Parini contro i “no vax”

L’antologia che raccoglie poesie di autori distribuite in otto secoli, facendo scoprire scrittori che non sono letterati di professione, come il fisico-matematico Sergio Doplicher, Francesco Redi, primo medico del granduca di Toscana Ferdinando II, il matematico-astronomo Eustachio Manfredi


L’antologia curata da Luca Serianni “Il verso giusto” raccoglie cento poesie di sessantatré autori, distribuite in otto secoli, una selezione “dipesa in una certa misura dal gusto personale” dell’autore con l’auspicio di assicurare una discreta rappresentanza della lirica femminile o di abbinare classici celeberrimi e poeti meno conosciuti come Giovanni Antonio de Petruciis, che, nei quattro mesi passati in carcere prima della decapitazione, scrive un’ottantina di sonetti conservati da un solo manoscritto non autografo scoperto fortunosamente nell’Ottocento. Poeti che talvolta non sono letterati di professione, quali l’insegnante valdostano Bruno Germano, l’economista Franco Tutino, il fisico e matematico Sergio Doplicher che firma con lo pseudonimo di Sergio Doraldi.
Ovviamente il rasoio ha dovuto essere inflessibile, escludendo per esempio la poesia dialettale e le traduzioni, limitando anche autori particolarmente significativi a solo una poesia (tranne eccezioni al di sopra di qualunque sospetto, quali Dante e Petrarca), ricorrendo per i testi più lunghi a tagli che non hanno risparmiato neppure i Sepolcri foscoliani e “La Signorina Felicita” di Gozzano, e riducendo al minimo o sopprimendo quando superflue le notizie biografiche. Il commento invece rimane e diciamo pure che prevale, come senso dell’operazione editoriale, pur nella consapevolezza che nelle antologie poetiche le note sono state spesso guardate con sospetto perché “più adatte a fomentar la pigrizia che ad aiutare la intelligenza dei giovani” (come recitava una relazione ministeriale del 1883). Oggi però sarebbe impensabile non spiegare chi sono Dite e Sardanapalo o cosa vogliono dire “invidierà l’illusion” e “insultar de’ nembi”.

Le antologie scolastiche sono uno strumento di alfabetizzazione fondamentale, capace di lasciare nello studente un imprinting indelebile. D’altra parte, spesso si tratta di “libri concepiti più per essere adottati dagli insegnanti che non funzionali alle esigenze degli alunni”, lamenta Serianni. Nel caso specifico della poesia, poi, l’evoluzione stilistica e contenutistica recente è stata tale che, anche solo per distinguere il genere dalla prosa, il lavoro del curatore antologico è e resta fondamentale. “Nel corso del Novecento” è “tramontato il tradizionale lessico poetico”, nel contempo però quando si affronta un contemporaneo “molte cose semplicemente non possono e non devono essere spiegate”.
Non pochi gli autori antologizzati che rimandano alla cultura scientifica. Francesco Redi fu in primo luogo uno scienziato di fama, primo medico del granduca di Toscana Ferdinando II, sfatò tra l’altro la leggenda della generazione spontanea degli insetti dalla carne putrefatta. Eustachio Manfredi fu matematico, astronomo ed esperto di idraulica, oltre che letterato. Giuseppe Parini nelle Odi tocca un tema di grande attualità come la necessità di vaccinarsi ne “L’innesto del vaiuolo” del 1765.

Marco Ferrazzoli

Luca Serianni, “Il verso giusto”, Laterza (2020)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Le Humanities per la pratica medica

Attraverso l’arte e le discipline umanistiche è possibile conoscere lo sviluppo dei metodi di cura e i ruoli degli operatori sanitari nel corso dei secoli. Tale bagaglio è un prezioso patrimonio per la professione medico e sanitaria, perché crea empatia e una corretta relazione con il paziente. Il volume di Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma, illustra la storia di questa complessa materia e le sue applicazioni


Le Medical humanities cosa sono e a cosa servono? Lo spiega il volume “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria” (Aracne editore), scritto da Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma e pioniera nell’insegnamento di questa disciplina che è una “sinergia” di materie di studio assai differenti. “La definizione, utilizzata in un campo interdisciplinare della medicina e in generale della cura, include la letteratura, filosofia, storia e religione, le scienze sociali (antropologia, psicologia e sociologia), le arti (letteratura, teatro, film e arti visive) e la loro applicazione sia nell’educazione medica che nella pratica clinica”, spiega l’autrice. Già nel 1994, in un articolo scientifico apparso negli Stati Uniti, veniva sottolineato che l’assistenza infermieristica non può svilupparsi da un background basato esclusivamente sulle scienze fisiche e sociali. Il personale sanitario, grazie a questi studi, può ridurre il gap nel rapporto con i pazienti e “umanizzare” la cura, superando una visione esclusivamente biomedica della professione. Dal 2014 è stata istituito presso l’Università di Roma un gruppo di ricerca per applicare il metodo nell’ambito della Medical education, cui è dedicato un laboratorio diretto dalla stessa Ferrara; è stata attivata una sperimentazione nei corsi di laurea in Medicina, Scienze infermieristiche e nella formazione specifica in Medicina generale.
Nello scorrere le pagine del libro sorprende rilevare quanto resti archeologici, sculture, dipinti, possano testimoniare lo sviluppo della scienza medica e l’affinarsi dello sguardo dell’artista nel ritrarre anche le imperfezioni del corpo umano, elementi che consentono di comprendere la diffusione di alcune patologie nel passato, campo di indagine dell’icodiagnostica. Basta andare nell’antica Grecia, dove gli anatomisti chiedevano aiuto agli artisti, “la dissezione era praticata sui corpi degli animali, mentre era vietato esplorare l’anatomia umana per motivi sociali e religiosi… Solo due medici ellenistici, che hanno operato ad Alessandria d’Egitto circa tra il 330 e il 240 a.C., sono noti non solo per l’uso della dissezione sistematica dei cadaveri, ma anche per la pratica della vivisezione sperimentale condotta sui condannati a morte: Erofilo ed Erasistrato”.
Nel Discobolo (copia del secolo II d.C. da originale greco del V secolo a.C.), conservato al Museo nazionale romano in Palazzo Massimo, ammiriamo i gruppi muscolari dell’atleta ritratti nell’atto di partecipare al movimento. Nei corso dei secoli, molti pittori – da Leonardo da Vinci a Michelangelo a Raffaello – hanno approfondito l’esame delle parti del corpo. Nel XVI secolo Bartolomeo Passarotti realizzò il dipinto “Lezione di anatomia per artisti” (Galleria Borghese, Roma) e Rembrandt nel 1632 raffigurò il dottor Tulp mentre mostra l’anatomia del braccio di un condannato a morte (Mauritshuis, L’Aia). L’autrice cita altri esempi di legame tra arte e medicina, che si traducono nelle modalità di riprodurre e conservare i corpi, quali la ceroplastica anatomica e la recente plastinazione, messa a punto da Gunther von Hagens. La rappresentazione della cura nell’arte, conclude Ferrara, è stimolante anche per lo sviluppo dell’empatia e della relazione tra personale di cura e paziente.

