Giovanni Boccaccio, Decameron, 1350-1353

L’autore descrive la peste che colpì Firenze (e l’Europa intera) nel 1348, concentrandosi sul degrado morale della società che l’epidemia ha portato con sé in città. Sette ragazze e tre giovani uomini decidono di allontanarsi dalla città, ormai allo stremo, e ritirarsi nella campagna fiorentina


Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata.

[…] E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento quasi tribulazione entrata n’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna e il suo marito; e , che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.

Tito Lucrezio Caro, De rerum Natura, I a.C

Questo era più miserabile e doloroso, che quando ciascuno vedeva se stesso avvinto dal male, da esserne votato alla fine, perdutosi d’animo, giaceva con cuore dolente, e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.


Ora spiegherò quale sia la causa delle malattie e donde

la forza maligna possa sorgere d’un tratto e arrecare esiziale

strage alla stirpe degli uomini e alle torme degli animali.

Anzitutto, sopra ho insegnato che esistono semi

di molte cose che per noi sono vitali,

e per contro è necessario che ne volino molti altri che causano

malattia e morte. Quand’essi per casuale incontro

si son raccolti e han perturbato il cielo, l’aria si fa malsana

Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore

e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi.

La gola, inoltre, nell’interno nera, sudava sangue,

e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava,

e l’interprete dell’animo, la lingua, stillava gocce di sangue,

infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.

Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia

aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto

dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.

Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,

simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.

Questo era più miserabile

E doloroso, che quando ciascuno vedeva se stessoe

avvinto dal male, da esserne votato alla fine,

perdutosi d’animo, giaceva con cuore dolente,

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

E benché sulla terra giacessero insepolti mucchi di corpi

su corpi, tuttavia gli uccelli e le fiere o fuggivano

balzando lontano, per evitare l’acre puzzo,

oppure, se li assaggiavano, languivano per morte imminente.

E infatti ormai né la religione, né la maestà degli dèi

contavano molto: il dolore presente aveva il sopravvento.


Tucidide, Guerre del Peloponneso, V sec a.C

Un testo storico, scientifico, se lo giudicassimo con i parametri di oggi. I dettagli della descrizione anticipano modalità e concetti moderni


Erano nell’Attica solo da pochi giorni, quando il morbo cominciò a manifestarsi per la prima volta tra gli Ateniesi, benché si dicesse che anche prima fosse scoppiato in molti luoghi, nelle vicinanze di Lemno e in altre terre, e non si ricordava che ci fosse stata da nessuna parte né una pestilenza simile (a questa), né una tale strage di uomini. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta, ma morivano più degli altri, in quanto più (degli altri) si avvicinavano (ai malati), né serviva nessun’altra tecnica umana; per quanto si formulassero suppliche nei templi o si ricorresse agli oracoli e a cose del genere, tutto si rivelò inutile, alla fine rinunciarono a questi tentativi, vinti dal morbo funesto.

Dica dunque riguardo a ciò ciascuno a seconda delle sue conoscenze sia il medico sia il profano, da che cosa era probabile che essa fosse sorta, e (dica) quali cause di un simile sconvolgimento ritiene siano capaci di avere una forza (tale da provocare) il cambiamento (dello stato di salute); io invece dirò quale fu e in base a quali sintomi uno, dopo un’attenta osservazione, sarebbe massimamente in grado di riconoscerla sapendone in precedenza qualche cosa, casomai scoppiasse una seconda volta, quei sintomi mostrerò, poiché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati.

[…] il corpo, a toccarsi esteriormente, non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; […] la maggior parte morivano dopo nove o sette giorni per l’ardore interno, ancora in possesso di qualche forza; oppure, se scampavano, con lo scendere della malattia negli intestini, e col prodursi di una forte ulcerazione e il sopraggiungere di una diarrea violenta, i più morivano in seguito, sfiniti per questa ragione.

Omero, Iliade, 750 a.C. circa

Alle origini della letteratura occidentale, anche se forse non ci pensiamo, c’è una scena legata alla malattia, alla pestilenza inviata dagli Dèi irati


Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio s’adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atride e il divo Achille.
E qual de’ numi inimicolli? Il figlio
di Latona e di Giove. Irato al Sire
destò quel Dio nel campo un feral morbo,
e la gente perìa: colpa d’Atride
che fece a Crise sacerdote oltraggio.

