I Fiori del Male

Baudelaire descrive nella poesia proemiale della sua opera poetica la malattia più pericolosa che infetta il corpo umano e sociale: la noia.

AL LETTORE
La stoltezza, l’errore, il peccato, l’avarizia, abitano i nostri spiriti e agitano i nostri corpi; noi nutriamo amabili rimorsi come i mendicanti alimentano i loro insetti.
I nostri peccati sono testardi, vili i nostri pentimenti; ci facciamo pagare lautamente le nostre confessioni e ritorniamo gai pel sentiero melmoso, convinti d’aver lavato con lagrime miserevoli tutte le nostre macchie.
È Satana Trismegisto che culla a lungo sul cuscino del male il nostro spirito stregato, svaporando, dotto chimico, il riccometallo della nostra volontà.
Il Diavolo regge i fili che ci muovono! Gli oggetti ripugnanti ci affascinano; ogni giorno discendiamo d’un passo verso l’Inferno, senza provare orrore, attraversando tenebre mefitiche.
Come un vizioso povero che bacia e tetta il seno martoriato d’un’antica puttana, noi al volo rubiamo un piacere clandestino e lo spremiamo con forza, quasi fosse una vecchia arancia.
Serrato, brulicante come un milione di vermi, un popolo di demoni gavazza nei nostri cervelli, e quando respiriamo, la morte ci scende nei polmoni quale un fiume invisibile dai cupi lamenti.
Se lo stupro, il veleno, il pugnale, l’incendio, non hanno ancora ricamato con le loro forme piacevoli il canovaccio banale dei nostri miseri destini, è perché non abbiamo, ahimé, un’anima sufficientemente ardita.
Ma in mezzo agli sciacalli, le pantere, le cagne, le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti, fra i mostri che guaiscono, urlano, grugniscono entro il serraglio infame dei nostri vizi, uno ve n’è, più laido, più cattivo, più immondo. Sebbene non faccia grandi gesti, né lanci acute strida, ridurrebbe volentieri la terra a una rovina e in un solo sbadiglio ingoierebbe il mondo.
È la Noia! L’occhio gravato da una lagrima involontaria, sogna patiboli fumando la sua pipa. Tu lo conosci, lettore, questo mostro delicato – tu, ipocrita lettore – mio simile e fratello

Charles Baudelaire

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 1827

Nei Promessi sposi due capitoli, il XXXI e il XXXII, sono interamente dedicati alla peste. Don Rodrigo, a Milano, scopre di essere ammalato. Il Griso lo consegna ai monatti per derubarlo, poi si ammala a sua volta e muore. Renzo, sempre rifugiato nel Bergamasco, guarisce e decide di andare a Milano per cercare Lucia.


E mentre – dice il Ripamonti – i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città come un solo mortorio c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! La mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio

[…] Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; chè infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacchè era ancor più facile prendera in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.

[…] Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo. L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzeretto.

Giovanni Boccaccio, Decameron, 1350-1353

L’autore descrive la peste che colpì Firenze (e l’Europa intera) nel 1348, concentrandosi sul degrado morale della società che l’epidemia ha portato con sé in città. Sette ragazze e tre giovani uomini decidono di allontanarsi dalla città, ormai allo stremo, e ritirarsi nella campagna fiorentina


Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata.

[…] E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento quasi tribulazione entrata n’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna e il suo marito; e , che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.

Omero, Iliade, 750 a.C. circa

Alle origini della letteratura occidentale, anche se forse non ci pensiamo, c’è una scena legata alla malattia, alla pestilenza inviata dagli Dèi irati


Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio s’adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atride e il divo Achille.
E qual de’ numi inimicolli? Il figlio
di Latona e di Giove. Irato al Sire
destò quel Dio nel campo un feral morbo,
e la gente perìa: colpa d’Atride
che fece a Crise sacerdote oltraggio.

Ifigenia in Tauride

Il seguente brano traccia le vicende avvenute al ritorno in patria di Agamennone, il pastore dei popoli: la moglie Clitemnestra, con la complicità del suo amante Egisto, uccide il re. Suo figlio Oreste è chiamato ad uccidere la madre per vendicare il padre.

