Apocalisse. Vivere la catastrofe, immaginare il futuro

Durante la fase più acuta dell’epidemia da Covid-19, gli studiosi dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico (Ispf) del Consiglio Nazionale delle ricerche ha riunito nello Speciale “Pandemia. Osservatorio filosofico” una serie di contributi di natura umanistica sul tema. Qui il ricercatore Roberto Evangelista ripercorre l’approccio al tema della crisi nella storia.

Nel corso della sua storia l’umanità ha sempre attraversato crisi enormi. Ricostruire la memoria della civiltà umana vuol dire probabilmente ricostruire il filo delle soluzioni trovate, di volta in volta, per risolvere la possibilità della fine.

Una umanità senza strumenti, chiusa in mondi piccoli e spesso autosufficienti (ma meglio sarebbe dire, autistici) si scontrava facilmente con momenti critici. Difficile, per esempio, era immaginare che il grano falciato ricrescesse; difficile era immaginare la certezza di una discendenza; complicato era gestire la demografia. E se complessa poteva essere la tenuta dei costumi morali di una comunità, impossibile doveva sembrare gestire catastrofi naturali o sconosciute malattie. Non dobbiamo andare troppo lontano, per immaginare cosa può aver significato per le popolazioni precolombiane l’incontro con virus e batteri sconosciuti e portati dai conquistatori.

Spinoza, all’inizio del suo Trattato teologico-politico ci ricorda che se l’uomo potesse con certezza governare gli eventi e gli sconvolgimenti della natura, non sarebbe soggetto ad alcuna superstizione. Questo è vero, ma non significa che la razionalità e la conoscenza della natura sono gli unici strumenti che possono metterci in uno stato di sicurezza. Certo, conoscere la natura aiuta a prevenirne le insidie, ma nel frattempo che la nostra conoscenza aumenta e aumentando si scontra con nuovi e inimmaginabili dubbi, l’umanità ha dovuto, per non abbandonarsi al delirio della superstizione, trovare strategie di reazione che compensassero quella mancanza di conoscenza. Se a questo aggiungiamo, poi, che la conoscenza e il completo governo della natura non li raggiungeremo mai, ecco che evidentemente alcune strategie, diciamo superstiziose, continuano a mantenersi attive e a compensare la nostra conoscenza parziale delle cose.

L’umanità ha trovato una strada per reagire alle crisi: raccontarsi storie. Non bugie, proprio storie, miti, favole. Storie di riscatto, oppure di sconfitta, storie nelle quali si prefiguravano i problemi e le soluzioni di una crisi. Storie nelle quali potevano essere proposte le diverse possibilità, i diversi destini umani, per provarsi a scegliere, a immaginare e magari a costruire un futuro. A questi racconti venivano spesso accompagnate ritualità di diverso genere: rappresentazioni o feste collettive, che rendevano quel racconto operativo, ovvero funzionale a stringere la comunità e interiorizzare un certo tipo di messaggio.

La funzione più importante dei miti non veniva assolta dal contenuto della storia che veniva raccontata. La funzione più importante del mito era il racconto stesso, e la sua condivisione. Italo Calvino, nella sua introduzione a Fiabe italiane, ci ricorda che le fiabe sono vere, perché contengono tutto il catalogo dei destini umani e delle possibilità. Percorrere insieme questo catalogo, però, non voleva dire avere semplicemente una maggiore cognizione di quello che poteva accadere, e prepararsi al peggio. Non importa quanto le favole venissero credute vere, o quanto ci fosse di “materialmente” vero nel loro contenuto; ciò che importava, era rafforzare e confermare il legame sociale, perché questa era l’unica risposta che si poteva dare in assenza di altri mezzi. E non era una risposta banale, né semplice, né tantomeno inefficace. È probabilmente questo tipo di risorsa che in un certo momento ci ha garantito la sopravvivenza: la facoltà di immaginare un futuro anche nei momenti più difficili.

