolato da persone imprigionate, uccise, torturate, suicide, sofferenti. Un tunnel che però prelude a una uscita insperata: il protagonista si avvia lentamente verso la guarigione, intravedendo nell’ultima seduta psicanalitica i suoi cari scomparsi.

Chi abbia una anche minima dimestichezza con tali questioni, sa bene che si tratta di un messaggio di straordinario ottimismo, anche se (anzi: proprio perché) in calce a un’opera tanto cupa, rispetto a una casistica reale che vede spesso i percorsi analitici non approdare a nessun risultato concreto.

Marco Ferrazzoli

Giorgio Pressburger, “Nel regno oscuro” (Bompiani, 2008)

https://www.bompiani.it/catalogo/nel-regno-oscuro-9788845261602

La magia del Sud scoperta da De Martino


Nel 1959 l’equipe guidata dall’antropologo Ernesto De Martino raccolse interviste a donne e uomini colpiti da tarantismo, restituendo uno studio accurato e affascinante del fenomeno e delle sue ritualità.

 

Riletta a mezzo secolo di distanza, l’etnologia di Ernesto De Martino conserva il suo fascino intatto, se non aumentato, ma insieme denuncia la propria vetustà. Non soltanto perché l’oggetto degli studi del maestro napoletano, nel frattempo, è stato completamente stravolto, potremmo dire estirpato, ma soprattutto perché oggi sarebbe impensabile riproporre un approccio scientifico come quello adottato ne ‘La terra del rimorso’.

Il Saggiatore pubblica questo testo in una nuova edizione, arricchita da un dvd contenente la masterizzazione del disco con i commenti demartiniani, originariamente uscito in vinile, un documento sonoro realizzato da Diego Carpitella e il video dello stesso Carpitella nell’edizione restaurata del 1995. ‘La terra del rimorso’ tratta di tarantismo, particolare e misteriosa forma rituale diffusa all’epoca in Puglia, una sorta di danza che viene condotta con accompagnamento di un gruppo di suonatori, dalla motivazione apotropaica e offertoria (al finale si porta la somma raccolta ad una cappella dedicata ad un Santo). L’iter è documentato in un inserto fotografico, altro utile contributo di quest’edizione, insieme con un apparato critico aggiornato.

Rispetto ai tempi di questa “spedizione etnografica”, il Salento è cambiato non solo nella sostanza – l’evoluzione socio-economica, l’industrializzazione, il turismo, la globalizzazione… – ma anche nella stessa rappresentazione di certe tradizioni, ormai adattate (o, forse, omologate) alla società post-moderna. La taranta oggi è oggetto di un Festival ad alto richiamo turistico e costituisce, insieme con i Negramaro (intesi sia come gruppo musicale, sia come vitigno), parte dell’immagine esotica e viscerale, calda e forte che rende quest’angolo di Puglia tanto amato e visitato.

Ai tempi di De Martino, invece, questa terra e la sua religiosità venivano approcciate appunto con atteggiamento ‘etnologico’, volto a verificare i retaggi di tradizioni ancestrali, con la stessa curiosità che si dedicava allo sciamanesimo asiatico o africano. Tant’è che De Martino nella sua missione si fa accompagnare da uno psichiatra, uno psicologo, un musicologo e un sociologo: da un lato dando prova di un atteggiamento multidisciplinare intelligente e anticipatorio, almeno per l’Italia, dall’altro denotando la convinzione che talune forme di contatto con il ‘sacro’ rimandassero a un ambito nel quale si sfumano persino i contorni della sanità mentale. E comunque, il mito in questo caso viene inevitabilmente legato con le crisi reali di latrodectismo, l’avvelenamento causato da vedova nera o malmignatta: il cosiddetto ‘morso della taranta’.

Nel Salento, De Martino e i suoi vanno con la curiosità culturale di rinvenire e registrare un pezzo di “mondo magico”, confermando la permanenza nell’Occidente ‘avanzato’ di un mondo ‘altro’ rispetto a quello delle Chiese ufficiali ma a queste ricondotto: la taranta, infatti, viene in qualche modo assorbita nella ritualità cattolica. Di tale impostazione etnografica resta nel libro, sin dal sottotitolo “Contributo a una storia religiosa del Sud”, una traccia insieme valida e datata.


Marco Ferrazzoli

 

Ernesto De Martino, “La terra del rimorso” (Il Saggiatore, 2009)

https://www.ilsaggiatore.com/libro/la-terra-del-rimorso-4/