Se ti abbraccio, non avere paura

Per certi viaggi non si parte mai quando si parte. Si parte prima. A volte molto prima. Sono bastate poche parole: “Suo figlio probabilmente è autistico”


Il verdetto di un medico ha ribaltato il mondo. La malattia di Andrea è un uragano, sette tifoni. L’autismo l’ha fatto prigioniero e Franco è diventato un cavaliere che combatte per suo figlio. Un cavaliere che non si arrende e continua a sognare. Per anni hanno viaggiato inseguendo terapie: tradizionali, sperimentali, spirituali. Adesso partono per un viaggio diverso, senza bussola e senza meta. Insieme, padre e figlio, uniti nel tempo sospeso della strada. Tagliano l’America in moto, si perdono nelle foreste del Guatemala. Per tre mesi la normalità è abolita, e non si sa più chi è diverso. Per tre mesi è Andrea a insegnare a suo padre ad abbandonarsi alla vita. Andrea che accarezza coccodrilli, abbraccia cameriere e sciamani. E semina pezzetti di carta lungo il tragitto, tenero pollicino che prepara il ritorno mentre suo padre vorrebbe rimanere in viaggio per sempre. Se ti abbraccio non aver paura è la storia di un’avventura grandiosa, difficile, imprevedibile. Come Andrea. Una storia vera. Da questo romanzo Gabriele Salvatores ha tratto il suo ultimo film.

LA STORIA DI FRANCO E ANDREA
Un mattino senza scuola, Fulvio Ervas guarda scorrere il mondo dal tavolino di un bar. “Ehi, tu scrittore” lo apostrofa un tipo con occhi da Richard Gere “ho una storia per te. Sei uno scrittore, vero? Mi han detto che sei uno scrittore, e di quelli bravi”. “Sì” risponde Fulvio incerto “scrivo storie di fantasia”. “Allora ascoltami” dice l’uomo, che nel frattempo ha detto di chiamarsi Franco e ha ordinato uno spritz, “perché la storia che voglio raccontarti ha la forza della vita vera e la bellezza di un sogno”. Comincia così un dialogo durato un anno intero, sotto la pergola dell’uva fragola, sul divano di casa Ervas. Franco racconta di Andrea, della loro avventura attraverso le Americhe. Fulvio è incantato dalla sua energia, dal coraggio di quel padre che ama disperatamente suo figlio e vuole regalargli a ogni costo tutta la vita che può, tutta la bellezza che può: in barba a quell’autismo maledetto. Un giorno anche Andrea entra in giardino, con i suoi delicati saltelli sulle punte, con la sua smania di abbracciarti, di toccarti la pancia, di dirti ‘bella’, ‘bello’. E la sua mano percepisce in un istante come stai veramente. La mente di Fulvio parte, elabora immagini, corre con quell’Harley Davidson su strade a perdita d’occhio. Segue la danza di Andrea, che sembra sempre sul punto di spiccare il volo. Trasforma il racconto di Franco in un romanzo che affonda nel cuore e fa decollare le emozioni. “Io e Andrea attraverseremo tutte le Americhe possibili e immaginabili: due o tre, quelle che incontreremo. Ce ne andremo a zonzo, come esploratori.” Il nuovo romanzo di Fulvio Ervas affronta un tema di grande impatto: la vita con un figlio ‘diverso’. Lo fa con slancio e umorismo. “Credo che il viaggio che vorrei fare con Andrea sia una sfida nella sfida, siamo in movimento, non aspettiamo che la vita ci scarichi a una fermata.” Narrando l’avventura di Franco e Andrea tra deserti, foreste e città, Se ti abbraccio non aver paura parla di alchimie amorose, trappole nascoste dietro uno sguardo, sogni degni di una vita intera. Della forza dirompente dell’abbraccio di Andrea.

Fulvio Ervas


Fonte: Marcos y Marcos


Fulvio Ervas, “Se ti abbraccio non aver paura”, Marcos y Marcos Editore (2012)



ATTUALITÀ – Corriere della Sera:

Ifigenia in Tauride

Il seguente brano traccia le vicende avvenute al ritorno in patria di Agamennone, il pastore dei popoli: la moglie Clitemnestra, con la complicità del suo amante Egisto, uccide il re. Suo figlio Oreste è chiamato ad uccidere la madre per vendicare il padre.