Reagire a una crisi che mette in discussione la nostra presenza come genere umano, ci ha permesso di costruire edifici culturali che hanno fondato le comunità e le società umane. E questo, probabilmente, fa la differenza tra la nostra specie e le altre.

Ma da un certo momento in poi, cambiano molte cose: entrano nuove abitudini, e altre vengono svuotate di significato. D’altra parte, La nascita della famiglia, della società civile e dello Stato di Engels ci ha già permesso di riflettere su quanto il passaggio da una società comunitaria a una società divisa in classi abbia reso l’edificio culturale uno strumento di dominazione: il passaggio da una società matriarcale e comunitaria, a una società patriarcale e suddivisa in dominanti e dominati ha imposto una strutturazione dello Stato, con regole ferree a garanzia delle quali venivano posti sacerdoti o magistrati che amministravano la giustizia divina e umana, funzionale soprattutto a mantenere uno status quo non del tutto naturale.

Rimanendo, però, più ancorati al nostro tempo, ritroviamo, nei lavori principali di Ernesto De Martino (al quale queste righe sono fortemente debitrici) una inoppugnabile ricostruzione della resistenza di istituti culturali propri del mondo popolare e contadino, e del loro essere rivelatori di una posizione di subalternità di chi si trovava ai margini del “miracolo economico”. A fondamento di questo riferimento, c’è l’introduzione di un modo diverso di produzione che ha sconvolto i rapporti sociali. La fine della civiltà feudale e l’alba del mondo borghese ha significato la possibilità di una produzione su larga scala di beni essenziali che precedentemente venivano reperiti e fabbricati con molta difficoltà, e ha anche permesso la liberazione da alcune forme culturali che erano diventate una pesante zavorra, non solo per il nostro spirito.

La diversa organizzazione del lavoro produttivo ha significato un avanzamento scientifico, e questo ci ha permesso di prendere in considerazione l’ipotesi che le forze numinose che guidavano l’umanità produttrice di miti non ci avrebbero più salvato, perché questa incombenza spettava a noi (bisogna riconoscere, senza poter approfondire, che anche il cristianesimo ha avuto un ruolo in questo passaggio). La natura è diventata a mano a mano governabile, e allo stesso tempo gli dei e gli eroi dei miti sono caduti, si sono rivelati per essere solo proiezioni dell’essere umano. Si è avanzata la sottile percezione (non sempre, anzi quasi mai seguita da un atteggiamento coerente) che il peso del nostro destino fosse solo sulle nostre spalle. Ma questa consapevolezza, invece di arricchirci, ci ha in qualche modo impoverito. La distruzione delle vecchie certezze non ci ha permesso di crearne di nuove, e ci siamo trovati di fronte a due vicoli ciechi: ripercorrere le vecchie strade, oppure affidarci a una scienza anonima e senza volto.

Ma la scienza, da sola, non basta. Certo, la nostra vita è migliorata sotto molti aspetti. Ma questo miglioramento nella maggior parte dei casi è solo potenziale. L’uso che facciamo della scienza e della nostra capacità di governare gli eventi è del tutto sottostimato, tanto più che l’accesso al benessere che molte conquiste scientifiche rappresenterebbero è ben lontano dall’essere comune e condiviso. Questa “preclusione al progresso” ci getta in una condizione di miseria culturale, nella quale abbiamo abbandonato il vecchio modo di descrivere la realtà e di risolvere i conflitti comuni, ma non ne abbiamo trovato uno altrettanto efficace, o adeguato alle sfide che sono diventate probabilmente più complesse.

Lo capiamo meglio, se guardiamo a come abbiamo reagito alla pandemia da Coronavirus. Bisogna, per descrivere la nostra reazione, guardare alle immagini giuste. L’eccezionalità dell’evento che in poco tempo ci ha fatto precipitare in una condizione impensabile, ha prodotto un sovraccarico di significazione, per cui qualsiasi episodio, passaggio, parola, ha assunto o sembra assumere il valore di un simbolo. Proverò a fare una selezione di alcune immagini che ho trovato particolarmente significative.