PILADE
Ma felici sono i mille e mille che morirono
la morte dolceamara per mano del nemico!
Selvaggi orrori e una fine luttuosa
ha preparato invece del trionfo
per i reduci un dio sdegnato e ostile.
La voce degli uomini non viene fino a voi?
Dovunque arriva, diffonde intorno la fama
di fatti inauditi, che sono accaduti.
Così lo strazio che gli atrii di Micene
riempie di sospiri sempre ripetuti,
è un segreto per te? Clitennestra
con l’aiuto d’Egisto ha irretito il marito,
l’ha ucciso il giorno stesso che è ritornato. – –
Sì, tu onori questa casa regale.
Io lo vedo. Il tuo cuore combatte invano
la parola così atroce ed inattesa.
[…]

ORESTE

Il giorno che il padre cadde Elettra
nascose, per salvarlo, il fratello: Strofio,
il cognato del padre, lo accolse volentieri,
lo crebbe accanto al proprio figlio
di nome Pilade, che annodò i vincoli
più belli d’amicizia con il nuovo venuto.
E con la loro età, nella loro anima cresceva
la smania ardente di vendicare la morte
del re. Inattesi, in abito straniero,
raggiunsero Micene, fingendo di portare
la notizia luttuosa della morte d’Oreste
con le sue ceneri. Benevola li accoglie
la regina; loro entrano nella casa.
Oreste rivela a Elettra che è suo fratello;
lei riattizza in lui il fuoco della vendetta,
che alla presenza sacra della madre si era
sopìto. In silenzio lo guida
al luogo dove il padre era caduto,
dove una antica, lieve traccia del sangue
versato con protervia, colorava il suolo
lavato spesso, di funeste strisce sbiadite.
Con la sua lingua di fuoco lei descrisse
tutte le fasi di quell’azione infame,
la sua vita miserabile, da serva,
l’arroganza di quei traditori fortunati
e i pericoli che ora attendevano i fratelli
da parte di una madre divenuta matrigna.
Qui lei lo forza a stringere l’antico pugnale,
strumento di furia atroce nella casa di Tantalo,
e Clitennestra cadde per mano del figlio.

Johann Wolfgang von Goethe

Fonte: http://www.writingshome.com/ebook_files/160.pdf

Storia di fede, libri e anoressia

La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in “Sarà bella la vita”. A scriverlo è Monica Mondo, una giornalista che definisce il libro un “romanzo”, anche se vi racconta in prima persona la propria esperienza di rifiuto del cibo, con le sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare


La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in un libro breve, ‘Sarà bella la vita’ di Monica Mondo, che l’autrice e l’editore Marietti 1820 definisce come “romanzo” ma che sarebbe invece più appropriato chiamare ‘testimonianza’. A scriverlo è infatti una giornalista che racconta in prima persona il rifiuto del cibo, dalle sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali forse trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare, fino alla completa uscita dal tunnel grazie, di nuovo, a un concerto di stimoli positivi.
La cornice è rappresentata da una serie di citazioni, letterarie e musicali, che attestano la provenienza dell’autrice da una famiglia in cui libri e giornali costituivano un oggetto di lavoro quotidiano e che rappresentano gli spunti per inquadrare ricordi di persone e fatti. Si inanella così una trama esile ma estremamente intensa e significativa, soprattutto la generazione che ha vissuto, o almeno visto, in prima persona gli anni plumbei dell’odio ideologico.
Essere scampata al terrorismo, come pure alla droga, avere trovato accoglienza da parte di un prete sensibile, avere provato l’inevitabile sentimento di amore-odio per i terapeuti sono solo alcuni dei passaggi attraverso i quali Mondo riesce a vincere l’anoressia. Oggi, adulta e madre nonostante le pessimistiche previsioni di sterilità dei medici, può guardare a quei ricordi di bambina e ragazza con una maturità tranquilla che le consente di trasformarli in racconto.

Marco Ferrazzoli


Monica Mondo, “Sarà bella la vita”, Editore Marietti-1820 (2012)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Ippolito

L’Ippolito del tragediografo greco Euripide fu rappresentato nel 428 a.C ad Atene. La tragedia narra la storia dell’amore proibito tra Fedra e il suo figliastro Ippolito. Fedra è sconvolta nella sua intera persona dalla potenza dell’amore. Il brano antologizzato è tratto dalla prima apparizione del coro: è preoccupato dal male che affligge Fedra e ne descrive i sintomi.