Sandra Fiore


Vincenza Ferrara, “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria”, Aracne Editrice (2020)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Buona medicina, buoni medici, buona Sanità

Il saggio di Domenico Ribatti affronta il tema dell’etica in medicina in un’accezione molto ampia, che include il rapporto tra sanitari e paziente, i ruoli della politica e dell’industria farmaceutica, l’evoluzione scientifico-tecnologica, il significato stesso del termine “malattia”


Il tema dell’etica in medicina vanta una tradizione di studi e riflessioni ampia e autorevole, che va da Hans Jonas a Hugo Tristram Engelhardt, Martin Heidegger, Umberto Galimberti, Giorgio Cosmacini… Il saggio di Domenico Ribatti “La buona medicina”, però, affronta la problematica in un’accezione molto ampia, che include il rapporto medico-paziente, le politiche sanitarie, il ruolo dell’industria farmaceutica, l’evoluzione scientifica e tecnologica, il significato stesso del termine “malattia” che – nota l’autore – ne assume almeno tre diversi: concetto patologico, condizione esistenziale vissuta e condizione percepita dagli altri, tanto che in inglese esistono tre termini specifici: disease, illness e sickness.
Per lungo tempo la medicina ha posto l’accento più sulla patogenesi, cioè sugli aspetti meccanicistici che caratterizzano l’insorgenza della malattia, che su quelli eziologici che investono i rapporti tra l’individuo e l’ambiente. L’evoluzione successiva, dai postulati di Koch nello studio della tubercolosi  all’introduzione tra Ottocento e Novecento di numerosi strumenti medici, farmaci e vaccini, dall’epidemiologia clinica alla Evidence Based Medicine (Ebm) basata sulle prove sperimentali effettuate su grandi numeri, ha ovviamente spostato l’interesse molto sul secondo aspetto e sulle sue intersezioni con il “programma genetico” e con l’evoluzione, un combinato disposto che rende ogni individuo un “prodotto” unico.
“Non più del 2 per cento delle malattie umane” devono “la loro insorgenza a un chiaro meccanismo monogenetico”, mentre il 98 “si conforma a un modello complesso”. Si è così passati da un’idea deterministica della causalità a un’idea probabilistica. Il saggio ricorda il caso dell’attrice Angeline Jolie, che si sottopose a una doppia mastectomia preventiva dopo avere saputo di essere portatrice di una mutazione del gene Brca1 che le dava l’87 per cento di probabilità di sviluppare un tumore della mammella. Il problema della “cultura della scienza” diviene quindi nodale quanto quello della salute. L’Oms alla sua fondazione nel 1948 l’aveva definita “uno stato di completo benessere fisico mentale e sociale” e non soltanto “un’assenza di malattia o di infermità”, ma lo storico della medicina Mirko Grmek notava come questa definizione rischiasse di attribuire alla medicina una sorta di impossibile scopo “di assicurare l’agiatezza e la felicità”.
Se secondo Umberto Veronesi “la medicina è insieme scienza arte e magia”, tanta è l’importanza della capacità del medico (e non solo) “di influenzare psicologicamente il paziente”, secondo molte fonti – tra le quali il saggio cita un editoriale degli “Annals of Internal Medicine” – una significativa quota dei test di diagnostica per immagini non sono necessari. In Italia l’incremento delle radiazioni assorbite in tal modo è stato del 600 per cento negli ultimi venticinque anni. “Colpa” di una medicina troppo cautelativa, di medici che sono ormai ridotti a prescrittori di farmaci, analisi ed esami? Certamente un recupero del contatto professionale e umano è auspicabile, già nel 1984 Howard B. Beckman e Richard N. Frankel rilevarono “che solo nel 23 per cento dei casi al paziente era consentito di completare la presentazione dei suoi sintomi e che nel 63 per cento dei casi il medico interrompeva il paziente mediamente diciotto secondi dopo che questi aveva iniziato a parlare”. Un processo che in qualche misura si accentua dopo il Settecento, quando gli ospedali diventano il luogo in cui l’ammalato viene curato ma anche separato dalla comunità, tema sul quale ha molto scritto Michel Foucault. D’altronde gli eccessi diagnostico-terapeutici sono l’altra faccia di una medaglia che si chiama prevenzione, sulla quale è necessario insistere soprattutto nella lotta contro malattie particolarmente dure da sconfiggere come il cancro, nel quale la percentuale dei casi maligni che può essere attribuita a fattori ambientali varia tra il 70 e il 90 per cento.
La parte del saggio dedicata alla cronaca politico-istituzionale recente è utile soprattutto per capire quante acquisizioni della Sanità odierna siano nate solo dalla seconda metà del secolo scorso. Nel 1954 la Federazione nazionale degli Ordini dei medici introduce il principio del consenso informato, nel 1958 nasce il ministero della Salute e solo vent’anni dopo il Servizio sanitario nazionale, con la nascita delle Unità sanitarie locali (Usl) e un significativo incremento della spesa pubblica, mentre ci vuole l’intero decennio 1992-2001 per la definizione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), subordinati però alla disponibilità finanziaria. Ci avviciniamo così alla attuale gestione della Sanità, al frequente dissidio tra sanitari, amministrativi e politici nella stessa, e all’indebolimento progressivo del coordinamento nazionale a favore delle autonomie regionali, che anche in tempo di Covid-19 ha mostrato alcune lacune e contraddizioni. Questo non deve però farci dimenticare che la Sanità pubblica italiana resta un modello tutto sommato virtuoso, a paragone di altri, pensiamo agli Stati Uniti con il loro sistema assicurativo ancora sostanzialmente privatistico.

Marco Ferrazzoli


Domenico Ribatti, “La buona medicina” (La nave di Teseo, 2020)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

La buona cura, da Seneca alla medicina narrativa





Dai suggerimenti del filosofo spagnolo all’attuale “Medicina narrativa”, su cui arriva ora in traduzione italiana il manuale di Rita Charon, si ravvisa un’analogia: la considerazione del malato come persona, il rischio di ridurre il paziente a “cliente”. Sensibilità, dialogo, competenze psico-pedagogiche sono fondamentali per percorsi terapeutici più efficaci


È ovviamente la nostra lettura a posteriori che induce a ravvisare nelle parole di Lucio Anneo Seneca così tante e strette analogie con le questioni odierne della medicina e della sua comunicazione. Detratto però questo bias dobbiamo riconoscere un indubitabile interesse e una notevole attualità ai “Consigli ai medici” del filosofo spagnolo, precettore di Nerone, ora ripubblicati da EDB in un’edizione curata dal classicista Lucio Coco.