La prima: gli scaffali dei supermercati pieni, a dispetto dei primi “assalti” alle provviste. La merce non manca, anzi per ora (tranne le mascherine e i disinfettanti per le mani) non sono spariti dal mercato i beni di prima necessità. Il problema, ma questa è storia vecchia, è che di merce ce n’è troppa rispetto a quella che si consuma, tanto che ogni giorno assistiamo alla distruzione di merci invendute. La nostra apocalisse si rappresenta così: l’impossibilità di consumare, o almeno di farlo ai ritmi precedenti. Il mercato online non ci soddisfa allo stesso modo, ma soprattutto abbiamo imparato a consumare in casa, in solitudine, togliendo alla valorizzazione della merce l’ultimo aspetto umano. La seconda: i senzatetto di Las Vegas, “parcheggiati” (letteralmente) negli spazi destinati ad automobili che invece si trovano al sicuro e al riparo dentro un garage. La terza (più che un’immagine, un racconto): una minuta domestica di Rio de Janeiro, che affronta un lungo viaggio per raggiungere il suo posto di lavoro. La famiglia presso la quale presta servizio, vuole che riprenda subito a lavorare nonostante loro siano tornati da un viaggio in Italia proprio nei giorni in cui sono emersi i primi casi di infezione da coronavirus. I suoi datori di lavoro hanno contratto il covid ma – potendo accedere a cure migliori – guariranno facilmente; la domestica, invece, ne morirà. La quarta: una donna ucraina che, per affermare la sua esistenza, inizia a urlare e si stende in strada. Abita a Napoli in zona “Fontanelle”, un quartiere molto popolare del centro storico, e da qualche giorno il marito lamenta i sintomi di una infezione da covid e aspetta invano che qualcuno venga a dare assistenza e a somministrare il tampone per determinare la positività al coronavirus. Questa immagine la trovo particolarmente significativa, perché ricorda le reazioni scomposte di fronte alle quali si trova Ernesto De Martino nei suoi viaggi nel meridione italiano, quando vede un mondo popolare letteralmente prigioniero di forme culturali del tutto fuori tempo, che provengono da un passato preindustriale, ma che non servono più a risolvere le crisi ricorrenti (lutti, magri raccolti, espropri e pignoramenti, epidemie di malaria etc.) di un mondo che evidentemente non aveva accesso ai “normali” standard di benessere. La ritualità arcaica che De Martino trova nelle comunità lucane e salentine, nella maggior parte dei casi, è priva di veri e propri riferimenti culturali e, più che una soluzione adottata da una comunità per ristabilire un legame sociale, assomiglia a un delirio privato o collettivo che riflette un disagio destinato a rimanere inespresso, perché si ritrova svuotata dei miti che ne accompagnano la ritualità.

Oggi, di fronte alla crisi, abbiamo pochi strumenti di riscatto, perché anche quelli della scienza risultano molto inefficaci. Se da una parte, non abbiamo strumenti culturali potenti (anche la religione in questo frangente sembra essere arretrata a uno strumento privato, e non ha invaso la sfera civile, come invece avvenuto in altri momenti storici), se siamo disposti a considerare più che plausibile l’inesistenza di forze divine a cui appellarci, se la scienza si è spesso sostituita al mito – assumendone alcune funzioni narrative, certamente -, dall’altra non siamo stati in grado di compensare questa “perdita”.