CORO
str. a
C’è una roccia, raccontano, che stilla
acqua d’oceano: dalle rupi
erompe una sorgiva,
vi attingono con brocche.
Là c’era una mia amica,
lavava nella corrente vesti purpuree
le distendeva sopra
una calda, assolata pietra.
Le prime voci sulla mia padrona
mi giunsero di là.

ant. a
Giace in casa, stremata,
sul suo letto di inferma,
veli leggeri le ombrano
il biondo capo.
Da due giorni, mi dicono,
rifiuta di nutrirsi,
tiene puro il suo corpo
del cibo di Cerere: vuole
approdare al termine funesto di morte
spinta da un male segreto.

str. b
† Forse, † figlia, sei in potere
di Pan, oppure di Ecate o
dei venerandi Coribanti
o della Madre dei monti.
O ti tormenti per qualche tua colpa
contro Dictinna, la dea della caccia:
l’hai offesa con libagioni non offerte?
Oltre i laghi essa incede,
oltre la terra, sui vortici d’acque
del salso mare.

ant. b
O il tuo consorte, il capo
degli Eretteidi, nobile di stirpe,
lo signoreggia un amore segreto,
lo sottrae al tuo letto, nel palazzo?
o un navigante salpato da Creta
è giunto al nostro
porto ospitale
con notizie per la regina:
e l’anima è inchiodata al letto
per il dolore e l’angoscia?

ep.
Convive, di solito, con la difficile natura
delle donne una triste infelice debolezza
di travagli e vaneggiamenti.
Ha attraversato anche me, il mio grembo
questa tempesta. E invocavo
Artemide celeste, signora dell’arco, protettrice
dei parti; io la venero, tanto,
ed essa, grazie a Dio, accorre da me, sempre.
Ma guarda lì davanti alla porta la vecchia nutrice: sta accompagnando fuori dal palazzo la padrona. Che volto tetro,
rannuvolato ha la regina. E io desidero sapere, con tutta l’anima, che cosa l’abbia distrutta, perché sia così pallida.

Euripide

Da Euripide, Ippolito, ed. digitale a cura di Patrizio Sanasi. Liberamente disponibile presso il sito web https://spazioinwind.libero.it/latinovivo/Testintegrali/Ippolito.htm

La lettera scarlatta

I due brani antologizzati dalla Lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne presentano sul proscenio della narrazione due figure intrecciate e profondamente diverse: Hester Prynne ed il reverendo Dimmesdale. Lo sfondo è quello di una civiltà ipocritamente e fanaticamente religiosa, pronta a mettere al patibolo Hester per essere stata trovata incinta durante una prolungata assenza del marito: il padre della nascitura Perla è proprio il reverendo. Nel primo brano si comincia ad intravedere il disordine psicologico che nel secondo brano porterà il reverendo alla morte, dopo aver sofferto sino alla fine del romanzo di un senso di colpa profondo per la propria codardia.

Nel suo ultimo singolare incontro con Mr Dimmesdale Hester Prynne era rimasta turbata nel vedere in che  stato fosse il pastore. I suoi nervi sembravano assolutamente a pezzi. La forza d’animo era avvilita a debolezza infantile. Strisciava inerme sulla terra, mentre le sue facoltà intellettuali conservavano la pristina forza; anzi avevano forse  acquistato una energia morbosa, che soltanto la malattia avrebbe potuto conferire loro. Conoscendo una sequenza di  circostanze ignote a tutti gli altri, Hester poteva facilmente intuire che, accanto alla legittima azione della coscienza, sul  benessere e sulla tranquillità di Mr Dimmesdale operava e tuttora era in azione un terribile meccanismo. Memore di ciò  che era stato una volta quel povero peccatore, la sua anima si commosse davanti al brivido di terrore con cui si era  appellato a lei – la donna esclusa – invocando aiuto contro il nemico scoperto per istinto. Hester decise che egli aveva  diritto a tutto il suo aiuto. Poco abituata, nel suo lungo esilio dalla società umana, a misurare i principi di giusto e  ingiusto in base a criteri esterni a se stessa, Hester ritenne – o parve ritenere – di avere nei confronti del pastore una  responsabilità che non aveva verso nessun altro, neppure verso l’intero mondo. I legami che la univano al resto  dell’umanità – legami di fiori, sete, oro o chissà quale altro materiale – erano stati spezzati tutti […]