Seneca ci appare per esempio, data l’insistenza sull’analogia tra la metafora medica e la cura delle anime propria del filosofo, una sorta di antesignano del counceling: “Chi è un vero medico è anche filosofo” scriveva del resto anche Galeno. Non meno moderna l’attenzione prestata dallo scrittore latino al medico e al malato come persona (in un passaggio del dialogo “Sui benefici” afferma che “malato e malattia non sono la stessa cosa”), legate da uno spirito umanitario, amicale, in cui oltre alla cura contano i consigli, soprattutto scevro dall’approccio venale che riduce il paziente a “cliente”, anche perché per medico e insegnante la ricompensa sta nel loro stesso lavoro. Un concetto molto condiviso all’epoca, anche Celso nel “De medicina” afferma che “a parità di scienza è più utile che il medico sia amico che estraneo”.
E poi l’apprezzamento per la capacità professionale: “Il malato non domanda un medico eloquente ma esperto” ricorda a Lucilio, con un’affermazione tutt’altro che banale in tempi di improvvisazione e ciarlataneria dilaganti, che peraltro proseguono ben oltre l’epoca classica fino ai giorni nostri, come tanta cronaca insegna. Come nel “Giuramento” di Ippocrate, Seneca insiste insomma sui plus etici inscindibili dalla pratica clinica e sanitaria: temperanza, equilibrio, riservatezza sono chiaramente affermati come doveri ben prima che entrassero in vigore le norme sulla privacy.
Molto vicino ai nostri giorni anche l’accostamento di tre settori di ricerca come chirurgia, dietetica e farmaceutica (già nel “Corpus hippocraticum” leggiamo che è “Nel cibo il farmaco migliore, nel cibo il farmaco peggiore”), altra anticipazione plurisecolare rispetto alla odierna, talvolta maniacale o fobica, attenzione all’impatto della dieta e dell’alimentazione sulla salute. Peraltro, secondo il filosofo stoico, in passato i mali erano meno virulenti perché l’uomo “non aveva ancora inventato cibi elaborati che, invece di calmare la fame, stimolano l’appetito e il desiderio”: sembra di ascoltare una campagna contro il junk food!

Quando poi Seneca scrive che il medico deve materialmente “sentire il polso” del malato, non può curare “di passaggio” e non può decidere “per lettera” ci sembra davvero di leggere, mutatis mutandis, dei nostri rapporti digitali e tecnologici con una Sanità che raramente concede (e può permettersi) una palpazione o auscultazione del paziente.
Facendo poi un salto di parecchi secoli, ravvisiamo un’altra e fondamentale analogia, quella cioè di una “buona cura” che passi non solo per le competenze scientifiche del medico e per il supporto tecnologico ma anche per un rapporto umano autentico tra sanitari e pazienti, che consenta la necessaria comprensione, comunicazione e condivisione. Il concetto che oggi passa sotto il nome di “Medicina narrativa”. L’omonimo volume di Rita Charon è ora tradotto e pubblicato in Italia da Raffaello Cortina, a tredici anni dalla sua uscita negli Stati Uniti. Un omaggio all’opera su cui si fonda la disciplina della quale l’autrice – medico internista e docente alla Columbia University – è considerata tra i massimi rappresentanti. Senza dubbio la Medicina narrativa è ormai un modello di formazione irrinunciabile, anche nel contesto italiano, per chi operi a qualunque livello nel servizio sanitario, dove la sensibilità, la capacità di dialogo, le competenze in ambito psicologico e pedagogico sono considerati di fondamentale importanza, all’interno della complessiva ricucitura tra scienze umane e naturali.

“La medicina può trarre vantaggio da quello che gli studiosi di letteratura, gli psicologi e gli antropologi sanno già da un po’: come funzionano le narrazioni, come trasmettono conoscenze sul mondo, come organizzano l’esistenza permettendo di coglierne il significato”, scriveva Rita Charon rivolgendosi a un sapere medico all’epoca ancora “sordo verso tutto ciò” e “basato quasi esclusivamente sulla componente biologica della malattia e sullo sviluppo di competenze tecniche”, preoccupato soltanto di “spiegare” e “protocollare” su larga scala. Certo la situazione non è risolta definitivamente, di sicuro non nel contesto italiano, poiché le pur numerose esperienze e pratiche attivate sono ancora frammentarie, scarsamente visibili, conosciute e documentate. Sta però crescendo la consapevolezza etico-politica della cura, la coscienza che la fragilità che connota la malattia si interseca con la emarginazione sociale, con il disagio interiore: deficit su cui la narrativa ha indubbiamente un ruolo di cura, non nel senso generico di creare un ”immaginario clinico” ma nella capacità di “scendere verso” chi sta vivendo una situazione patologica prima di tutto per riconoscere, recepire e interpretare l’anamnesi (“ascoltare la storia del paziente”), quindi per meglio identificare la patologia e collaborare tra colleghi medici e con la famiglia al fine, molto concreto, di indirizzare e accompagnare lungo percorsi terapeutici più efficaci. “Una visita di otto minuti non basta a dire tutto quello che si deve […] è fondamentale costruire una fiducia longitudinale”.

Non è un obiettivo banale, poiché richiede “uno studio disciplinato e rigoroso” che confligge con le logiche di efficienza e redditività cui il sistema sanitario e anche l’atteggiamento di molti operatori sembrano guardare come al loro principale obiettivo, “un sistema di mercato burocratizzato e attento soprattutto ai costi”. Nel suo dipartimento universitario, una delle esperienze di Medicina narrativa più rilevanti a livello internazionale assieme alla rivista Literature and Medicine, Rita Charon ha creato un modello formativo preciso: “Noi insegniamo ad analizzare i testi con cura e a scrivere in maniera riflessiva disciplinata e ponderata […] Facciamo conoscere le grandi opere letterarie”. Ma – ammette l’autrice – questo modello confligge con una interpretazione molto diversa della medicina: “Siamo diventati molto bravi a diagnosticare e curare le malattie […] nonostante un progresso così impressionante, manca spesso la capacità umana di provare empatia per gli ammalati”. E non solo: “Le competenze narrative non riguardano solo il singolo incontro ma tutta la pratica clinica […] sembra che i dottori si tengano a distanza anche dagli studenti dai colleghi dagli altri operatori e dalla società”. In effetti, le università e le scuole di specializzazione non possono “insegnare il rispetto, l’altruismo e la responsabilità” se questi tratti non si sviluppano e coltivano fin dall’infanzia, nella formazione famigliare, scolastica e sociale.

