L’incomprensibile suicidio di Edouard Levé

La vicenda editoriale legata a questo libro è tanto nota quanto drammatica: poco dopo aver consegnato il racconto per la pubblicazione, l’autore si è tolto la vita. Un atto imprevedibile, che si è trasformato in una terribile azione promozionale, rendendo il libro una sorta di diario ‘in tempo reale’ di una persona avviata verso il suo gesto estremo.

‘“Suicidio” rende tanti altri libri vani e inutili’, scrive L’Express in una delle recensioni che hanno segnato il clamoroso successo del libro di Edouard Levé, indissolubilmente legato all’esito imprevedibile e drammatico della vicenda editoriale: poco dopo aver consegnato il racconto per la pubblicazione, l’autore si è tolto la vita. Un atto imprevedibile, che si è trasformato in una terribile azione promozionale, rendendo il libro una sorta di diario ‘in tempo reale’ di una persona avviata verso il suo gesto estremo.

Lo spunto per il libro era giunto a Levé dal suicidio compiuto da un conoscente molti 25 anni prima: l’uomo era rientrato in casa con una scusa, mentre si stava recando ad una partita di tennis con la moglie che, udito lo sparo, era rientrata trovandolo senza vita. Lo scrittore cerca di immedesimarsi con l’amico, tenta di fornire una spiegazione a quella scelta, ma l’impressione che si ricava dalla lettura che in simili frangenti non si possa dire nulla di significativo. Il suicida resta incomprensibile all’autore, come Levé lo è, doppiamente, per noi.

Da un lato Levé, con la retorica di alcune espressioni, sembra ammantare il suicida della scontata mitologia che accompagna queste persone: ‘Nell’arte togliere equivale a migliorare. Scomparendo ti sei perpetuato in una bellezza negativa’; ‘Il tuo suicidio è stato un’azione a effetto inverso: una vitalità che produce morte’. Dall’altro lato, pare condividere l’accusa di egocentrismo che spesso viene rivolta a chi si uccide: ‘Non potevi accettare di mentire a quella semplice domanda: come stai?’, ‘Ti stupiva che i tuoi stati d’animo potessero essere tanto mutevoli senza che nessuno se ne accorgesse’.

Ma probabilmente il suicida non è un ragazzino immaturo né un eroe romantico. E forse, più dei suicidi, è facile spiegare i suicidi ‘mancati’. Più di questo libro ci appare vicina, nella sua inconsolabile tristezza, l’ingenuità dell’adolescente che scrive a uno psicologo da settimanale: ‘L’unico motivo per cui non oso togliermi la vita non è la paura. È che non so come si sta dopo’.

Marco Ferrazzoli

Edouard Levé, “Suicidio” (Bompiani, 2007)

Psichiatria tra scienza e terapia

“Benvenuti in una branca medica misteriosa e appassionante, dove i progressi delle neuroscienze si scontrano di continuo con quel gran pasticcio che è in realtà l’essere umano”: così l’autore Tom Burns accoglie i lettori di “Psichiatria”, un manuale dalla lettura agile, che introduce a una disciplina complessa, che va oltre la “mera medicina”.

Il libro numero 100 della collana Paperback di Codice è un manualetto agile e semplice, anche nel linguaggio, sulla psichiatria. Disciplina molto attraente, che talvolta rischia di scontare qualcosa al successo della psicologia o, più ancora, del dilagare delle ‘terapie’ per il disagio e la malattia mentale, per la quale c’è dunque bisogno di conoscere e comprendere i capisaldi scientifici.

Il libro di Tom Burns lo fa con equilibrio, spiegando come sia riduttivo pensare la psichiatria in termini di mera ‘medicina’, assimilandola eccessivamente alle branche che si occupano di altri organi del nostro corpo o di patologie diverse, come la cardiologia o l’oncologia. D’altronde, non bisogna neppure cedere al fascino che a questa scienza deriva dal fatto di dare forma ai nostri ‘demoni’ interiori: la depressione come versione amplificata delle nostre tristezze, lo squilibrio conclamato e patologico come amplificazione speculare delle nostre inibizioni e paure.