«Popolo della Nuova Inghilterra!», esclamò con una voce che si levò sopra gli astanti alta, solenne, maestosa –  eppure pervasa dal tremore e, a tratti, possente come un urlo che scaturisse dagli insondabili abissi del rimorso e della pena – «voi che mi avete amato! Voi che mi avete considerato santo! Guardatemi qui, il peggior peccatore! Finalmente!  Finalmente! Sono nel luogo dove avrei dovuto ergermi sette anni fa, con questa donna, il cui braccio – più di quel po’ di  forza che mi ha trascinato qui – mi sostiene in questo terribile momento, impedendomi di prostrarmi con la faccia a  terra! Ecco la lettera scarlatta che Hester porta! Avete tremato tutti vedendola! Ovunque la portassero i suoi passi –  ovunque lei cercasse di trovare riposo, sotto quel terribile fardello – dappertutto il simbolo ha gettato intorno a lei un  bagliore sinistro di ripugnanza e di orrore. Ma ecco in mezzo a voi un uomo davanti al cui marchio di infamia e di  peccato voi non avete tremato».

Parve a questo punto che il ministro non dovesse rivelare il resto del suo segreto. Ma combatté contro la  debolezza del corpo – e ancora di più contro la codardia del cuore – che tentava di sopraffarlo. Respingendo ogni aiuto,  avanzò di un passo avanti alla donna e alla bambina.

«Il marchio era su di lui!», continuò quasi con accanimento, tanto era deciso a rivelare tutto. «L’occhio di Dio  lo vedeva! Gli angeli lo additavano! Il demonio lo conosceva bene e lo affliggeva con il tocco delle sue dita di fiamma!  Ma egli lo nascondeva agli uomini con scaltrezza e si aggirava fra voi con il portamento di uno spirito addolorato,  perché puro in un mondo di peccato! Triste, perché lontano dai suoi congiunti in cielo! Ora, nel momento della morte,  sta davanti a voi! Vi incita a guardare ancora la lettera scarlatta di Hester! Vi dice che, pur con tutto il suo arcano orrore, è soltanto l’ombra di quello che egli porta sul petto e che anche questo, il suo marchio rosso, è soltanto il segno di ciò  che l’ha inaridito nel profondo del cuore! C’è qualcuno qui che mette in dubbio il castigo di Dio su un peccatore?  Guardate! Guardate la terribile testimonianza!»

Con un gesto convulso strappò il paramento sacro dal petto. Ecco la rivelazione! Ma sarebbe irriverente  descriverla. Per un attimo lo sguardo della moltitudine inorridita si concentrò sullo spaventoso miracolo, mentre il  ministro si ergeva con il volto avvampante di trionfo, come chi, nello spasimo di un dolore acutissimo, abbia conseguito la vittoria. Poi si abbatté sul palco! Hester lo sollevò un poco e gli sostenne la testa contro il proprio petto. Il vecchio  Roger Chillingworth si inginocchiò al suo fianco, con un volto vuoto e vacuo, che sembrava privo di vita. «Mi sei sfuggito!», ripeté più di una volta. «Mi sei sfuggito!»

[…]

Perla gli baciò le labbra. Si spezzò l’incantesimo. La grande scena di dolore, nella quale la bimba selvaggia  aveva avuto la sua parte, aveva risvegliato tutta la sua tenerezza, e, mentre cadevano sulle guance del padre, le lacrime  erano il pegno che sarebbe cresciuta in mezzo alla gioia e al dolore umano, non per combattere contro il mondo, ma per  essere donna nel mondo. Anche verso sua madre si era compiuta la missione di Perla, quale messaggera di angoscia. «Hester», disse il pastore, «addio!»

«Non ci incontreremo più?», sussurrò lei piegando il volto sul suo. «Non trascorreremo insieme la nostra vita  immortale? Sì, sì, ci siamo riscattati a vicenda con tanto dolore! Guardi lontano nell’eternità con quei luminosi occhi  morenti. Dimmi quello che vedi».