La realtà è che siamo arrivati a questa emergenza privi degli strumenti adeguati per risolverla, e questo basta a gettarci in una condizione di miseria culturale. Un terremoto, a prescindere dalla sua violenza, fa più danni se trova un territorio preparato alla catastrofe. Allo stesso modo, un virus che non ha una impressionante letalità, diventa una catastrofe generalizzata, perché trova una comunità che ha messo in secondo piano la solidarietà, l’investimento a fondo perduto nei servizi sanitari, e che ha creato tutte le condizioni materiali per soccombere a una disgrazia che di per sé non sarebbe stata catastrofica. Ma oltre a questo, l’avanzamento del progresso scientifico non si è accompagnato a una riorganizzazione dei rapporti sociali in senso stretto, anzi al contrario: è prevalsa l’illusione che l’automazione e il progresso potessero permettere a ciascuno “di fare da sé”. Abbiamo accettato (ma non poteva essere diversamente) di trasportare nella nostra vita quotidiana la condizione di individui assoluti, sciolti da ogni vincolo morale e sentimentale, che la civiltà borghese ha contribuito a spazzare via. Lo abbiamo accettato come società, ma questo non significa che lo abbiamo accettato tutti allo stesso modo (tentativi di controtendenza esistono, ma su questo diremo nelle conclusioni). Perdere il nostro legame sociale ha avuto un ruolo importante nel farci accettare le misure di confinamento come un provvedimento inevitabile (queste misure non nascono come necessarie, lo diventano sulla base di una situazione pregressa). Inoltre, lo sfilacciamento del legame sociale è la causa della nostra insicurezza ed è anche la ragione per la quale ci limitiamo ad affidarci a dati di dubbio valore: le curve epidemiche, i numeri dei morti, i guariti e i nuovi contagi, ci accompagnano ogni giorno e ci illudono di descrivere la realtà in maniera impeccabile, offrendoci la percezione di poter predire il futuro, un futuro che deve apparire vicino, e nel quale tutto tornerà come prima. Un futuro, insomma, davvero troppo vicino al nostro presente.

Ma pur senza gli antichi miti, pur senza l’antica ritualità, anche la nostra epoca si figura la sua fine, e lo fa in un modo del tutto peculiare: l’incapacità di consumare, la rinuncia alla qualità della vita sociale cui eravamo abituati, la fine della scuola, l’impossibilità di avere un sistema di cura sanitaria adeguato, il confinamento nelle case e la possibilità di uscire solo per lavorare e per produrre valore, sono gli spiragli attraverso cui guardiamo il collasso della nostra società. Possiamo benissimo immaginare di muoverci verso un mondo nel quale la didattica a distanza diventerà una normalità, nel quale il diritto all’apprendimento verrà negato a grosse fette di popolazione, nel quale saremo sempre più isolati nelle nostre abitazioni, e chi avrà il “privilegio” di uscire lo farà solo per andare in fabbrica; una versione grigia e oscura del capitalismo che assomiglia all’altra faccia della medaglia di cui abbiamo spesso parlato durante la nostra frenetica vita sociale; una versione “oscura” – oppure, chissà, quella più chiara e reale – del capitalismo che spesso si è affacciata ai nostri occhi di consumatori appassionati, ma che adesso sembra incombere sulla nostra testa come annuncio di un futuro probabile.  

Questo scenario appare tanto più possibile, se ricordiamo, insieme a Marx, che il capitale ha un lato anarchico con cui disperde la sua mania di controllo e permette alle necessità e alle aspirazioni degli individui di svilupparsi, sebbene le lasci insoddisfatte. Infatti, se è capace di “produrre” tempo libero rendendo più alta la produttività del lavoro, deve lasciare che sia la classe dei proprietari a fruire di questa nuova libertà, a scapito di un’altra che invece assiste alla trasformazione del suo tempo di vita in tempo di lavoro[1].Si materializza un’apocalisse che non è la fine della nostra civiltà, ma ne è la fase suprema, la sua “iperrealizzazione”. Non sappiamo se questo avverrà per certo, ma lo vediamo e, anzi, l’impressione è che stiamo rimanendo fermi a contemplarlo. Non riusciamo a pensare un’alternativa, nemmeno come epilogo della nostra civiltà.