Marco Ferrazzoli


Rita Charon, “Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti” (Raffaello Cortina, 2019)
Lucio Anneo Seneca, “Consigli ai medici” (Dehoniani, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Céline, demonio antisemita e angelo dei malati

Lo scrittore francese è un personaggio controverso: la sua trilogia lo ha reso celebre e amato dai lettori ma le posizioni espresse in “Bagattelle per un massacro” lo hanno reso un “maledetto” inviso a molti. Non è certo la sua l’unica figura della letteratura in cui si mescolano il valore artistico e la scorrettezza politica, ma nel caso di Louise Ferdinand Destouches si aggiunge un terzo elemento di interesse: l’attività di medico svolta anche negli ultimi anni di vita in modo letteralmente e simbolicamente periferico, marginale, assieme agli ultimi. Lo ricordiamo attraverso un testo che ricorda proprio questa duplicità


[…]
«Il personaggio Céline non potrà mai diventare simpatico a nessun lettore […] Tutto il suo dramma sta […] nella mancanza di equilibrio tra l’intelligenza piena della realtà e la sua resistenza morale»; una realtà sua, fatta però di allucinazioni prodotte dalla realtà vera, e una sua morale negativa che è ispirata e si rivolge a uomini contraffatti che recitano e vivono indossando una maschera mostruosa plasmata dai propri vizi, quelli dichiarati e quelli taciuti. «Céline bisogna prenderlo tutto insieme …» accettando la sua esacerbazione verbale come insostitui

bile mezzo di ricerca. Questo è il giudizio sofferto, ma chiaro e condivisibile, delineato da Carlo Bo, eminente critico cattolico, in un famoso saggio sull’autore di Viaggio al termine della notte (trad. it. Corbaccio 1933), anteposto alla traduzione italiana della sua seconda opera letteraria uscita in Francia nel 1936, Morte a credito (Garzanti 1964). Si tratta di un giudizio utile perché, a differenza delle condanne senza appello espresse da personaggi come Sartre e Moravia, non fomenta la messa all’indice di tutte le opere di questo autore e nel contempo sollecita una condanna senza attenuati delle sue derive antiebraiche e collaborazioniste con i nazisti. Non può infatti essere richiesta a tutti la capacità di un Cesare Cases, lui grande germanista letterato ed ebreo, che, dovendo ammettere che quella di Céline è un’opera straordinaria di ricognizione umana che non ha avuto seguito e che il Viaggio è una delle proposte più forti, il maggior romanzo del Novecento, si spinge a sostenere che quando egli usa il termine “ebreo” indirizzando a questi un odio allucinante, in realtà intende additare al pubblico ludibrio gli emblemi più brutali della modernizzazione capitalistica e cioè l’impero del denaro, la standardizzazione della vita quotidiana, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America e l’Unione Sovietica, tutto o quasi tutto. È lo stesso Cases tuttavia che sintetizza meglio il suo pensiero quando dice che Cèline deve essere trattato come qualcuno da stampare al mattino e da fucilare nel primo pomeriggio.



Una vita vissuta
Tutti gli scritti di Céline, quelli letterari e quelli medici, hanno una forte derivazione autobiografica, una biografia complessa, pericolosa, straripante. Precocemente viaggia, impara inglese e tedesco e si impiega in diverse ditte commerciali. Volontario nella Prima guerra mondiale, viene ferito a un braccio e riformato: da questo momento e per tutta la vita soffrirà d’insonnia, di angoscia e di acufeni; nel 1916 dirige per nove mesi una piantagione di cacao in Camerun, quindi lavora in Francia nella redazione di una rivista di divulgazione scientifica.
Nel 1918 si iscrive alla facoltà di medicina di Rennes e si laurea nel 1924 con una tesi “romanzata” su Semmelweis, avendo come tutor il suocero e usufruendo di facilitazioni come reduce; in questo stesso periodo è attivo in una campagna antitubercolare della Fondazione Rockfeller.
Fa per un periodo il ricercatore all’Institut Pasteur; dal 1924 al 1928 lavora per la Società delle nazioni, branca “salute”, e viaggia da Ginevra a Liverpool, in Africa, in Italia (a Roma incontra Mussolini in persona che gli parla delle sue campagne antimalariche), a Cuba, negli Stati Uniti e in Canada (dove guida una delegazione di medici sudamericani in visite, tra l’altro, alle fabbriche Ford e Westinghouse) e dopo di nuovo in Europa; in alcuni di questi spostamenti fa anche il medico di bordo. Alla fine del 1927 apre uno studio medico a Clichy dove, a eccezione di un periodo trascorso all’ospedale Laennec, svolge con poche gratificazioni la professione di medico di base nei confronti di una clientela molto povera, disperata, ma contemporaneamente è assunto in un servizio municipale di igiene pubblica, pratica «una medicina collettiva terapeutica» e sperimenta, per conto di alcune società farmaceutiche, dei farmaci, compreso un medicamento contro i dolori mestruali, partecipando attivamente alla Società di medicina di Parigi. Compie viaggi in Germania, Gran Bretagna, nei Paesi Scandinavi e a Vienna; nel 1944, dopo la liberazione della Francia, ripara in Germania con i membri del governo collaborazionista di Vichy e, quindi, in Danimarca, dove passerà in prigione quattordici mesi e risiederà sino al 1951, quando l’amnistia gli consentirà il ritorno in Francia con una condanna per “indegnità nazionale” con la confisca dei beni. Vivrà con la moglie Lucette e numerosi animali a Meudon, a circa 10 chilometri da Parigi, dove continuerà fino alla fine la sua attività di medico, anche se poche erano le persone che accettavano di farsi curare da lui.




Destouches ovvero Céline
In sintesi, Louis-Ferdinand Auguste Destouches (1894-1932) è il medico che diventerà scrittore; Louis-Ferdinand Céline (1932-1961), pseudonimo mutuato dalla nonna materna con il quale pubblica, nel 1932, la sua prima opera letteraria, Viaggio al termine della notte, è lo scrittore medico.
Difficilmente tuttavia apprezzando cumulativamente la vita e le opere dei due personaggi, a differenza di come ha fatto qualche critico, si potrà pensare a una separatezza, a una doppia personalità, del medico e dello scrittore.
Altrettanto difficilmente si potrà pensare all’antisemitismo teorizzato e praticato come a un episodio isolato, espressione di una sorta di terza personalità (1937-1941) illustrato soltanto da tre pamphlet:
Bagatelle per un massacro (trad. it., Corbaccio 1938),
La scuola dei cadaveri (trad. it., Edizioni Soleil 1997),
La bella rogna (trad. it., Fata Morgana 1981).