«Silenzio, Hester, silenzio!», disse con tremula solennità. «La legge che abbiamo infranto! Il peccato rivelato  in modo così orribile! Che soltanto questo sia nei tuoi pensieri! Ho paura! Ho paura! Forse, quando abbiamo  dimenticato il nostro Dio – quando abbiamo violato la deferenza reciproca per l’anima dell’altro – da quel momento è  stato vano sperare di poterci incontrare nell’aldilà in una unione eterna e pura. Dio sa ed è misericordioso! Ha  dimostrato misericordia soprattutto nella mia afflizione. Infliggendomi questa tortura da portare sul cuore! Mandando  quel terribile vecchio tenebroso a tenerla sempre incandescente! Portandomi a questa morte di ignominia davanti a tutti! Se una sola di queste agonie fosse mancata, sarei stato perduto per sempre! Sia lodato il suo nome! Sia fatta la sua  volontà! Addio!»

Quest’ultima parola accompagnò l’estremo respiro del ministro. La moltitudine, in silenzio fino a quel  momento, proruppe in uno strano, profondo clamore di smarrimento e di stupore, incapace di esprimersi se non con quel mormorio che rimbombava sordo dietro lo spirito dipartito.

Nathaniel Hawthorne

Fonte: hawtorne_lettera scarlatta

I Miserabili

I tempi odierni tengono in noi ben viva la percezione della difficoltà di gestire i pazienti afflitti da malattie contagiose. Medesimo problema, in condizioni notevolmente ridotte, si presenta a monsignor Bienvenu nel XIX secolo. Ma monsignor Bienvenu stupisce ogni lettore con un atto di amore davvero incredibile.

Il palazzo vescovile di D. era attiguo all’ospedale. Era un vasto e bell’edificio in pietra, costruito all’inizio del secolo scorso da monsignor Henri Puget, dottore in teologia della facoltà di Parigi, abate di Simore e, nel 1712, vescovo di D. Quel palazzo era una vera e propria dimora principesca. Tutto vi aveva un aspetto maestoso: gli appartamenti del vescovo, i saloni, la corte d’onore, vasta, con porticato secondo l’antica moda fiorentina, i giardini, folti di magnifici alberi. Nella sala da pranzo, una lunga e splendida galleria situata al pianterreno e che si apriva sui giardini, monsignor Henri Puget aveva offerto, il 29 luglio 1714, un pranzo ufficiale ai monsignori Charles Brûlart di Genlis, arcivescovo principe di Embru, Antoine de Mesgrigny, cappuccino, vescovo di Grasse, Philippe de Vendôme, gran priore di Francia, abate di St-Honoré de Lérins, François de Berton de Crillon, vescovo barone di Vence, César de Sabran de Forcalquier, vescovo signore di Glandève e Jean Soanen, prete dell’oratorio; i ritratti di questi sette reverendi personaggi ornavano quella sala, e la data memorabile, 29 luglio 1714, era scolpita a lettere d’oro su una lapide di marmo bianco. L’ospedale era una casa stretta e bassa, a un sol piano, con un giardinetto. Tre giorni dopo il suo arrivo il vescovo visitò l’ospedale. Terminata la visita fece dire al direttore di voler essere così gentile da raggiungerlo a casa sua. «Quanti malati avete ora, signor direttore dell’ospedale?».
«Ventisei, monsignore».
«Proprio quanti ne avevo contati».
«I letti sono un po’ addossati l’uno all’altro», soggiunse il direttore.
«Proprio quello che avevo notato».
«Le corsie non sono che stanze ed è difficile cambiar l’aria».
«Mi sembrava».
«E poi, quando c’è un raggio di sole, il giardino è troppo angusto per i convalescenti».
«È proprio quello che mi stavo dicendo».
«Nelle epidemie (quest’anno, per esempio, abbiamo avuto il tifo; due anni fa la miliare) cento ammalati a volte, e non si sa come provvedere».
«Proprio quello che pensavo».
«Che volete, monsignore, bisogna rassegnarsi!», disse il direttore.
Questa conversazione avveniva nella sala da pranzo-galleria; al pianterreno. Il vescovo rimase silenzioso un poco, poi si volse bruscamente verso il direttore dell’ospedale:
«Signore, quanti letti credete possano stare in questa sala?».
«La sala da pranzo di monsignore?», esclamò il direttore sorpreso.
Il vescovo percorreva la sala con lo sguardo, quasi facesse con gli occhi calcoli e misure.
«Almeno venti letti!», disse come parlando a se stesso, poi, alzando la voce:
«Sentite, signor direttore, di certo c’è un errore. Voi siete ventisei persone in cinque o sei camerette. Noi qui, in tre, abbiamo posto per sessanta… ci dev’essere uno sbaglio, vi dico, voi occupate casa mia e io la vostra. Rendetemi la mia casa. È questa la vostra».
Il giorno dopo i ventisei poveri ammalati venivano sistemati nel palazzo del vescovo e il vescovo era all’ospedale. Monsignor Myriel non possedeva nulla, la sua famiglia era stata rovinata dalla Rivoluzione. Sua sorella godeva di una rendita vitalizia di cinquecento franchi che, al presbiterio, bastava solo alle sue spese personali. Myriel percepiva dallo Stato, come vescovo, un appannaggio di quindicimila franchi. Il giorno stesso in cui andò ad abitare all’ospedale, monsignor Myriel stabilì, una volta per sempre, d’impiegare tale somma nel modo seguente. Copiamo una nota scritta di suo pugno.