PILADE
Ma felici sono i mille e mille che morirono
la morte dolceamara per mano del nemico!
Selvaggi orrori e una fine luttuosa
ha preparato invece del trionfo
per i reduci un dio sdegnato e ostile.
La voce degli uomini non viene fino a voi?
Dovunque arriva, diffonde intorno la fama
di fatti inauditi, che sono accaduti.
Così lo strazio che gli atrii di Micene
riempie di sospiri sempre ripetuti,
è un segreto per te? Clitennestra
con l’aiuto d’Egisto ha irretito il marito,
l’ha ucciso il giorno stesso che è ritornato. – –
Sì, tu onori questa casa regale.
Io lo vedo. Il tuo cuore combatte invano
la parola così atroce ed inattesa.
[…]

ORESTE

Il giorno che il padre cadde Elettra
nascose, per salvarlo, il fratello: Strofio,
il cognato del padre, lo accolse volentieri,
lo crebbe accanto al proprio figlio
di nome Pilade, che annodò i vincoli
più belli d’amicizia con il nuovo venuto.
E con la loro età, nella loro anima cresceva
la smania ardente di vendicare la morte
del re. Inattesi, in abito straniero,
raggiunsero Micene, fingendo di portare
la notizia luttuosa della morte d’Oreste
con le sue ceneri. Benevola li accoglie
la regina; loro entrano nella casa.
Oreste rivela a Elettra che è suo fratello;
lei riattizza in lui il fuoco della vendetta,
che alla presenza sacra della madre si era
sopìto. In silenzio lo guida
al luogo dove il padre era caduto,
dove una antica, lieve traccia del sangue
versato con protervia, colorava il suolo
lavato spesso, di funeste strisce sbiadite.
Con la sua lingua di fuoco lei descrisse
tutte le fasi di quell’azione infame,
la sua vita miserabile, da serva,
l’arroganza di quei traditori fortunati
e i pericoli che ora attendevano i fratelli
da parte di una madre divenuta matrigna.
Qui lei lo forza a stringere l’antico pugnale,
strumento di furia atroce nella casa di Tantalo,
e Clitennestra cadde per mano del figlio.

Johann Wolfgang von Goethe

Fonte: http://www.writingshome.com/ebook_files/160.pdf

Il Giocatore

L’anziana Antonida Vasil’evna, in compagnia del protagonista del romanzo, Aleksej Ivànovic, si dedica con fervore al gioco d’azzardo. Dostoevskij descrive in queste pagine memorabili la lenta, progressiva ed inarrestabile metamorfosi dalla curiosità alla ludopatia dell’anziana signora.

La nonna si gettò senz’altro sullo zéro e subito mi ordinò di puntare dodici federici per volta. Puntammo una volta, una seconda, una terza, lo zéro non usciva. «Punta, punta!» mi urtava la nonna impaziente. Io obbedivo.
«Quante volte abbiamo perduto?» ella domandò infine digrignando i denti dall’impazienza.
«Abbiamo già puntato dodici volte, nonna. Abbiamo perduto centoquarantaquattro federici. Ve lo dico, nonna, fino a stasera magari…»
«Taci!» interruppe la nonna. «Punta sullo zéro e punta subito sul rosso mille fiorini. To’, ecco un biglietto.»
Uscì il rosso e lo zéro fece nuovamente cilecca, ci restituirono mille fiorini.
«Vedi, vedi!» sussurrava la nonna «ci han restituito quasi tutto quel che avevamo perduto. Punta di nuovo sullo zéro; punteremo ancora una decina di volte, poi smetteremo.»
Ma alla quinta volta la nonna fu stufa.
«Manda al diavolo questo ignobile zeruccio. To’, punta quattromila fiorini, tutti sul rosso» ordinò.
«Nonna! È molto; e se il rosso non uscisse!» supplicavo; ma la nonna per poco non mi batté. (E del resto tanto mi urtava che quasi si può dire mi picchiasse.) Non c’era che fare, puntai sul rosso tutti i quattromila fiorini vinti poc’anzi. La ruota si mise a girare. La nonna, raddrizzata la persona, stava a sedere calma e orgogliosa, non dubitando della immancabile vincita.
«Zéro» annunciò il croupier.
Sulle prime la nonna non capì, ma quando vide il croupier rastrellare i suoi quattromila fiorini, insieme con tutto quel che c’era sul tavolo, e seppe che lo zéro, che da tanto tempo non usciva e sul quale avevamo perduto quasi duecento federici era balzato fuori, come a farlo apposta, quando la nonna lo aveva appena ingiuriato e abbandonato, mandò un «ah!» e batté insieme le mani da farsi udire in tutta la sala. In giro si rise perfino.«Padri miei! Proprio adesso è saltato fuori il maledetto!» urlava la nonna «ve’, che dannato, che dannato! La colpa è tua! Tutta la colpa è tua!» si scagliò furiosamente contro di me dandomi spintoni. «Sei stato tu a dissuadermi.»
«Nonna, io vi ho detto cose giuste, come posso io rispondere di tutte le probabilità?»