Quella della psichiatria è una storia travagliata, durante la quale i progressi hanno sempre dovuto fare i conti con i risvolti sociali della malattia, con il pregiudizio e la paura del ‘diverso’, scontrandosi continuamente con quel mistero irrisolto che è l’essere umano nella sua ‘psiche’ (anima, dal greco). Una sfida che si rinnova ad ogni scoperta, imponendo un continuo ripensamento delle questioni filosofiche irrisolte: libero arbitrio, dualismo mente-cervello, autonomia personale e obblighi sociali.

Ufficio stampa Cnr

Tom Burns, “Psichiatria” (Codice, 2006)

L’anteprima sul sito di Codice Edizioni

Quando la filosofia cura

Qual è la linea di demarcazione che separa il counseling filosofico dalla psicologia? Un interessante volume analizza il dibattito circa la valenza “formativa” della consulenza.

Appare curioso che un piccolo comune del litorale marchigiano, noto soprattutto come stazione di cambio, editi un volume sul counseling filosofico. E si potrebbe sospettare che, come molti altri centri della provincia italiana, Falconara Marittima abbia voluto approfittare della dilagante moda della divulgazione popolare della filosofia.

Il volume inaugura però un impegno editoriale ampio, coordinato dall’associazione L’Orecchio di Van Gogh, attiva anche in altri campi. La breve collettanea ha il merito di concentrarsi su un aspetto nodale della consulenza filosofica, quello che ancora oggi rende ‘sospetta’ tale pratica, pur in corso di veloce diffusione: il rischio che essa invada, senza averne le competenze scientifiche e quindi rischiando di produrre danni anziché vantaggi, il campo della psicologia.

In effetti, quanto il limite tra le due attività sia labile alcuni degli autori intervenuti lo confessano con molta onestà, criticando i paletti posti dagli stessi fondatori del counseling: la natura non ‘curativa’ e il porsi sempre al di qua delle situazioni patologiche.

Ma se si passa alla parte più interessante del libro, cioè l’appendice con le anamnesi di alcuni incontri, si scopre chiaramente che sia le situazioni di partenza dei pazienti (o consultanti) sia i metodi di approccio sono estremamente simili a quelli della terapia relazionale. Se differenza c’è, insomma, è rispetto alle analisi del profondo, alla freudiana in primis, che però anche nell’ambito delle psicoterapie sono ormai minoritarie, sia per le esigenze di risparmio (di tempo e denaro) manifestate dai pazienti, sia perché la impostazione ‘liberatoria’ della psicanalisi classica è ormai quasi sovvertita e sostituita da un’impostazione che privilegia la ricerca di senso, di un senso per affrontare lo smarrimento tipico della società contemporanea.

A suo modo, il contributo forse più indicativo è quello Maria Maistrini, che dichiara tranquillamente di fare uso nella propria attività di strumenti come i tarocchi. La domanda diventa dunque: se anche l’uso delle carte può avere effetti benefici, allora cosa distingue le terapie curative da quelle formative, e cosa impedisce di inserire nel calderone dalle rubriche epistolari di Natalia Aspesi e Massimo Gramellini che, ne siamo sicuri, con il loro buonsenso spesso risolvono i problemi dei loro mittenti? In tale quadro di ‘liberalizzazione’, arriverà il giorno in cui dopo aver ringraziato un amico per una chiacchierata che ci ha aiutato a stare meglio, ci vedremo presentare la parcella?

Marco Ferrazzoli

Moreno Monanari (a cura di), “La consulenza filosofica: terapia o formazione?” (Comune di Falconara Marittima, 2006)

Il padre, dalla Bibbia alla psicanalisi

Un saggio dedicato al tema dell’interpretazione psicanalitica della figura paterna, partendo da Freud per poi approfondire il pensiero di due studiosi che da questo si discostarono, Carl Gustav Jung e Jacques Lacan.

‘Il nome del padre’ richiama inequivocabilmente un segno religioso, ma anche un aspetto fondamentale dell’interpretazione psicanalitica.

Il saggio dedicato a questo tema da Giuliana Kantzà prende le mosse proprio dall’appartenenza ebraica di Sigmund Freud, per poi approfondire il distacco dalla originaria formulazione freudiana su tale tema che connotò il pensiero di Carl Gustav Jung e Jacques Lacan.