Ancora difficile sarebbe pensare, come ha suggerito qualcuno, che è esistito un Destouches-Céline comunista, o per lo meno simpatizzante comunista, solo sino al 1937, quando, dopo una visita in Unione Sovietica, formalmente per reclamare e spendere i diritti dei suoi libri tradotti, pubblica un terribile pamphlet antisovietico, Mea culpa (trad.it, Scheiwiller 1975).
Infine, travagliati ma non indice di sicuro pentimento dell’adesione al nazismo, risultano le ultime prove letterarie, la Trilogia del Nord (Da un castello all’altro, Nord, Rigodon), tradotte in Italia nei primi anni Settanta e oggi disponibili in un unico volume (Einaudi 2010). Dunque abbiamo a che fare con un individuo dotato di una certa coerenza, anche spregevole, che solleva, parlandone senza ritegno, problemi personali, sociali da lui direttamente interpretati, importanti e irrisolti e con prospettive che non fanno scorgere nulla di buono, alcuna soluzione, operando abitualmente in maniera politicamente e moralmente scorretta.
Alla fine Céline risulta essere tante cose assieme: populista, volontario in guerra, pacifista, anticolonialista, cosmopolita, anarchico e nichilista, animalista, medico dei poveri, irreligioso e antimassone, igienista e temperante (non beve e non fuma), riservato, affettuoso; tutte queste cose e anche il contrario di esse, o di quasi tutte. È per tali motivi che l’autore e l’uomo Céline è ammirato da alcuni, una ristretta élite intellettuale, osannato da scalmanati che evocano principalmente il suo antiebraismo, guardato con timore dalla maggioranza.
Prima di affrontare gli scritti più direttamente medici e igienici di Céline è opportuno soffermarsi sul Viaggio, un affresco dell’umanità, quella della guerra, dell’industrializzazione, delle colonie, del lavoro industriale, dell’alienazione metropolitana, della miseria delle periferie, delle aridità delle coscienze. In questo scenario si muove lo sconsolato e ironico medico Ferdinand Bardamu che, ferito durante la Prima guerra mondiale e in convalescenza a Parigi, conosce l’americana Lola; si ritrova in Africa; incorre in una serie di avventure sia tragiche sia buffe; raggiunge fortunosamente l’America e si arruola nel servizio immigrazione e nell’industria automobilistica; ritrova Lola, si fa prestare fraudolentemente del denaro e torna in Francia; apre uno studio medico in provincia, dove conoscerà una realtà macabra. Bardamu, dopo un tortuoso ma vitale percorso, iniziato nel buco nero della guerra sbocca al fondo, nel buco ancora più oscuro della morte. La narrazione, incalzante è ricca di esercizi fonici, di slittamenti semantici, di paratassi, di puntini che non assumono soltanto il significato della sospensione. Quelli che seguono sono delle citazioni (tratte dalle edizione dall’Oglio del 1962) scelte perché esprimono più da vicino impressioni o concetti medici molto influenti nell’opera complessiva:


– « I malati non mancavano, ma non c’erano molti che potessero o volessero pagare. La medicina è una cosa ingrata. Quando ci si fa pagare dai ricchi s’ha l’aria d’essere un domestico, e dai poveri ci si diventa un ladro. ‘Onorari’! Quella è una parola! Non ne hanno già abbastanza per mangiare o per andare al cine, i malati, e volete ancora cavarci dei baiocchi per pagare gli ‘onorari’? Soprattutto proprio nel momento che tiran le cuoia. Non è comodo. Si lascia perdere. Si diventa cortesi. E s’è fottuti. » [pag. 277]

– « I miei clienti invece erano degli egoisti, dei poveri, dei materialisti concentrati nei loro progettacci di pensione, ottenuta con lo sputo sanguigno e positivo. Il resto era loro indifferente, persino le stagioni erano loro indifferenti. In fatto di stagioni sentivano e volevano conoscere solo quella che aveva un rapporto con la tosse e la malattia. » [pag. 348]


Numerose sono poi, sempre nel Viaggio, le sentenze riguardanti l’esperienza alla Ford di Detroit che assumono un significato sostanzialmente diverso da come gli stessi argomenti vengono trattati negli scritti più propriamente igienici e in quelli che qualcuno, forse arditamente, chiama di medicina del lavoro. Nell’opera letteraria il lavoro standardizzato, quello osservato e descritto alla Ford di Detroit, viene condannato, se ne rilevano gli eccessi e gli effetti perversi intollerabili, la disumanità che disumanizza, la passività e la subalternità in cui cadono e sono tenuti gli operai. In questo contesto sono inserite espressioni forti di condanna del taylorismo: «Il girone infernale del lavoro», «rimbambimento industriale» («gâtisme industriel»), «Atrocità materiale della fabbrica» e ciò anni prima che altri autori, da Sinclair a Chaplin, descrivessero o rappresentassero le stesse condizioni. Ecco alcuni esempi:


 – « Quel che ci trovavano di buono da Ford, m’ha spiegato un vecchio russo in via di confidenze, è che si accettava qualunque persona e qualunque cosa ‘Solo, stai attento – m’ha aggiunto perché mi sapessi regolare – non bisogna far grane da lui, ché se pianti grane ti scaraventano alla porta in quattr’e quattr’otto, e sarai in quattr’e quattr’otto sostituito da una delle macchine meccaniche che hanno sempre a portata di mano e allora non ci hai più mezzo di rientrarci!’ » [pag. 235]

– « Non vi serviranno a nulla i vostri studi qui, ragazzo mio! Voi non siete venuto qui per pensare, ma per fare i gesti che vi si comanderà d’eseguire … Non abbiamo bisogno di immaginativi nell’officina. L’è di scimpanzè che abbiamo bisogno. Un consiglio ancora. Non parlate mai più della vostra intelligenza! Ci saranno altri che penseranno per voi! Tenetevelo per detto. » [pag. 236]

– « Tutto tremava nell’immenso edificio e anche noi dai piedi alle orecchie possedute da quel tremore, le scosse venivano da vetri e dal pavimento e dalla ferraglia, vibrate dall’alto in basso. Si diventava macchine per forza e con tutta la propria carne ancor tremante in quel rumore di rabbia enorme che prendeva il di dentro e il giro della testa e più e più in basso agitava le trippe e risaliva agli occhi in leggeri colpi precipitati, infiniti, continui. A misura che s’avanzava, perdevamo dei compagni. Si faceva loro un sorrisetto lasciandoli come se tutto quel che succedeva fosse pura cortesia. Non si poteva più né parlare né sentire. Ne rimanevamo ogni volta tre o quattro intorno a una macchina. » [p. 236-237]