Te le darò io le probabilità!» sussurrava lei minacciosa «vattene, lontano da me.»
«Addio, nonna» e mi voltai per andar via.
«Aleksej Ivanovič, Aleksej Ivanovič, rimani! Dove vai? Be’, perché, perché? Ve’, si è arrabbiato! Scemo! Via, rimani, rimani ancora, via, non adirarti, sono io stessa una scema! Su, dimmi, su, che fare adesso?»
«Io, nonna, non mi prendo la briga di suggerirvi, perché poi incolpereste me. Giocate da voi sola; ordinate, io punterò.»
«Via, via! Su, punta ancora quattromila fiorini sul rosso! Ecco il portafogli, prendi.» Cavò di tasca il portafogli e me lo porse. «Su, prendili in fretta, qui ci sono ventimila rubli in contanti.»
«Nonna» balbettai «tali puntate…»
«Voglio piuttosto morire, ma mi rifarò. Metti!» Puntammo e perdemmo.

Fëdor Dostoevskij

Fonte: Fëdor Dostoevskij, Il Giocatore, traduzione di Alfredo Polledro, Mondadori, 2016

Madame Bovary

Madame Bovary in questo brano ha deciso di darsi la morte con l’arsenico, emulando le grandi eroine del mondo della finzione letteraria d’amore del quale lei è rimasta vittima e prigioniera. La realtà è tuttavia ben diversa dai romanzi d’amore: l’arsenico le procurerà dei dolori inimmaginabili.

Un sapore acre in bocca la svegliò. Intravide Charles e richiuse gli occhi.

Spiava le proprie sensazioni per rendersi conto se cominciasse a star male. Ma no, non ancora. Sentiva il ticchettio della pendola, il rumore del fuoco e Charles, in piedi al suo capezzale, che respirava.

“Ah! È una cosa ben da poco la morte” pensava. “Dormirò e tutto sarà finito!”

Bevve un sorso d’acqua, e si voltò verso il muro. Quell’orribile sapore di inchiostro continuava.

«Ho sete!… Oh! Ho una sete terribile!» sospirò.

«Ma che cos’hai, insomma?» disse Charles, porgendole un bicchiere d’acqua.

«Non è nulla!… Apri la finestra… Soffoco!»

E fu afferrata dalla nausea così d’improvviso che ebbe appena il tempo di prendere il fazzoletto sotto il cuscino.

«Portalo via!» disse con vivacità «Buttalo!»

Charles le fece domande alle quali Emma non rispose. Rimaneva immobile, temendo che la più piccola emozione la facesse vomitare. Sentiva però un freddo di gelo salirle dai piedi fino al cuore.

«Ah! Ecco che comincia!» mormorò.

«Che dici?»

Voltò la testa con un movimento lento, pieno di angoscia, aprendo e chiudendo di continuo la bocca come se avesse avuto sulla lingua qualcosa di molto pesante. Alle otto, i conati di vomito ricominciarono.

Charles osservò sul fondo della bacinella qualcosa di simile a granelli bianchi attaccati alle pareti di porcellana.

«È straordinario! È una cosa stranissima!» ripeteva.

Ma Emma disse ad alta voce:

«No, ti sbagli!»

Allora, delicatamente, quasi la carezzasse, Charles le passò una mano sullo stomaco. Emma gettò un grido acuto. Charles si tirò indietro spaventato.