Il padre, in Freud, è uno dei soggetti principali della formazione della psiche, un protagonista di quell’imprinting infantile che segnerebbe in modo indelebile la nostra personalità per tutto il resto della vita. Il padre è al centro del tabù dell’incesto che, secondo il fondatore della psicanalisi, fa da perno alla nostra struttura relazionale. Ed è proprio dalla sua uccisione ad opera dei figli che, sul piano simbolico, le società si sono evolute secondo la forma che conosciamo.

Il dissenso di Jung, che trasferì sul piano mitico la ragione di gran parte dei meccanismi psicologici individuati da Freud, fu vissuto dai due studiosi in modo piuttosto traumatico anche sul piano personale. Toccò poi a Lacan rielaborare l’insegnamento freudiano, facendone la lente di lettura delle società contemporanee. Ma all’origine resta sempre il padre veterotestamentario al quale Freud, al di là del professato laicismo, era legato in modo ‘non puramente casuale’.

Marco Ferrazzoli

Giuliana Kantzà, “Il nome del padre nella psicanalisi” (Ares, 2008)

La scheda sul sito di Ares Edizioni

Quanto costa curare un anziano?

Da un medico di base con oltre trent’anni di pratica, una riflessione sull’esperienza del distacco e sul tema dei costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti.

Iona Heath è un medico di base con oltre trent’anni di pratica in uno dei quartieri più poveri di Londra.

Da questo suo libro sui “Modi di morire”, pertanto, ci si attenderebbe soprattutto il senso di un’esperienza ‘vissuta’ (per quanto quest’espressione possa apparire involontariamente ironica) rispetto all’evento finale e assoluto che, ogni anno, tocca 56 milioni di persone direttamente e indirettamente circa 300 milioni, cioè il 5 per cento della popolazione umana.

‘I costi del trattamento sanitario cui l’avevano appena sottoposta erano stati uno spreco inutile e penoso’, scrive ad esempio il dottor Heath dopo la scomparsa di una paziente novantenne. Ora, che dal dibattito sul diritto di decidere della propria sorte e di rifiutare ogni accanimento terapeutico, si passi a questionare sui costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti, appare una deriva di tipo salutistico e anagrafico piuttosto rischiosa.

E’ vero che la convinzione ‘di avere diritto a una salute perfetta’ è pericolosa, che anima ‘pretese eccessive’, tra le quali si possono annoverare anche le diffuse esagerazioni in merito all’utilità della ‘medicina preventiva’. Ma da qui a stabilire che gli anziani possano essere abbandonati senza cure, ce ne passa.

Marco Ferrazzoli

Iona Heath, “Modi di morire” (Bollati Boringhieri, 2008)

La scheda sul sito dell’editore

Un cancro chiamato Cameo

La storia di un uomo nel suo percorso di rievocazione e autoanalisi di fronte al cancro che lo ha colpito: un destino che lo porta inevitabilmente a ripercorrere la propria esistenza.

“Cameo” di Raffaele Crovi è un’opera di mestiere, godibilissima alla lettura, ma priva di una forza narrativa autentica, perennemente indecisa e oscillante tra la contemplazione descrittiva e il malcelato intento autobiografico.

Protagonista ne è Nando Mortara: ebreo, convertito per opportunità (nel 1939: i genitori sarebbero stati deportati e uccisi) e poi tornato alla fede originaria per ‘protesta’, di formazione psichiatra ma senza essere mai riuscito ad affrontare l’impegno di una attività terapeutica ospedaliera.

Un ‘non personaggio’, tipico di molta narrativa minimalista, che non a caso nel corso del libro sembra pigramente, rassegnatamente lasciare il posto al cancro che lo ha colpito: un destino, più che una disgrazia, davanti al quale ripercorrere la propria esistenza è inevitabile, quasi scontato.

Marco Ferrazzoli

Raffaele Crovi, “Cameo” (Mondadori, 2006)

La scheda sul sito dell’editore

Pozzuoli ai tempi del colera

Il romanzo storico di Rosario Zanni ci porta a Pozzuoli alla fine del XIX secolo, quando il colera causò centinaia di vittime.

La presenza delle epidemie nella letteratura è imponente: scenario e deus ex machina narrativo, esse consentono spesso agli autori di rinforzare emotivamente il racconto, oppure di creare le location ideali per far emergere caratteri e storie private dei loro personaggi. Solo immaginare “I promessi sposi” e il “Decamerone” boccaccesco senza la peste, oppure Verga senza la malaria e il colera, sarebbe impossibile.