È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, scriveva Mark Fisher dieci anni fa. L’impossibilità di immaginare una fine a questo stato di cose, a rapporti sociali e produttivi così congeniati, è la vera e propria cifra ideologica della nostra epoca. Infine, il mito non è morto, e anche la nostra civiltà, anche il capitalismo, ha la sua mitologia, che non interpella nessun dio, ma descrive la perpetuazione di se stesso, il suo continuo perfezionamento, fino a sconvolgere gli stessi equilibri naturali pur di uscirne vittorioso, anche a scapito della stessa vita umana. Abbiamo decretato la morte delle ideologie, e con essa ci siamo condannati a una eterna ripetizione della nostra epoca. Nella visione dell’apocalisse che stiamo vivendo in questi giorni, non arriverà nessuno a salvarci, ma vivremo solo l’esasperazione delle contraddizioni di uno stato di cose che consciamente o inconsciamente ci siamo abituati a pensare come eterno o inevitabile. Il futuro che immaginiamo è davvero troppo vicino al nostro presente, non solo perché la logica dell’utilità impone di non andare troppo avanti nel tempo con l’immaginazione, ma anche perché difettiamo di quella fantasia che ci permettere di dipingere un affresco dei nostri possibili destini.

Naturalmente, questa percezione delle cose potrebbe risolversi in una di quelle “profezie autoavveranti”: con il nostro atteggiamento potremmo, cioè, favorire la trasformazione delle nostre vite in una certa direzione. Ma non possiamo ancora dire cosa succederà. Per fortuna.

La speculazione e la filosofia non ci aiutano a predire il futuro. E nemmeno i modelli matematici (casomai, le loro interpretazioni). Tuttavia capiamo facilmente che mai come adesso non possiamo rifugiarci nel There is no alternative, non possiamo adagiarci all’idea che tutto sarà come prima. Dobbiamo raccontarci una storia diversa. Abbiamo specificato, qualche riga sopra, che non tutti hanno accettato di allentare, di perdere una certa connessione sociale. Spesso le nostre scelte confliggono e resistono a un messaggio dominante che pure ci condiziona, ma che riusciamo a non accettare del tutto. Se così non fosse, non saremmo affezionati alla nostra sopravvivenza, non saremmo in grado di partecipare a iniziative e di mettere in campo azioni collettive che vanno in una direzione diversa.

Non dovrà tornare tutto come prima. Chiedere una sanità pubblica ed efficiente, pretendere anche in una condizione di questo tipo che i parchi restino aperti e che le fabbriche rimangano chiuse senza deroghe, spostare la centralità della nostra vita dal lavoro agli affetti, costruire reti di assistenza territoriali e pretenderne la regolarizzazione, relazionarsi agli altri Paesi in termini di comune e mutua solidarietà, e non in competizione (Cuba e Venezuela hanno mandato squadre di medici in Europa, mentre le nazioni occidentali cercavano di rastrellare le ultime scorte di mascherine rimaste sul mercato[2]), costruire una scuola che potenzi la sua funzione primaria, ovvero garantire il diritto all’apprendimento attraverso il contatto umano e attraverso l’educazione alle relazioni, sembrano cose piccole rispetto alle storie epiche di dei ed eroi; sono queste, però, le immagini reali e umane che prefigurano un futuro diverso, nel quale non saranno solo i ricchi a salvarsi, ma saremo ancora costretti a salvarci tutti insieme, nel quale la vita possa scorrere serena anche di fronte alle difficoltà, per come può farlo una vita a misura di un essere limitato e parziale come l’uomo, che nonostante tutto ancora non merita l’estinzione.