La tesi di laurea in medicina di Destouches
La tesi di laurea in medicina inizia con un colpo di fulmine, uno stratagemma storico-narrativo rappresentato dal clamore della rivoluzione, «Mirabeau gridava così forte che Versailles ebbe paura»; l’Europa partorisce con dolore una nuova era, febbrile e solo dopo anni si instaura una epoca di “convalescenza”; è in questa contesto che nasce Semmelweis. La conclusione è piuttosto lirica, ma centrata su di una inconfutabile verità storica:


« Fu un grandissimo cuore e un grande genio medico. Egli rimane, senza alcun dubbio, il precursore clinico dell’antisepsi, perché i metodi da lui preconizzati per evitare la febbre puerperale sono ancora, e sempre saranno d’attualità. La sua opera è eterna. Tuttavia nella sua epoca, venne assolutamente misconosciuta. … sembra che la sua scoperta superasse le forze del suo genio. E questo fu forse la causa profonda di tutte le sue sventure. »
[Il dottor Semmelweis, Adelphi 1975, p. 102-103]



Come scrive Guido Ceronetti nella sua acrobatica e scoppiettante postfazione, Céline evoca «la religione laica dell’affamato d’anima che cercava qualcuno da adorare, il santo, il profeta, l’eroe» [pag. 111] e dimostra ampiamente che si tratta di «una squisita agiografia laica, che racconta un solo miracolo e dopo poco pagine precipita il suo santo nel martirio finale» [pag. 112]. È una storia romanzata di grande impatto condotta dall’autore con licenze letterarie poco apprezzate da storici della medicina accademici. Sherwin B. Nuland (Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignàc Semmelweis, Codice Edizioni, Torino 2004) nella sua bibliografia la liquida con due parole: «alquanto confusa» (pag. 145). Altri autori si sono impegnati, ma senza ledere minimamente il valore intrinseco e comunicativo dell’opera, a elencare numerosi errori od omissioni riguardanti date, nomi, percentuali di ammalate e di morti; in particolare vengono contestati alcuni aspetti della persecuzione del medico ungherese e più di tutti il finale truculento, quello della autoinoculazione e del suicidio […].


Finale di partita che merita di essere letto:

«C’era un cadavere, sul marmo, al centro, per una dimostrazione, Semmelweis, impadronitosi di uno scalpello, si apre un varco fra gli allievi, rovesciando varie sedie, si accosta al marmo, e, prima che si riesca a impedirglielo, incide la pelle del cadavere, taglia nei tessuti putridi, abbandonato ai suoi impulsi, strappando lacerti di muscoli che poi scaglia lontano. Accompagna le sue mosse con esclamazioni e frasi sconnesse … fruga con le dita e con la lama al tempo stesso in una cavità cadaverica gocciolante di umori. Con un gesto più brusco degli altri si taglia in profondità. La ferita sanguina. Grida. Minaccia. Viene disarmato. Circondato. Ma è troppo tardi … si è infettato mortalmente. » [pag. 98]


I testi “igienici” e di “medicina sociale” di Destouches-Céline
Una raccolta degli scritti medici di Céline è stata pubblicata per la prima volta da Gallimard nel 1977 (Semmelweis et autres écrits médicaux, a cura di J-P. Dauphin e H. Godard, Cahier Céline 3) Si tratta di tutti quelli conosciuti, adeccezione di uno (La santé publique en France, Monde, n. 92, 8 mars 1930, 35-36). Solo una parte di questi testi sono tradotti in italiano in un volume dal titolo di fantasia (I Sotto uomini, Testi sociali, a cura di Giuseppe Leuzzi, Shakespeare and Co., 1993) e cioè:
Nota sull’organizzazione sanitaria degli stabilimenti Ford a Detroit, del 1925);
Nota sul servizio sanitario della Compagnia Westinghouse a Pittsburgh, del 1925;
Per abbattere la disoccupazione abbatteranno i disoccupati? (Le Mois, 1 février 1933, 57-60);
La medicina alla Ford (Lectures 40, n°4, 1 août 1941 et n. 5, 15 août 1941);
Le assicurazioni sociali e una politica economica della salute pubblica (La Presse Medicale, n. 94, 24 novembre 1928, 1499-1501).


Nella raccolta italiana compaiono anche due brevi scritti assenti nella raccolta francese, Luisiana I e Luisiana II del 1925, relazioni dattiloscritte come le altre dello stesso anno scritte da Céline in occasione del suo viaggio per conto della Società delle nazioni e conservate nell’archivio storico dell’Organizzazione mondiale della sanità di Ginevra. Sono disponibili dunque solo in francese gli altri testi:
A propos du service sanitaire des usines Ford à Detroit, Bulletins et Mémoires de la Société de medécine de Paris, n. 10, 26 mai 1928, 303-312;
Essai de diagnostic et de thérapeutique méthodiques ‘en série’ sur certains malades d’un dispensaire, Bulletins et mémoires de la Société de medécine de Paris, n. 6, 22 mars 1930, 163-168;
Mémoire pour le cours des hautes etudes, 1932 (inedito sino al 1977).


Si tratta complessivamente di un corpus che èstato studiato a fondo da più autori francesi negli ultimi anni e ultimamente con una monografia da David Labreure (Louis Ferdinand Céline, une pensée médicale, Editions Publibook, 2009). Dettagliata è anche l’analisi fatta in precedenza da Philippe Roussin (Destouches avant Céline: le taylorisme et le sort de l’utopie hygiéniste. Une lecture des écrits médicaux des années vingt, Sciences Sociales et Santé, 1988, 3-4, 5-48).


La lettura degli scritti “medici” di Céline più o meno influenzata dagli scritti specialistici riportati sopra porta a fare alcune considerazioni essenziali.
Si tratta nella quasi totalità di quella che alcuni chiamano “letteratura grigia”, d’occasione (come le relazioni prodotte in occasione del viaggio negli stati Uniti del 1925), in alcuni casi rielaborata in anni successivi; oppure si tratta dei testi di interventi svolti in riunioni di società scientifiche e sono frutto della propria esperienza professionale che, in qualche caso, offre il destro alla formulazione di una teoria generale.
Un nucleo preponderante di questi scritti fa riferimento al lavoro e si capisce che l’autore è stato profondamente colpito dalla novità e dall’importanza di ciò che verrà inteso come fordismo. Si dimostra convinto della ineluttabilità del lavoro come condizione di guerra permanente, della fabbrica come campo di battaglia, dei lavoratori come soldati prima votati al sacrificio e poi reduci invalidi. Ed ecco il rimedio a questo stato di cose: l’igiene non può che divenire «una medicina militare» capace di gestire gli invalidi, di mantenerli nei luoghi di lavoro sfruttando ancora delle capacità residue che si deve materializzare proprio nella organizzazione produttiva inaugurata da Ford. Viene prefigurato un «capitalismo organizzatore» che eroga, a partire dalle grandi fabbriche, una «medicina razionalizzata, preventiva, collettiva». I malati cronici, gli invalidi, i reduci di ogni tipo di guerra dovranno essere inseriti o rimanere nella produzione con una speciale sorveglianza sanitaria dove i medici dell’azienda sono anche sociologi che si recano a casa dei lavoratori per curarli ed educarli: il medico, a differenza di come opera il paternalismo cattolico, deve saper riconoscere nella malattia la colpa individuando le condotte da correggere. Ne risulta un “igienismo industriale” improntato alla congruenza tra razionalizzazione della medicina e razionalizzazione del lavoro che riconduce alle aziende moderne, e non allo stato liberale, la possibilità di aver cura dello stato sanitario della popolazione. Applicando in pieno una tale ipotesi, secondo l’autore, si risolverebbe alle radici il problema delle assicurazioni sociali, il cui compito sarebbe svolto in tutto e per tutto dalle aziende. Viene così enunciata un’utopia igienistico-produttivistica, un controllo feroce della manodopera e il controllo sociale, gli stessi che hanno ispirato Metropolis, il film di Fritz Lang del 1927.