Ora, Stampa Alternativa propone nella sua Collana Eretica “Mal’aria”, un romanzo storico su ‘Colerosi, affamati e ribelli di fine ‘800’ scritto da Rosario Zanni. Ci troviamo a Pozzuoli, a fine XIX secolo, quando il colera causò centinaia di vittime. La famiglia Pollio deve però combattere, oltre che con l’epidemia, con le rapine ai casotti del dazio, il movimento anarchico, gli stupri, l’emigrazione e il carcere. Difficile non pensare ai vinti verghiani, almeno per contrappasso, visto che la vicenda è segnata da un’ambizione incomprimibile di rivolta e riscatto.

La scrittura di Zanni è molto efficace, classica nel periodare, grazie anche alle frequenti incursioni semidialettali e al sapiente uso dell’anacoluto. Ne fanno fede già le prime righe del libro. “I negozi venivano chiusi, le strade erano deserte, la contrada Ospizio completamente abbandonata, infelicissime condizioni igieniche della parete inferiore del quartiere Castello e del quartiere Teatro, non da meno i quartieri del Largo a mare e dei vichi Torre, bisognosi di una portentosa basalatura e di lavori di condutture in ferro per la canalizzazione. I bambini scalzi e nudi, alcuni più grandi coperti di piccoli cenci che fungevano da mutande, rotolavano lungo le strade ricoperte di acque immonde di latrina e di rifiuti domestici con aria meno baldanzosa del consueto”.

Marco Ferrazzoli

Rosario Zanni, “Mal’aria” (Stampa Alternativa, 2008)

Nel paese dei ciechi

In una comunità delle Ande ecuadoriane abitata solo da persone non vedenti, è il protagonista a diventare ‘minorato’: oltre a essere molto meno abile nell’uso di altre facoltà quali tatto e udito, non riesce a spiegare in cosa consista la facoltà della vista, che solo lui possiede.

Racconto ostentatamente, forse eccessivamente, allegorico, ‘Nel Paese dei Ciechi’ racconta la breve avventura di un vedente che, vagando per le Ande ecuadoriane, capita in una vallata abitata solo da persone che non vedono e che hanno costruito la loro comunità sull’uso degli altri sensi, nei quali sono diventati tanto abili da poter condurre tutte le normali attività sociali.

La mancanza della vista li ha però indotti a un sovvertimento del ritmo giorno-notte, che per loro consiste in caldo-freddo, inducendoli a preferire il secondo per il lavoro, e alla totale amputazione, dal loro orizzonte concettuale, delle stesse idee per noi legate alla percezione e alla rappresentazione visiva.

Per questo, il contatto con lo straniero vedente si trasforma in un paradossale capovolgimento: è lui il ‘minorato’, non solo perché è molto meno abile nell’uso del tatto o dell’udito, ma anche perché i tentativi del protagonista di spiegare in cosa consista questa facoltà che solo lui possiede vengono interpretate come stravaganze oniriche, fantasie di un disturbato mentale, psicosi fuorvianti.

Persino nel confronto fisico, Nuñez fatica a imporre il vantaggio fornitogli dalla sua particolarità. L’unica abitante del Paese dei Ciechi ad apprezzare la sua originalità è Medina-saroté, non a caso considerata dai suoi concittadini una ‘svantaggiata’, poiché ancora conserva tracce dei bulbi oculari che, nella loro curiosa ‘evoluzione’, gli altri abitanti ormai non possiedono più e che, proprio per questo, è considerata da Nuñez l’unica ragazza apprezzabile.

La breve favola triste di Wells termina nella stessa cupezza che ne connota tutto lo sviluppo e il significato. In essa, come nelle altre sue più celebri opere, su tutte ‘La guerra dei mondi’, lo scienziato e narratore inglese trasferisce le proprie competenze naturalistiche in una visione surreale, onirica, inquietante.

Marco Ferrazzoli

Herbert George Wells, Il Paese dei ciechi (Adelphi, 2008 – quinta edizione)

La scheda sul sito dell’editore

Wedekind, educatore tragico e ‘osceno’

Considerato il capolavoro drammaturgico di Wedekind, “Risveglio di primavera” pone l’accento sulla scoperta, da parte degli adolescenti, del mondo degli adulti.