Roberto Evangelista, Cnr-Ispf

[1] «Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro la parte della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata alla libera attività culturale e sociale degli individui sarà tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente tra tutti i membri della società capaci di lavorare e quanto meno uno strato della società potrà allontanare da sé la necessità di natura del lavoro e addossarla ad un altro strato. Il limite assoluto della riduzione della giornata lavorativa è sotto questo aspetto l’obbligo generale del lavoro. Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe trasformando in tempo di lavoro l’intera vita delle masse». K. Marx, Il Capitale, Roma, 1970, libro I, sezione V, capitolo XV.

[2] Non sono state le uniche iniziative internazionali di solidarietà, ma sono state quelle più importanti e significative, soprattutto considerando la campagna diffamatoria che colpisce questi Paesi.

Il contributo sulle pagine “Pan/démia Osservatorio Filosofico” del Cnr-Ispf

Giovanni Boccaccio, Decameron, 1350-1353

L’autore descrive la peste che colpì Firenze (e l’Europa intera) nel 1348, concentrandosi sul degrado morale della società che l’epidemia ha portato con sé in città. Sette ragazze e tre giovani uomini decidono di allontanarsi dalla città, ormai allo stremo, e ritirarsi nella campagna fiorentina


Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata.

[…] E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento quasi tribulazione entrata n’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna e il suo marito; e , che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.

Una ‘pestifera’ novella

La Morte Nera del 1348 a Firenze ha un cronista d’eccezione: Giovanni Boccaccio, il quale, evidenzia come le relazioni cambiarono in peggio a causa dell’epidemia.

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella, non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascun infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate e in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente  cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare.

E non come in Oriente aveva fatto, dove morte; ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcune meno le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e venire, e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità e permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce, e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.

[…] E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento quasi tribulazione entrata n’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna e il suo marito; e , che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.

Boccaccio

Treccani Enciclopedia Online

Giovanni Boccaccio, “Il Decamerone” (1349-1353)

Romanzi medievali d’amore e d’avventura

Il brano è tratto dal romanzo cortese di Chrétien de Troyes, Erec et Enide. Nel testo proposto, i cavalieri si imbattono nella damigella affetta dalla lebbra. Solo attraverso un rituale simbolico molto particolare riesce a guarire, non senza l’intervento dei celebri eroi del ciclo bretone