Il titolo dello scritto del 1933 Per abbattere la disoccupazione abbatteranno i disoccupati? è tanto accattivante quanto deludente risulta la lettura del testo. Dopo una visita in Germania Céline indaga le cause del «gran casino» in cui vive tale nazione e afferma che il problema è costituito «anzitutto e soprattutto» dalla massa sottoproletaria, definita come «la miseria tedesca» che sopravvive solo grazie all’assistenza statale; le ingenti risorse utilizzate per sfamare i disoccupati e le loro famiglie potrebbero infatti – a detta dello scrittore – risollevare il Paese dalla crisi economica se diversamente investite; per il futuro Céline auspica che «nella cerchia di Hitler si trovi il dittatore alla disoccupazione che organizzi infine questa miseria anarchica e la stabilizzi a un livello ragionevole».

Franco Carnevale

Fonte: E&P – Epidemiologia e prevenzione, rivista dell’associazione italiana di epidemiologia (2012)



Almanacco – Recensione del libro “Céline segreto” della vedova Lucette Céline


Enciclopedia Treccani online: Céline, Louis-Ferdinand


Zivago, non solo un film

La notorietà del capolavoro di Boris Pasternak “Il dottor Zivago” e oggi probabilmente dovuta al film che vi è stato tratto più che all’originale letterario. Succede quando Hollywood come in questo caso si impegna con una regia di grande capacità, con un cast che più stellare non si potrebbe e con una colonna sonora che è rimasta nell’immaginario collettivo. L’efficacia della pellicola non deve fare però dimenticare che fu questo libro a determinare la scelta dell’accademia di Stoccolma di assegnare il Nobel per la letteratura allo scrittore, che non poté ritirarlo poiché le autorità sovietiche gli negarono il permesso. Del resto l’opera, raccontando le tragiche vicende della rivoluzione russa, costituiva per il rigido regime di Mosca un problema a dir poco imbarazzante. All’interno di questo scenario politico si svolgono le non meno drammatiche vicende d’amore del medico eponimo, al quale sul grande schermo resta il volto Omar Sharif, attore icona dell’epoca


Russia, anni ’10. Yurij Zivago è un giovane e brillante studente di medicina con un’inclinazione per la poesia; l’uomo sta completando i suoi studi ed è fidanzato con la cugina Tonya. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Yurij si reca al fronte per prestare i suoi servizi come medico; qui ritrova Lara, una ragazza che aveva conosciuto anni prima a Mosca e della quale si scopre innamorato…

Il dottor Zivago, filmato nel 1965 dal regista inglese David Lean, autore di classici quali Il ponte sul fiume Kwai e Lawrence d’Arabia, rappresenta senza dubbio uno degli eventi cinematografici più importanti di tutti i tempi: un film sontuoso ed indimenticabile, consacrato fra le pellicole più famose ed amate che siano mai state realizzate. Tratto dal celeberrimo romanzo dello scrittore russo Boris Pasternak, adattato per lo schermo da Robert Bolt, Il dottor Zivago è passato alla storia come uno dei maggiori colossal di Hollywood, con quasi un anno di riprese per una durata di oltre tre ore. Prodotta dall’italiano Carlo Ponti per la MGM e costata 11 milioni di dollari, l’opera si è rivelata un successo di pubblico senza precedenti, con 110 milioni incassati al botteghino americano e circa 250 milioni di spettatori in tutto il mondo; all’epoca, è diventato il quarto film più visto di sempre negli Stati Uniti (120 milioni di spettatori), ed ancora oggi rimane fra i primi dieci in assoluto.
Rispetto al libro di Pasternak, che alla sua pubblicazione aveva provocato notevole clamore per i suoi contenuti politici ed era stato bandito dall’Unione Sovietica, il film di Lean (girato tra la Spagna, la Finlandia e il Canada) riduce gli aspetti prettamente storici e sociali della vicenda per soffermarsi invece sull’amore travagliato fra i due protagonisti: il dottor Yurij Zivago e la bella infermiera Lara, interpretati rispettivamente dal popolare attore egiziano Omar Sharif e da una splendida Julie Christie; al loro fianco, un cast stellare formato da giovani talenti emergenti (Geraldine Chaplin, Tom Courtenay, Rita Tushingham) e da affermati veterani (Rod Steiger, Alec Guinness, Ralph Richardson). Riuscendo a fondere la maestosità della ricostruzione scenica con il gusto per il racconto epico e sentimentale, Lean ci regala uno spettacolo decisamente coinvolgente, che si avvale di una galleria di personaggi ben caratterizzati e di una regia magistrale, efficace soprattutto nelle scene di massa e nelle panoramiche mozzafiato.
I grandi eventi storici della Russia di inizio secolo (la Rivoluzione bolscevica, la guerra civile, la nascita del regime socialista) si intrecciano con le passioni private dei vari personaggi, le cui esistenze sono ripercorse tramite la voce narrante del fratello di Yurij, il generale Yevgraf Zivago (Guinness), in un prologo introduttivo ambientato diversi decenni più tardi. Da antologia la stupenda colonna sonora composta da Maurice Jarre, incluso il mitico Tema di Lara, memorabile leit-motiv della pellicola. Presentato al Festival di Cannes nel 1966, Il dottor Zivago è stato un trionfo mondiale ed ha ottenuto cinque premi Oscar (sceneggiatura, musiche, fotografia, scenografia e costumi) e cinque Golden Globe.