“Risveglio di primavera” è una delle più note opere drammaturgiche di Frank Wedekind, che Bertolt Brecht considerava, insieme con Tolstoj e Strindberg, ‘uno dei grandi educatori dell’Europa nuova’.

Scritto nel 1890, fu rappresentato però solo nel 1906 a Berlino, in versione riveduta e censurata a causa del suo contenuto ritenuto ‘osceno’. In effetti, il dramma pone l’accento sulla scoperta, da parte degli adolescenti, del mondo degli adulti: il titolo sta a indicare proprio l’affacciarsi delle nuove generazioni su una cultura dominante che viene però loro meramente imposta nella sua ipocrita stupidità.

“Frühlings Erwachen” affronta dunque il tema dei diritti della giovinezza che occupano impetuosi anche altre opere teatrali di Wedekind, “Lulù” tra tutte, con l’obiettivo di combattere i valori borghesi ottocenteschi, mitteleuropei in particolare. Il conflitto tra eros e morale descritto dall’autore fece sobbalzare la società guglielmina, anche per il linguaggio tagliente e per le situazioni grottesche nelle quali sono collocati i personaggi, destinati alla tragedia.

Moritz morirà suicida per i sensi di colpa nei confronti dei propri genitori, Wendla per un aborto praticato furtivamente, mentre Melchior è condannato al riformatorio e al bivio tra la reintegrazione e la fuga dalla socialità convenuta.

Ufficio stampa Cnr

Frank Wedekind, “Risveglio di primavera” (Il Melangolo, 2007)

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Il laico Soldati va a Lourdes

Appena ventottenne, Mario Soldati intraprende un viaggio a Lourdes per un’inchiesta giornalistica: il risultato è un reportage disincantato e, a tratti, spietato.

Nel 1934 Mario Soldati intraprese un viaggio a Lourdes: non per devozione, ma per un’inchiesta giornalistica.

Uno scrittore laico e un luogo di fede e di miracoli, raccontati con rigidissimi parametri razionalistici che oggi farebbero inorridire gli ‘atei devoti’ o i ‘teo-con’. Soldati non nasconde i suoi pregiudizi, li rivendica, con un’onestà intellettuale che nella Torino del tempo costituisce un coraggioso atto di anticonformismo.

Gli preme di evidenziare il classismo che il pellegrinaggio non annulla certo. Alla partenza, in mezzo alla città che conta, sparge subito sarcasmo a piene mani: “Di colpo, irrimediabilmente, mi trovai in mezzo ai preti” e a “poveri speciali, sono poveri cattolici”. Mette in discussione la sussiegosa filantropia cittadina, erede di De Amicis (un laico socialista, per inciso) più che di Don Bosco, ma – come un investigatore del Cicap a un congresso di guaritori – osserva criticamente anche la fede popolare.

Il pellegrinaggio è sofferenza e sacrificio solo per pochi malati gravissimi e per tutti gli altri, infermi inclusi, è occasione di fare un viaggio, “di divertirsi senza far nulla di male, compiendo anzi un’opera santa, acquistando meriti del Paradiso” scrive, sottolineando una contaminazione tra devozione e svago che non si capisce dove sia contraddittoria.

A Lourdes, il ventottenne Soldati trova una città allegra e continua a scandalizzarsi: “Se Assisi porta l’impronta dello spirito, Lourdes porta quella dello spiritismo”. Ma davvero il mistero deve necessariamente incarnarsi sempre nella semplicità francescana? Mettendo a fuoco il misticismo con lo sguardo spietato e disincantato del reportage, l’autore non vede ciò che non può vedere. ‘Un viaggio a Lourdes’ è accompagnato, in questa nuova edizione, da tre documenti che lo completano e lo spiegano.

Di Soldati, nel centenario della nascita, si ricorda anche l’uscita del Meridiano Mondadori che raccoglie cinque romanzi, di due Oscar (‘Vino al vino’ e ‘Le due città’), di ‘Un sorso di Gattinara e altri racconti’ per Interlinea e, infine, di ‘Amori miei’, raccolta di contributi edita da La Stampa.

Un profluvio di testi, doveroso omaggio a un grande protagonista della cultura italiana del ‘900.

Marco Ferrazzoli

Mario Soldati, “Un viaggio a Lourdes” (a cura di Salvatore Silvano Nigro, Sellerio editore Palermo, 2006)

La scheda sul sito dell’editore