VII • LA LEBBROSA
I tre cavalieri e la donzella ebbero molte avventure. Un giorno, si ritrovarono lungo una riva profondamente frastagliata e davanti a sé, videro un castello grande ed oscuro, e riconobbero il castello di Carcelois nella marca di Scozia. In questo castello re Artù era ferocemente odiato, ed infatti, appena essi ebbero rivelato la loro identità a quelli del castello, furono subito attaccati. Furono costretti a difendersi e con tanta energia che finirono per massacrare tutti gli abitanti del castello.
Di questa carneficina molto si pente Galaad, credendo di avere uccisi cristiani. Ma sopraggiunge a questo punto un prete, vestito di bianco, che porta il Corpus Domini in un calice. Egli rassicura Galaad, dicendogli che coloro che egli ha uccisi non erano cristiani, ma la gente più sleale che mai fosse vissuta, e che Dio gli sarebbe stato grato perciò che aveva fatto.
Dopo altre avventure, un giorno giunsero ad un altro castello, forte e ben situato. E trovano dei cavalieri ed una damigella che teneva una scodella d’argento in mano. I tre cavalieri volevano proseguire la strada, ma furono costretti a fermarsi, perché gli abitanti del castello volevano imporre loro quello che era il costume: e cioè prendere una scodella di sangue dal braccio destro della sorella di Perceval. I tre eroi cercano di difendersi, e ne segue una battaglia terribile nella quale tuttavia non riescono a venire a capo degli avversari. Infine, gli abitanti del castello li pregano di andare ad alloggiare presso di loro e, dopo averli trattati con la dovuta cortesia, spiegano loro la ragione del costume.
«Vero è,» disse uno di lì dentro, «che vi è qui una damigella alla quale apparteniamo noi e tutti quelli del paese, e questo castello e più di un altro. Avvenne, or sono due anni, che essa cadesse in una malattia per la volontà di Nostro Signore. E quando essa ebbe languito un pezzo, vedemmo che la malattia che aveva era un male che si chiama la lebbra. Allora mandammo a cercare medici in lungo e in largo, ma non ci fu nessuno che potesse guarirla. Venne per ultimo un saggio che disse che se potessimo avere una scodella piena del sangue di una donzella che fosse vergine in volontà ed in opere, purché fosse figlia di re e di regina e sorella di Perceval il puro, la dama se ne sarebbe potuta ungere e sarebbe guarita subito. Quando udimmo questa cosa, stabilimmo che se passasse damigella qui davanti, purché fosse pulzella, avremmo presa una scodella del suo sangue. Ora fate come vi piacerà.»
Allora la damigella chiama i tre compagni e dice:
«Signori, voi vedete che questa damigella è malata e io la posso guarire e se voglio essa non può sfuggire. Or mi dite ciò che farò.»
«In nome di Dio,» dice Galaad, «se voi lo fare, poiché siete giovane e tenera, non potrete non morirne.»
«In fede, se io morissi per questa guarigione, sarebbe ad onore mio e di tutto il mio parentado. E debbo ben farlo, in parte per voi e in parte per loro. E perciò vi dico che io farò la volontà loro. Io vi prego di concedermelo.»
Ed essi ne sono molto dolenti.
Ed allora essa chiamò quelli di dentro e disse loro di essere gioiosi e contenti perché la battaglia era cessata e l’indomani avrebbe fatto quello che è richiesto dalle damigelle.
All’indomani, quando ebbero udito messa, venne la damigella nel palazzo e comandò che le portassero la dama che era malata. Ed essi dissero che l’avrebbero fatto volentieri. Allora andarono a cercarla in una camera dove essa stava. E quando i compagni la videro, si meravigliarono molto, perché essa aveva il viso così disfatto e coperto di bottoni, e così malandato per la lebbra, che era meraviglia che potesse vivere in tale dolore. E quando la videro venire, si levarono in piedi e la fecero sedere. Allora comandò la damigella che le portassero la scodella ed essi gliela portarono. Ed essa trasse fuori il braccio e si fece ferire in una vena con una lametta aguzza e tagliente come rasoio. E il sangue ne esce immantinente e essa si fa il segno della croce e si raccomanda a Nostro Signore e dice alla dama:
«Madonna, sono venuta a morte per vostra guarigione Per Dio, pregate per la mia anima, perché sono alla fine.»
E mentre diceva queste parole, il cuore le venne meno per tutto il sangue che aveva perduto. E i compagni corrono a sostenerla. E quando essa fu rimasta lunga pezza fuori di sé, disse a Perceval:
«Ah! bel fratello Perceval! muoio per la guarigione di questa damigella. Io vi prego che non facciate
seppellire il mio corpo in questo castello, ma non appena sarò morta, mi mettiate in una navicella nel più vicino porto e mi lasciate andare così come mi mena l’avventura. E vi dico che non appena arriverete alla città di Saracenia ove dovrete andare per il Santo Graal, mi troverete arrivata sotto alla torre. E fate seppellire il mio corpo nel palazzo spirituale. E sapete voi perché ve lo chiedo? Perché vi giacerà Galaad e voi con lui.»
Così morì la damigella e la dama guarì, e i compagni le fecero funerali magnifici e là posero su un bel letto in una nave. Al capo del letto Perceval mise uno scritto che diceva chi era quella donna morta e le avventure che essa aveva aiutato a compiere. Poscia spinsero la navicella verso l’alto mare e la seguirono con gli occhi finché non fu trascinata dalle onde.

Angela Bianchini

Angela Bianchini, “Romanzi d’amore e d’avventura” (Garzanti, 2003)

Vedi anche: scheda sul sito Garzanti