Poi la signora Bovary si mise a gemere, dapprima debolmente. Grandi brividi le scotevano le spalle e diventava più pallida del lenzuolo nel quale affondava le dita contratte. Il polso, aritmico, era quasi impercettibile, adesso.

Gocce di sudore gemevano dal viso cianotico che sembrava quasi irrigidito nell’esalazione di un vapore metallico. I denti battevano, gli occhi dilatati guardavano vagamente tutto intorno e a ogni domanda Emma rispondeva scotendo il capo; sorrise addirittura una o due volte. A poco a poco i gemiti si fecero più forti. Un urlo soffocato e continuo le sfuggiva; voleva far credere di stare meglio e che ben presto si sarebbe alzata ma le presero le convulsioni, gridava:

«Ah! È atroce, mio Dio!»

Gustave Flaubert

https://www.liberliber.eu/mediateca/libri/f/flaubert/madame_bovary/pdf/flaubert_madame_bovary.pdf

https://www.liberliber.eu/mediateca/libri/f/flaubert/madame_bovary/pdf/flaubert_madame_bovary.pdf

Tutti i racconti di Berto. L’alter Zeno della letteratura italiana





Giuseppe Berto: scrittore, drammaturgo e sceneggiatore. Una notevole vita tra onorificenze, opere letterarie e molto altro


Noto soprattutto per “Il male oscuro”, che su queste pagine abbiamo definito come il più importante romanzo italiano sulla psicanalisi insieme con “La coscienza di Zeno”, Giuseppe Berto fu anche un prolifico autore di racconti, che raccolti a suo tempo dallo scrittore stesso e ora nuovamente usciti in volume con la Bur. Al tema del male di vivere, qui, si accompagnano molti altri spunti, in particolare i ricordi militari dell’autore che formano in titoli quali: “La colonna Feletti”, “Avvenimento a Hereford”, “Sosta a Cassino”, “La vita militare”.
La scrittura tracima spesso nell’autobiografia vera e propria. Né vi è alcuna distinzione, in fondo nella narrativa bertiana, tra questi due aspetti, l’introspezione e la memoria. Tutte le scelte compiute dall’autore furono infatti improntate a una continua ‘uccisione del padre’: la scelta di arruolarsi, di combattere, di vestire la divisa fascista e rifiutarsi di collaborare con gli alleati, e poi quelle di ingaggiare contro la consorteria intellettuale a lui coeva una guerra polemica inesausta e dagli accenti talvolta eccessivamente acrimoniosi.
Lo scrittore di Mogliano Veneto, pure, ebbe ammiratori del calibro di Hemingway, ottenne un notevole riscontro anche all’estero e agguantò tra l’altro con ‘Il male oscuro’, nel 1964, una straordinaria doppietta: premio Viareggio e Campiello. Ma nemmeno il successo poté lenire un’insoddisfazione esistenziale che affondava in un rapporto così intimo e compromesso, che ebbe il suo climax con l’agonia paterna.