Stefano Lo Verme

Fonte: MyMovies

Michael Bulgakov: Margherita e…

Tra storia d’amore e persecuzione sovietiche, un capolavoro senza tempo ma con un po’ di satira


Michail Bulgakov ha legato per sempre la sua notorietà di scrittore a “Il maestro e Margherita”, uno dei romanzi più celebri e amati della letteratura degli ultimi secoli, storia allo stesso tempo surreale, dove entrano da protagonisti elementi metafisici e magici, il ritratto impietoso della società staliniana. Un’ambivalenza che mise in difficoltà lo stesso dittatore sovietico, il quale concesse allo scrittore un particolare regime di “quasi libertà”. Dal punto di vista della salute e della malattia, però, è per noi più interessante il libro nel quale Bulgakov raccontò in modo realistico ma affabulatorio, umoristico e drammatico nello stesso tempo, i suoi incerti esordi come medico, catapultato senza supporto né preparazione sufficienti in una sperduta condotta siberiana. La serie di aneddoti ed episodi che l’autore riferisce è riconducibile ad un messaggio crudo e ineludibile: per il giovane medico i pazienti sono una sorta di cavie sulle quali formare l’esperienza professionale. Le vicende che il grande romanziere descrive fanno ovviamente riferimento a una pratica molto diversa da quella dei nostri giorni, nei quali le scelte dei sanitari sono supportate da strumentazioni, tecnologia e, quindi, dati obiettivi. Lo scrittore medico si trova invece a dover intervenire in presenza di un parto podalico oppure a dover eseguire una indispensabile amputazione senz’altro conforto che quello di improvvisati assistenti, trovandosi costretto persino a correre nella propria stanza per dare un’occhiata ai libri di testo e ripassare l’argomento del quale, nella concitata emergenza di cui è spesso fatta la sanità, non ricorda nulla.

Redazione CNR


Michail Bulgakov, “Il maestro e Margherita”, Einaudi (2014)


RaiPlaySound – Rai Radio 3 , Audiolibri ad alta voce – Il maestro e Margherita

Una semplice azione contro le infezioni puerperali

Dimostrazione dell’ammirazione che un allievo ha per il suo meastro, Louis-Ferdinand Céline, dottore e scrittore francese, scrive una tesi sulla vita del suo mentore, il dottor Semmelweis, e della sua scoperta riguardo all’importanza dell’igienizzazione delle mani da parte dei medici prima di occuparsi del paziente


Prima di diventare Céline, cioè uno degli scrittori grandissimi del nostro secolo, Céline fu lo studente di medicina Louis-Ferdinand Destouches. Come tale dedicò la sua tesi, nel 1924, alla vita di uno degli eroi scientifici dell’Ottocento: Ignazio Filippo Semmelweis, il debellatore dell’infezione puerperale – che falciava allora migliaia e migliaia di vite – grazie a una scoperta enorme, eppure semplicissima: osservò che le puerpere venivano visitate dai medici che avevano appena sezionato cadaveri e non pensavano certo a lavarsi le mani. Imponendo la disinfezione, Semmelweis si rivelò l’unico non colpito dalla mostruosa cecità del suo secolo, che trattava morte e nascita come fossero la stessa cosa. Con lo slancio entusiastico di un giovane adepto della scienza, Céline traccia in questo testo la vita di un puro, trascinato dal destino alla sua scoperta e, insieme con essa, a un clamoroso susseguirsi di incomprensioni e persecuzioni, che lo spingeranno alla follia e a una morte atroce. Ma il materiale sembra trasformarsi nel corso del libro: al destino di Semmelweis si sovrappone quello, non ancora vissuto, di Céline stesso, il suo senso costante di persecuzione e di isolamento, la sua sete di colpa e di tortura; alla prosa classica e nitida, quasi da immacolato compito scolastico, su cui il testo è costruito, si sostituisce, per squarci, la prosa forsennata del Céline maturo, scandita dai suoi prodigiosi tre puntini, abitata da quella petite musique che, una volta udita, non si può dimenticare.

Adelphi Editore


Louis-Ferdinand Céline, “Il dottor Semmelweis”, Adelphi (2020, 23ª ediz.)


Almanacco – Saggi: Enciclopedia cronologica della scienza

Enciclopedia Treccani online – Semmelweis, Ignác Fülöp

Cronin, quando la cura diventa eroismo

Lo scrittore scozzese Archibald J. Cronin è una delle figure più note del medico scrittore ed è soprattutto l’autore dei romanzi dove questa figura professionale viene descritta nel modo più limpido quasi eroico. La cura del paziente e del malato viene raccontata come una missione


Archibald Joseph Cronin, medico e scrittore nato il 19 luglio 1896 nella contea di Dumbartonshire, Scozia. Laureatosi all’università di Glasgow e prestato servizio come medico chirurgo nella Royal Navy durante la Prima Guerra Mondiale, poi esercitò presso i minatori del Galles e da qui si interessò dei loro problemi sociali. Ritiratosi alle coste di Loch Fyne per un lungo periodo di riposo dopo una diagnosi di un’ulcera cronica nel 1930, si dedicò alla scrittura del suo primo romanzo, “Il castello del cappellaio”, pubblicato l’anno seguente. Segnò il suo successo per gli anni a venire, tanto che mise da parte lo stetoscopio per impugnare la penna.
In italia le opere di Cronin fecero molta fama soprattutto grazie alle riproduzioni televisive, in particolare “E le stelle stanno a guardare” e “La Cittadella”. Ma non furono le uniche opere ad andare sul grande e piccolo schermo.
Continuò a scrivere senza sosta fino all’età di ottanta anni, poi morì a Montreux, Svizzera, il 6 gennaio 1981.

Redazione CNR


Wikipedia – A.J. Cronin

Bompiani Editore – Autori – Archibald Joseph Cronin

Enciclopedia Treccani online – Cronin, Archibald Joseph

Dalla Cittadella alle stelle, quando la serie si chiamava sceneggiato

Le miniserie televisive italiane degli anni ’60 – ’70 che incantarono il pubblico con il personaggio del buon dottore


È una televisione ancora molto ingenua, in bianco e nero, quella che rende due opere di Archibald J. Cronin celeberrime tra gli spettatori italiani: “La cittadella” e “Le stelle stanno a guardare”. Sono i tempi nei quali le serie televisive si chiamano ancora sceneggiati e tengono inchiodati davanti al televisore milioni di persone, che si emozionano e commuovono davanti alle storie strappalacrime del medico scrittore britannico, grazie anche alle partecipate interpretazioni di noti attori dell’epoca come Alberto Lupo.

Redazione CNR


Rai Play – La cittadella (1964), lo sceneggiato dal romanzo di Archibald Joseph Cronin

Bompiani Editore:
A.J. Cronin, “La Cittadella”
A.J. Cronin, “E le stelle stanno a guardare”

Wikipedia:
La cittadella (miniserie televisiva 1964)
E le stelle stanno a guardare (miniserie televisiva 1971)