Victor Hugo

Il laico Soldati va a Lourdes

Appena ventottenne, Mario Soldati intraprende un viaggio a Lourdes per un’inchiesta giornalistica: il risultato è un reportage disincantato e, a tratti, spietato.

Nel 1934 Mario Soldati intraprese un viaggio a Lourdes: non per devozione, ma per un’inchiesta giornalistica.

Uno scrittore laico e un luogo di fede e di miracoli, raccontati con rigidissimi parametri razionalistici che oggi farebbero inorridire gli ‘atei devoti’ o i ‘teo-con’. Soldati non nasconde i suoi pregiudizi, li rivendica, con un’onestà intellettuale che nella Torino del tempo costituisce un coraggioso atto di anticonformismo.

Gli preme di evidenziare il classismo che il pellegrinaggio non annulla certo. Alla partenza, in mezzo alla città che conta, sparge subito sarcasmo a piene mani: “Di colpo, irrimediabilmente, mi trovai in mezzo ai preti” e a “poveri speciali, sono poveri cattolici”. Mette in discussione la sussiegosa filantropia cittadina, erede di De Amicis (un laico socialista, per inciso) più che di Don Bosco, ma – come un investigatore del Cicap a un congresso di guaritori – osserva criticamente anche la fede popolare.

Il pellegrinaggio è sofferenza e sacrificio solo per pochi malati gravissimi e per tutti gli altri, infermi inclusi, è occasione di fare un viaggio, “di divertirsi senza far nulla di male, compiendo anzi un’opera santa, acquistando meriti del Paradiso” scrive, sottolineando una contaminazione tra devozione e svago che non si capisce dove sia contraddittoria.

A Lourdes, il ventottenne Soldati trova una città allegra e continua a scandalizzarsi: “Se Assisi porta l’impronta dello spirito, Lourdes porta quella dello spiritismo”. Ma davvero il mistero deve necessariamente incarnarsi sempre nella semplicità francescana? Mettendo a fuoco il misticismo con lo sguardo spietato e disincantato del reportage, l’autore non vede ciò che non può vedere. ‘Un viaggio a Lourdes’ è accompagnato, in questa nuova edizione, da tre documenti che lo completano e lo spiegano.

Di Soldati, nel centenario della nascita, si ricorda anche l’uscita del Meridiano Mondadori che raccoglie cinque romanzi, di due Oscar (‘Vino al vino’ e ‘Le due città’), di ‘Un sorso di Gattinara e altri racconti’ per Interlinea e, infine, di ‘Amori miei’, raccolta di contributi edita da La Stampa.

Un profluvio di testi, doveroso omaggio a un grande protagonista della cultura italiana del ‘900.

Marco Ferrazzoli

Mario Soldati, “Un viaggio a Lourdes” (a cura di Salvatore Silvano Nigro, Sellerio editore Palermo, 2006)

La scheda sul sito dell’editore