Giuseppe Berto fu “ostracizzato con livore oppure trascurato con simulata indifferenza quando era in vita” ed “è tuttora celato dalla cortina della rimozione letteraria”. L’affermazione di Paola Culicelli può essere difficilmente smentita. “Per qualche motivo sull’autore grava una damnatio memoriae”, prosegue l’autrice del saggio “La coscienza di Berto” sullo scrittore di Mogliano Veneto che, pure, ebbe ammiratori del calibro di Hemingway, ottenne un notevole riscontro anche all’estero e agguantò tra l’altro con ‘Il male oscuro’, nel 1964, una straordinaria doppietta: premio Viareggio e Campiello.
Proprio il successo, anzi, fu probabilmente una delle ragioni dell’ostilità dell’establishment culturale, insieme con un ‘eccesso’ di fascino che lo scrittore non mancò di usare con le donne, e con la scorrettezza politica: “Dando alle stampe prima Il Brigante e poi Guerra in camicia nera“, ricorda l’autrice, egli “si inimicò” sia gli anticomunisti sia gli antifascisti. Un attacco effettivamente malmostoso a Dacia Maraini, poi, non migliorò certo i rapporti di Berto con i colleghi.
Dopo il pregevole lavoro di Dario Biagi di qualche anno fa, arriva adesso a recuperare almeno parte della distrazione dei critici questo volume che però non si configura tanto come una biografia quanto come un saggio mirato all’aspetto centrale dell’opera più famosa dell’autore, assunta quale segnavia di tutta la sua produzione. In effetti, dopo ‘La coscienza di Zeno’, come la crasi del titolo del saggio di Cucinelli vuol far intendere, ‘Il male oscuro’ rimane il più importante romanzo italiano dedicato alla psicanalisi.
“Aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Eppure sono convinto che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una malattia”, scrive Berto, il cui senso di colpa gli viene trasmesso, secondo la diagnosi piuttosto classica della studiosa, dal padre, che in effetti fu sul piano storico un tipico Super-Io, perennemente insoddisfatto del figlio, per il quale ebbe solo espressioni denigratorie e sfiduciate. Un rapporto che conobbe il suo momento topico proprio “nel frangente estremo dell’agonia paterna” e che lo scrittore tentò di risolvere con tre anni di terapia, incapaci però di liberarlo del tutto da imprinting, fobie e cicatrici caratteriali quali l’ipocondria (“la fissazione maniacale di essere ormai segnato, condannato a essere ghermito dal cancro”), le dimostrazioni di coraggio come quella esibita con l’arruolamento volontario e soprattutto uno stato depressivo cronico, a quei tempi si parlava di “esaurimento” che lo portarono a una continua “spola da un medico all’altro”, alternata alle più varie auto-prescrizioni.

Marco Ferrazzoli


Giuseppe Berto, “Tutti i racconti”, Rizzoli (2012)
Paola Culicelli, “La coscienza di Berto”, Le Lettere (2012)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni – Tutti i racconti di Berto
Fonte: Almanacco CNR – Recensioni – L’alter Zeno della letteratura italiana


Giuseppe Berto – Biografia

Maledetto Malaparte

Ecco una serie di stralci da “La pelle”, il romanzo di Curzio Malaparte che racconta l’arrivo dei soldati americani a Napoli sotto la metafora di una “peste” morale


« È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla.
[…]
Nessun popolo sulla terra ha mai tanto sofferto quanto il popolo napoletano. Soffre la fame e la schiavitù da venti secoli, e non si lamenta. Non maledice nessuno, non odia nessuno: neppure la miseria. Cristo era napoletano.
[…]
Voglio bene agli americani, qualunque sia il colore della loro pelle, e l’ho provato cento volte, durante la guerra. Bianchi o neri, hanno l’anima chiara, molto più chiara della nostra. Voglio bene agli americani perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché credono che Cristo sia sempre dalla parte di coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa grave aver torto, che è una cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli son galantuomini, e che tutti i popoli d’Europa sono, più o meno, disonesti. Perché credono che un popolo vinto è un popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna morale, è un atto di giustizia divina.
[…]
Il 1 ottobre 1943 è una data memorabile nella storia di Napoli: perché segna l’inizio della liberazione dell’Italia e dell’Europa dall’angoscia, dalla vergogna, e dalle sofferenze della schiavitù e della guerra, e perché proprio in quel giorno scoppiò la terribile peste, che da quell’infelice città si sparse a poco a poco per tutta l’Italia e per tutta l’Europa.
[…]
Ma le zone più frequentate dai liberatori erano proprio quelle Off limits, cioè quelle più infette e perciò più vietate, poiché è nella natura dell’uomo, specie dei soldati di tutti i tempi e di qualunque esercito, preferire le cose proibite a quelle permesse.
[…]
Ma quel che più commuoveva il popolo napoletano era la gentilezza di modi dei liberatori, specie degli americani, la loro disinvolta urbanità, il loro senso di umanità, il loro sorriso innocente e cordiale di onesti, buoni, ingenui ragazzoni. Se è mai stato un onore perdere la guerra, era certamente un grande onore, per i napoletani, e per tutti gli altri popoli vinti dell’Europa, aver perduto la guerra di fronte a soldati così cortesi, eleganti, lindi, così buoni e generosi.
[…]
La fame umana ha una voce meravigliosamente dolce e pura. Non v’è nulla di umano nella voce della fame.
[…]
Napoli […] è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. […] Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli.
[…]
Erano i giorni della «peste» di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo.
Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo.
L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.
Ma nonostante l’universale e sincero entusiasmo, non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo. »

Curzio Malaparte